Star Wars || Raccolta One-Sho...

Autorstwa BrcwnEyes

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[ 𝑅𝐼𝐶𝐻𝐼𝐸𝑆𝑇𝐸 𝐶𝐻𝐼𝑈𝑆𝐸 ] Raccolta di one-shots con protagonisti i personaggi di Star Wars apparte... Więcej

Premessa, Contenuti e Disclaimers
⚠ IMPORTANTE
OS: "Nessuno dietro il Mare delle Dune" / Obi-Wan Kenobi
OS: "Pesante è il capo di chi porta l'elmo" / Din Djarin
OS: "Shuk'la" / Din Djarin
OS: "Stelle appese" / Stormpilot
OS: "Il fiore nell'abisso" / Enfys Nest
OS: "Famiglia" / Rey, Finn, Poe [Ep.IX Concept Art]
🎬 Parliamo di: "Gli Ultimi Jedi"
🎬 Parliamo di: "Solo: A Star Wars Story"
🎬 Parliamo di: "L'Ascesa di Skywalker"
🎬 Parliamo di: "The Mandalorian", S.1
IM: PRIMO INCONTRO - HAN
IM: PRIMO INCONTRO - LUKE
IM: LA SFIDA - HAN X CONTRABBANDIERA
IM: L'APPUNTAMENTO - HAN X CONTRABBANDIERA
IM: UN MONDO PIÙ VASTO - LUKE
IM: RIPARAZIONI - HAN X PILOTA
🎲 CHALLENGE: Il latte blu della zia Beru
🎲 CHALLENGE
🎲 CHALLENGE : Le ciambelle sulla testa di Leia Organa
📌 RICHIESTE - non più disponibili
📌 RICHIESTE, 2 - non più disponibili
PROMPT: Anidala, n°24
PROMPT: Anidala, n°6
PROMPT: Finnrose, n°30
PROMPT: Hanleia, n°8
OS: Hanleia
PROMPT: Han Solo, n°22
PROMPT: Han Solo, n°21
PROMPT: Han Solo, n°26
PROMPT: Han Solo, n°5
PROMPT: Han Solo, n°2 (R.2)
PROMPT: Han Solo, n°30 (R.2)
PROMPT: Luke Skywalker, n°26
PROMPT: Luke Skywalker, n°19
PROMPT: Luke Skywalker, n°25
PROMPT: Luke Skywalker, n°27
PROMPT: Luke Skywalker, n°23
PROMPT: Luke Skywalker, n°29
PROMPT: Luke Skywalker, prompt su richiesta
PROMPT: Luke Skywalker, n°19 (R.2)
PROMPT: Obikin, n°19
PROMPT: Obikin, n°10
PROMPT: Obikin, n°12
PROMPT: Poe Dameron, n°13
PROMPT: Rey, n°3
PROMPT: Reylo, n°14 (R.2)
PROMPT: Skysolo, n°6
PROMPT: Skysolo, n°3 (R.2)
PROMPT: Stormpilot, n°32
PROMPT: Stormpilot, n°1 (R.2)

OS: "Di rimpianti, silenzi e lune gemelle" / Mandomera

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Autorstwa BrcwnEyes

🥇Primo posto al Rick-contest 2021, categoria one-shots/storie brevi, organizzato da LeCose

Bollino, banner e copertina
realizzati da LeCose

Personaggi: Din Djarin, Omera, Grogu
Coppia: platonic!Din Djarin/Omera
Localizzazione: The Mandalorian, 1×04 // missing moment - poche ore dopo la battaglia contro i predoni Klatooiniani e l'AT-ST
Genere: introspettivo, fluff condito con una sana dose di angst (o viceversa?)
Note:
STATE PER LEGGERE UN MOSTRO DI 3.7K+ PAROLE (perché, giusto per autocitarmi, nessun Obi-Wan mi ha mai istruita nelle vie della sintesi), BIMBI AVVISATI MEZZI SALVATI
➝ La direzione ci tiene a ringraziare l'Uomo di Latta, la sua sindrome da touch starvation e la sua incapacità di articolare più di un paio di sillabe alla volta (anche se in questa nuova stagione lo vedo particolarmente loquace?¿ COSÌ, DE BOTTO?) & si scusa anticipatamente per il disagio
Disclaimer: La backstory di Omera non è nulla di ufficiale, ma un mio headcanon

Cabure.¹

Un soffio tiepido sulle labbra, subito congelato nel beskar, troppo flebile per passare attraverso il modulatore. Il peso di una goccia di rugiada e di tradizioni scolpite nei millenni.

