C'era qualcosa di primordiale e grottesco nella paura che provai all'idea di aver perso George per la seconda volta. Mentre mi nascondevo in un fagotto subumano nel mio letto o facevo finta che mi importasse delle lamentele dei clienti al Gitem Euronics, mentre facevo la spesa per la settimana con Manuel o mentre guardavo Mansfield Park con Marie, in ogni momento pensavo a lui. Non fraintendetemi, non ero diventata una specie di Bella Swan che per capitoli interi pensa a Edward senza fare niente della sua vita. Ovviamente non pensavo troppo a George: diciamo solo che c'era sempre un piccolo angolino, un cantuccio speciale nel mio cervello riservato a lui. Era come una musica di sottofondo, la ascolti senza accorgertene, si trasforma in un suono abituale, finché non diventa parte di te.

Chiaro, c'erano momenti di intensa disperazione. Era come se mi fossi impiccata da sola, ero stata io stessa a portarmi via l'ossigeno. Eppure continuavo a respirare: smisi di chiedermi come avessi fatto a sopravvivere dopo i primi giorni, quando ormai Jacques e Marie avevano capito la situazione e avevano chiesto agli altri di non parlarne. Fu quando smisero di domandarmi che fine avesse fatto George che cessai di pensare a come fossi brava e in gamba ad essere ancora al mondo anche senza di lui.

Elisabeth Kübler-Ross scrisse che ci sono cinque fasi di elaborazione del lutto – perché dal mio punto di vista qualcuno era come morto. La negazione: avevo saltato a piè pari questo momento, perché solo una stupida scema avrebbe negato. La rabbia: che senso aveva infuriarsi? Era stata colpa mia e potevo avercela solo con me stessa. Il patteggiamento: cosa c'era da patteggiare? Non potevo fare niente, l'unico tentativo che avevamo fatto era andato a farsi fottere in tre, due, uno. La depressione: non ero depressa, ero solo così piena di rimpianti e così schifata da me stessa da non riuscire più a guardarmi in faccia.

Infine c'è l'accettazione.

Si tratta di un momento magico, quasi estatico: quando ti rendi conto che peggio di così si muore, che non c'è nulla che si possa fare, che è il caso di prendere coscienza di quello che è successo e di cercare di vedere il lato positivo, sempre che si riesca a trovarlo. Diciamo che io non riuscivo a trovare nulla di buono in quella situazione, ma devo anche ammettere che non credo molto nella psicologia – un po' mi spaventa che qualcuno riesca a guardarmi nella testa, non so se si era notato.

Comunque nel giro di un paio di settimane avevo "accettato", se così si può dire. E da quel momento George divenne il mio costante compagno di viaggio, come un ronzio nell'orecchio o un debolissimo mal di testa, come un tic nervoso o l'abitudine al caffè. Era lì dalla mattina quando aprivo gli occhi alla sera quando crollavo stremata nel mio letto, le mani ancora sporche di carboncino e tempera.

Sembra assurdo, ma più George ed io ci facevamo del male, più la mia arte fioriva. Avevo tanto da dire, tanto da raccontare, oppure tanto da non dire affatto. Una sera rimasi a fissare la tela vuota, immacolata, per quasi due ore, in silenzio, il mio respiro come unico suono e il fantasma di George Addison appollaiato su una spalla. Alla fine avevo capito che era esattamente quello, era il silenzio, che mi piaceva di quella tela. Era di silenzio che avevo bisogno, era il nulla quello che avrei tanto voluto provare. Così mi limitai a dipingere una cornice barocca color oro sui bordi della tela; il resto rimase bianco. Mi piaceva.

Volete sapere la verità? Il fatto è che ero rimasta parecchio disillusa dopo la laurea. Il mio lavoro faceva schifo, odiavo il nostro appartamento – e ancora di più il tizio a cui versavamo centinaia di euro di affitto – e perfino Parigi mi sembrava meno chic. Poi era tornato George e solo la Madonna sa quanto mi era sembrato l'unico in grado di tirarmi fuori dalla quotidianità. George che sapeva far diventare un noioso pomeriggio uggioso la più magica delle avventure, che vedeva in ogni oggetto una Passaporta per Hogwarts e che mi sapeva dare un calore umano di cui avevo un bisogno disperatamente ossessivo.

The Art of HappinessWhere stories live. Discover now