«Léo?», berciò la voce di Marie all'altro capo della cornetta.
«Ciao, simpaticona, se Sophie mi scopre a fare telefonate personali sul lavoro mi licenzia in tronco».
«Anche io sono in pace col mondo, ti ringrazio», ridacchiò lei. «Volevo dirti che le foto sono pronte, non è che passi tu a prenderle?».
«Quali foto?».
«Le foto».
Impiegai un momento per capire che parlava delle decine e decine di fotografie che avevamo portato a sviluppare un paio di settimane prima. Solo allora mi venne in mente che avrei dovuto essere incazzata come una pantera con il fotografo che ci aveva impiegato così tanto per stampare solamente un migliaio di foto.
Marie ed io avevamo abbandonato tutto e tutti per festeggiare la laurea e ce n'eravamo andate per tre settimane in interrail. Era stata una cosa stupenda, io davvero non saprei descriverla. Avevamo scelto tutte città dell'est: Praga, Varsavia, Budapest, fino in Russia, dove avevamo concluso a San Pietroburgo – Marie era fissata con quel posto da quando aveva finito la tesi.
Erano state tre delle settimane più belle della mia vita. Zaino in spalla, soldi in contanti e niente cellulari, solo macchine fotografiche e tanta energia per balzare su e giù dai treni.
Era stato un salto nel buio, all'inizio, perché entrambe eravamo più il tipo da resort che da avventura. Invece avevamo scoperto uno spirito di adattamento che non credevamo di possedere, avevamo mangiato in piccoli bar, dormito in ostello, in treno e alle volte per terra, nelle stazioni, avevamo camminato fino a farci sanguinare i piedi e alle volte, alla sera, quando tornavamo in una piccola camera con il bagno condiviso, eravamo così stanche che non facevamo nemmeno la doccia. Io non credo a quelle persone che, al ritorno dall'interrail, dicono di aver trovato l'anima gemella. Diventi così lercio, durante quel tipo di viaggio, che non ti si filerebbe più nessuno.
Comunque, dopo mesi di accurata selezione, avevamo scelto di stampare circa un migliaio di fotografie e di raccoglierle in un album che avevamo comprato a Varsavia.
E le aveva portate lei, dal fotografo, non io. Le avevo indicato un negozio da evitare in maniera categorica, perché non ci sarebbe stato nulla per noi lì dentro. Non ci sarebbe stato nulla per me.
George.
«Hey, terra chiama Léo».
Mi riscossi al suono della voce di Marie. Potevo quasi immaginarla, all'altro capo del telefono, mentre metteva su una faccia alla Maggie Smith e batteva il piede a terra. «Sì, ci vado io appena il turno è finito».
«Ottimo», trillò. «Sai, dovreste proprio mettere su un servizio di sviluppo di fotografie, lì al Gitem Euronics», aggiunse come sovrappensiero. «Almeno le stamperemmo gratis».
Risi. «See you later, alligator».
«In a while, crocodile».
Dovevo riappendere la cornetta prima che Sophie mi beccasse. Mi ero nascosta bene, accartocciata sotto al bancone della postazione dell'assistenza computer con la complicità di Bette, ma chiunque avvicinandosi avrebbe notato il filo riccioluto del telefono che spariva sotto il ripiano. E avrebbero notato una mano che a tentoni cercava di riattaccare.
La mano di Bette afferrò la cornetta prima che la rompessi e la posò sulla base. «Aspetta», mi disse, «non alzarti ancora, c'è Émile».
«Quel deficiente», sospirai io, stringendomi le ginocchia al petto. «Vorrei che Manuel non gli avesse mai spento la cicca sulla mano».
Avevano litigato per un motivo a me sconosciuto, una discussione avvenuta qualche giorno prima che iniziassi a lavorare lì. Era da allora che Émile odiava Manuel e per estensione odiava anche me, perciò non ci avrebbe pensato due volte a denunciarmi a Sophie.
Anche quello era un segno, un'inconfutabile prova del fatto che stavo cambiando. Che il mondo intero cambiava. Fino a pochi mesi prima nessuno mi avrebbe mai odiata, la mia esaltante vita sociale mi avrebbe salvata dal baratro degli sfigati. Invece ero diventata una di loro e, senza neanche accorgermene, mi trovavo molto bene.
