Marie ed io consumammo una cassa di birra in solitaria, nel pomeriggio, e quando arrivammo alla festa eravamo già brille. Lei si aggrappava a Jeannot per stare in piedi.

L'appartamento di Max – un bellissimo attico nella Villette, che in realtà apparteneva ai suoi genitori – era così affollato che sarebbe stato un miracolo trovare Marie se l'avessi persa di vista. Alcuni degli invitati erano amici dell'università, molti dei quali avevano portato un partner o un amico, o entrambi, mentre di tutti gli altri non avrei saputo dire nemmeno il nome. Capii di non conoscere quasi nessuno dopo appena cinque minuti di osservazione.

 La musica era quasi assordante, all'inizio: c'era un dj che aveva tutta l'aria di essere un tossico che metteva su dischi pop tenendoli ad un volume al limite della sopportazione umana. Fu Louise, la ragazza di Max, a chiedergli di abbassare i toni dopo le prime lamentele. Per la prima volta da che la conoscevo le fui grata per qualcosa.

 Lui, Max, venne da noi per la prima volta dopo più di un'ora, con un sorriso smagliante e un bicchiere di vino bianco in mano.

 «Eleonora, Marie!», esclamò. Sembrava alticcio e una ciocca di capelli era sfuggita al gel. «Ragazze, meno male che ce l'avete fatta a venire».

 Marie gli sorrise e lo baciò sulle guance. «Max, lui è Jeannot, il mio ragazzo».

Il nostro Max era un tipo simpatico, che amava conoscere gente per il solo gusto di farlo. Certo, Louise lo teneva un po' al guinzaglio, ma la sua indole non poteva non prendere il sopravvento. Non avevo mai conosciuto qualcuno che organizzasse cene e feste più belle delle sue. Abbracciò Jeannot come se lo conoscesse da sempre, scarmigliandogli i capelli castani. «Benvenuto, amico, fai come fossi a casa tua».

 Qualcuno, da qualche parte, chiamò il suo nome, così il nostro anfitrione ci salutò e ci lasciò da soli. Mi guardai intorno, in cerca di qualcuno che potesse darmi un bicchiere. Avrei voluto anche io presentargli il mio bellissimo e sciccosissimo fidanzato: lo avrei anche fatto, se solo il suddetto uomo si fosse presentato alla festa come mi aveva promesso.

E dire che Max, dopo aver saputo che sarei andata, mi aveva fatto arrivare un bel bigliettino: "Eleonora Gentilini +1", dicevano le letterine dorate sul cartoncino rosso. Fanculo, il mio +1 aveva addotto un miserevole mal di testa e mi aveva chiesto di poter rimanere a casa.

«Era una scusa», dissi a Marie quando mi chiese spiegazioni. «Lo vedevo lontano un chilometro che non aveva affatto mal di testa».

«Quindi che fa?», domandò lei, ballonzolando a tempo di musica e stringendo convulsamente la mano di Jeannot. «Resta a casa da solo?».

 «No», risposi con un'espressione imbronciata. «Ha telefonato a suo fratello, passeranno il capodanno insieme guardando film e bevendo birra. E dire che a lui piacciono, le feste! Perché non è venuto?».

 La mia amica aggrottò la fronte, mettendo il broncio. «In effetti non se ne perde una. Però magari a capodanno voleva fare qualcos'altro».

 «Beh, non è certo un mio problema», sbottai.

Jeannot, il dolce e cordiale Jeannot che sembrava così perfetto per Marie, mi strinse la spalla in un gesto amichevole. «Non ti preoccupare, Léo, vedrai che aveva dei buoni motivi».

Non ce la facevo ad essere scortese, non con quei due: nonostante fossi incazzata come una faina erano troppo stucchevoli ed altruisti per divenire oggetto di risposte brusche. Gli sorrisi con aria mesta. «Non dubito che avesse dei buoni motivi», risposi, «ma lo aveva promesso. Sai quante partite di calcio sono andata a vedere con lui, anche se non me ne fregava niente? Però lo avevo promesso e ci sono andata».

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