Io e Jacques decidemmo che il modo migliore di introdurre George nella compagnia senza farlo sentire un disagiato sarebbe stato al cinema: dopo le prime chiacchiere ci saremmo seduti ed avremmo guardato il film – o almeno finto di guardarlo tra una battuta e l'altra – e nessuno si sarebbe sentito in dovere di parlare con altri. George si sarebbe seduto accanto a me e tutto sarebbe andato alla grande.

All'inizio avevo pensato di andarlo a prendere al lavoro e andare al cinema insieme, ma poi mi venne in mente che sarebbe risultato troppo ambiguo per noi e per gli altri, così scartai l'idea. Allora decisi di farlo venire a casa nostra, dopotutto a parte Bette abitavamo tutti sullo stesso pianerottolo, ma Manuel disse che avrebbe potuto sentirsi un po' a disagio a stare "nel nostro habitat naturale", citazione testuale, quindi anche quell'ipotesi fu scartata.

L'unica era trovarci direttamente al cinema, ma come? Dovevamo arrivare puntuali, sperando che lui non fosse in ritardo? Perché se fosse stato in ritardo si sarebbe sentito in dovere di scusarsi e non era necessario che lo facesse. Però non potevamo presentarci noi, in ritardo, perché lui avrebbe dovuto aspettare al freddo e comunque sarebbe stato davvero orrendo, avrebbe pensato che non volevamo uscire con lui.

E in ogni caso era saggio presentarsi lì tutti insieme? D'accordo, Bette sarebbe venuta per conto suo, ma noi cinque – Marie, Jeannot, Manuel, Jacques ed io – saremmo piombati lì in massa e magari sarebbe risultato offensivo, come se volessimo escluderlo. O magari no. Però non potevo nemmeno chiedere agli altri di arrivare ognuno per conto suo.

A fronte di quello che vi ho detto, capite quanto potesse essere faticoso?

Alla fine Jacques disse che sarebbe venuto a prendere Manuel al lavoro, così sarebbero arrivati per conto loro. Io avrei fatto la strada con Bette, mentre Jeannot sarebbe venuto con Marie direttamente dal bar. Ognuno per sé e senza offendere nessuno.

A quel punto c'era un altro problema.

«Cosa mi metto?», strillai quella mattina. Avevo ancora solamente mezz'ora di tempo prima di uscire per incontrare il mio orrendo destino al Gitem – a gennaio ero nel reparto televisioni, vi lascio immaginare la mia gioia – e non avevo niente da indossare.

Jacques fece capolino dalla porta con lo spazzolino tra i denti. «Ma hai tonnellate di vestiti», bofonchiò.

«Non sputare dentifricio per terra e no, non ho affatto tonnellate di vestiti», sbottai, lanciando l'ennesimo maglione sul letto.

Manuel emerse alle spalle del suo ragazzo, cingendogli la vita con un braccio e facendo ondeggiare i rasta. Aveva ripreso il suo abituale aspetto drogatissimo. «Ma a George importerà come ti vesti, Sandwich?», domandò aggrottando la fronte. «Insomma, non siete solo amici?».

Gli avevo raccontato ogni cosa mesi prima, quando avevo iniziato a lavorare con lui al Gitem, in un momento di noia profonda. Non mi sorprese il suo commento, era appropriato.

«Tu non capisci», gli assicurai sgranando gli occhi. «Io ho bisogno di essere al meglio, chiaro? Perché se non sono bellissima non sarò nemmeno a mio agio e se non sarò a mio agio sarà una cazzo di tragedia».

«Non puoi mettere quello?», fece Manuel indicandomi un vestito bianco di lana, con il bordo in pizzo e le maniche a sbuffo, casual ed elegante allo stesso tempo.

«No, non posso», spiegai con pazienza. «Con quello dovrei mettere i tacchi, perché di scarpe basse che stiano bene non ne ho».

«E quelli?». Stava additando un paio di jeans con ricamate sopra delle perle argentate, stretti in fondo.

Li presi dall'attaccapanni e li osservai con sospetto. «Non mi ricordavo di averli. Con cosa potrei metterli?».

Jacques andò in bagno per finire di lavarsi i denti e Manuel si avvicinò al cassettone, a cui avevo sfilato tutti i cassetti per vedere meglio il contenuto. «Ma hai mai messo anche solo la metà di questa roba?».

The Art of HappinessWhere stories live. Discover now