Guardai Bette. Sembrava del tutto diversa da quando aveva iniziato ad uscire con noi, sembrava brillare. Non scherzo, se prima era un grigino spento puntellato di macchioline rosa fluo, ora era un brillante rosso vermiglio con contorni d'oro.
Manuel ed io ne avevamo parlato, dopo che Bette era tornata a casa quella prima sera. Anche lui aveva notato il suo repentino cambio d'umore quando le avevamo detto di venire da noi, quando le avevamo giurato che per lei c'era posto. E non ci eravamo potuti spiegare, mentre buttavamo via i bicchieri di plastica, come mai fosse così cordiale e allegra e allo stesso tempo così sola. Come potesse non piacere alla gente. A noi era piaciuta da morire, quella sera.
Io, però, mi chiedevo altro. Come avevamo fatto a non accorgerci di quanto bisogno avesse?
Era da un po' di tempo che avevo smesso di pensare a me. Prima ero tutta io, io, io ed il risultato era stato rischiare un tracollo nervoso, evitato solo in un lampo di lucidità in cui avevo ripreso in mano la mia vita. Non ero stata abbastanza vicina a Marie quando credeva di aspettare un figlio, né avevo compreso fino in fondo il disagio di Jacques in piena crisi sessuale.
E non avevo capito un cazzo di George, non avevo proprio capito.
Nessuno me lo aveva mai detto, io mi ero limitata a riversare i miei problemi sugli altri aspettando magiche soluzioni estratte dal cilindro. Nessuno mi aveva mai accusata di disattenzione, né Marie, né Jacques, nemmeno George lo aveva fatto in mezzo a quella sfilza di verità che mi aveva rigettato addosso.
E Paul?
Mi dispiaceva così tanto, per lui, così tanto. Non è che si fosse disperato troppo, lui non era quel genere di persona che ama struggersi troppo a lungo. Tendenzialmente era un uomo felice della sua vita, riconoscente di quello che aveva, consapevole del proprio potenziale e di indole soddisfatta. Da un certo punto di vista ero solo contenta che fosse così, perché vederlo distrutto a causa mia sarebbe stato un colpo al cuore. Ma nulla mi avrebbe mai fatto cambiare idea.
Marie una volta mi disse che ero diventata perfino meno cattiva, dopo. Non ci avevo creduto, perché non mi andava di ripensare alla mia storia con Paul come ad un totale fallimento, sarebbe stato ingiusto. Era andata bene, almeno per un po'. All'inizio.
E comunque ci sono problemi più gravi, voglio dire, c'è gente che muore là fuori, i miei drammi da quattro soldi non meritano tanta attenzione. Era questo che pensavo, basta piangersi addosso, basta sciocchezze.
«Sai, Léo, sto facendo sogni davvero orribili ultimamente», sospirò Bette senza preavviso.
«Sogni orribili?».
Annuì. «Incubi. Mia madre è morta quando ero una ragazzina e nelle ultime settimane continuo a vederla tutte le notti, costantemente». Ci rifletté sopra qualche istante. «Secondo te è normale?».
«Oh», sospirai. «Non saprei, Bette. Può capitare nei periodi di stress di rivivere qualcosa di spiacevole nei propri sogni».
«Il fatto è che non sono troppo spiacevoli, come sogni intendo. Sono solo io che faccio cose con mia madre. Diventano incubi nel momento in cui mi sveglio e scopro che lei è ancora morta».
La fissai a lungo. «Non lo sapevo».
«Sono andata in crisi alimentare per quello, penso», mormorò soprappensiero. Allora fece un sorriso ironico: «Ora, invece, mi piace solo mangiare!».
Non sapevo se quell'ultima battuta di spirito fosse un modo di scacciare la tensione o se fosse davvero in vena di scherzare. Non feci in tempo ad aggiungere altro che sparì per fumarsi una sigaretta.

The Art of HappinessDove le storie prendono vita. Scoprilo ora