«Come mi devo mettere?».

«Beh, sdraiati, no?».

«Sdraiarmi come?».

«A pancia in giù sul materasso».

«Questa cosa si fa strana».

«Oh, sarà rapido e indolore».

Mi rendevo conto di quanto avrebbe potuto apparire ambiguo il nostro discorso alle orecchie di un estraneo; il fatto è che eravamo entrambi nervosi, George ed io, per motivi diversi. Lui prese un bel respiro, si passò una mano tra i capelli e fece come gli avevo chiesto. Si coricò sul letto sfatto, tra le lenzuola bianche, completamente nudo. Aveva le spalle così tese che se ci avessi lanciato contro un sasso sarebbe rimbalzato.

Appollaiata su uno sgabello alto, le dita dei piedi nudi contratte per la concentrazione, mi mordicchiai il labbro inferiore. Erano anni che non facevo niente del genere ed il mio cuore batteva così forte che mi sembrava dovesse scoppiare. Appoggiai la tela sulla mia coscia scoperta, tenendola ferma con la mano sinistra, e con la destra strinsi il carboncino che mi stava già macchiando le dita.

Esitai a lungo, nel silenzio assoluto della camera da letto, il debole rumore dell'orologio appeso sopra la cappa del fornello nell'altra stanza che giungeva ovattato. Feci per appoggiare il carboncino sulla tela, poi lo ritrassi e lo riavvicinai di nuovo.

Disegnare George era difficile. Tutti, con un po' di allenamento, sono capaci di rappresentare qualcuno per com'è, ma non sono molti coloro che sanno trasferire su un foglio bianco l'anima delle cose, che sanno osservare al di là della pelle e dei tendini e delle ossa e riescono a dipingere l'essenza.

Io non ero un'artista e non ero affatto capace di tirare fuori ciò che la gente ha dentro. Ci stavo riprovando dopo molto tempo e le mie dita fremevano mentre stringevano tela e carboncino. Era una strana emozione, un connubio di nervosismo e felicità.

Non ero del tutto sicura della ragione per cui avevo comprato quelle cose: guardai per un attimo i pennelli e i barattoli con i colori che stavano intorno a me sul pavimento, in attesa. Era capitato e basta: George mi aveva appena mandato un messaggio così ironico e allo stesso tempo romantico da farmi camminare a due metri da terra, proprio mentre passavo davanti ad una cartoleria. Era stato pensando a lui che avevo visto la tela e senza pensarci l'avevo presa.

«Rilassati», mormorai.

«Non l'ho mai fatto», si giustificò George.

Era di sbieco rispetto a me, né di fianco e nemmeno di fronte, così non poteva voltare la testa e guardarmi; ma io ero sicura che stesse arrossendo come una scolaretta al primo ciclo.

Fu con quel pensiero che iniziai a tracciare le prime linee. Fino a pochi anni prima sarei partita dalla curva delle natiche, perché era piuttosto facile da riprodurre, invece scelsi di partire dalla posizione quasi innaturale del collo.

Millimetro dopo millimetro, respiro dopo respiro il disegno prese forma. Scesi lungo le spalle, disegnando la schiena magra, le braccia ripiegate, le lenzuola che gli coprivano parte del fianco; del viso vedevo poco, solo il mento e la punta del naso, la tempia nascosta dai capelli castani.

«Piega le gambe, ti va?».

Lui annuì. «Come?».

Riflettei un momento, silenziosa. «Come se stessi leggendo un buon libro mentre fuori piove». Sapevo che non era esattamente un comando preciso, ma ero sicura che avrebbe capito al volo.

Sollevò i piedi, accavallandoli all'altezza delle caviglie, come una di quelle attrici di film tipo Grease quando parlano al telefono con l'amica del cuore. Ripresi a tracciare dei segni sulla tela: le ginocchia un po' ossute, i peli delle gambe. Sul polpaccio destro aveva una cicatrice che non avevo mai notato, dovevano avergli dato parecchi punti.

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