Un bocciolo dischiuso nell'intimità della notte, nel conforto inspiegabile, quasi ancestrale, che si respirava mentre i fumi della battaglia si dissolvevano nel freddo caliginoso, il fango riaffiorato in superficie precipitava sul fondo delle pozze di krill e gli abitanti del villaggio smontavano i pezzi recuperabili del bestione di duracciaio impantanato nella fossa.

Scrigni di un avorio senza gelo, le lune gemelle erano troppo lontane per potersi toccare, ma non abbastanza perché il dolce sfiorarsi delle loro aure lattiginose non lasciasse presagire la prospettiva opposta. L'intera radura si mostrava immersa nel fascio discreto delle due sorelle, appese a quello spicchio di cosmo tra l'incessante fluire degli astri e il preludio di un abbraccio destinato a rimanere nell'illusione.

Ma ora che la quiete dopo la tempesta spira fra tetti addormentati e frasche umide, l'oscurità in cui si ritrovano a galleggiare non è più quella del cielo.

Almeno, non dal suo nuovo punto di vista.

È il profondo nero di altre due forme tondeggianti, incastonate tra margini spessi e verdastri che, nonostante i recenti tumultuosi sviluppi, non mostrano maggiore intenzione di volersi incontrare.

Per averci provato, Mando ci ha provato – per uno avvezzo ai piani di riserva, probabilmente non abbastanza. Gli avessero detto prima che un simile scriccioletto poteva contenere tutta quell'acqua, non ci avrebbe mai creduto. E se al momento taglie spinose, Imp armati fino ai denti e Hutt assetati di crediti gli sembrano grattacapi ben più gestibili, e se per questo motivo non riesce, neanche sforzandosi, a provare insofferenza – perché lui non è e non ci tiene particolarmente a fare da balia –, sarà solo una suggestione della stanchezza.

Deve esserlo.

Non certo quei due buchi neri spaventosamente liquidi che, in un modo o nell'altro, sono riusciti ad individuare l'esatta posizione delle sue pupille oltre l'elmo, e in quelle i contorni tremolanti di una macchiolina rossa. A riconoscervi i lineamenti ancora vividi di un bambino bardato dello stesso colore, stipato nello sportello di un bunker sotto una tormenta di spari, con il terrore di essere rimasto solo nell'universo marchiato a rivoli umidi sulle guance.

Neanche volessero strappare a forza le cicatrici di quella parte di lui che sembra, ma non è – per fortuna o per disgrazia –, forgiata nel beskar.

«Posso essere d'aiuto?»

È una voce familiare. Si accende e si spegne con la stessa timidezza di una lucciola che interrompe un centimetro di notte, prima di esserne nuovamente inghiottita.

Ma il sesto senso da cacciatore è fin troppo abituato ad entrare in azione nelle tenebre. Lo sguardo di Mando è scattato sull'uscio della capanna al semplice scricchiolio del legno, senza concedergli il tempo di crogiolarsi nel soffice tessuto di quelle parole, nel loro calore così umile. Domestico.

"Deformazione professionale", si giustifica, ma basta solo alla metà di lui che non è costretto a mettere a tacere.

Quando poi alla voce sovrappone la figura, il sollievo che si aspettava di provare nel riconoscere un volto amico gli scivola addosso come acqua gelida. Perché l'unica persona in cui farebbe affidamento per— questo— è anche l'ultima che vorrebbe mai dover disturbare.

Ed è lì davanti a lui.

Intanto è già trascorso un po' di tempo. Quello che basta a ricordargli che forse le dovrebbe una risposta. Ma l'unica piega che perturba il suo silenzio stoico e metallico è quella che prende l'elmo quando ricade sul Bambino, nell'indolenza rassegnata, tutt'altro che stoica, di chi, di risposte, non ne ha.

In ogni caso, non gli sembra che Omera abbia fretta, e comunque non più di quanto gli sembri aver interpretato il suo sconforto come un muto invito a farsi avanti.

È profondamente semplice il candore con cui lo sguardo della donna pare voler carpire il suo consenso direttamente dal transparisteel oscurato della T. È lo stesso timido bianco che riluce nelle mandorle dei suoi occhi, ancora annacquati dal sonno, quando Mando allenta per lei la stretta intorno al piccolo – "prendilo" – e racimola il coraggio necessario per farli incontrare con i suoi.

Con il Bambino stretto al seno, le braccia di Omera cominciano ad oscillare su e giù, sulla scia ormai sbiadita di quel percorso che ogni madre conosce a memoria. Intorno a quella tenera danza, quella del tempo pare librarsi in punta di piedi, le parole non dette del cacciatore fluttuare, come per la paura di romperne il delicato equilibrio. Almeno finché quello che fa dopo inizia a far vacillare le palpebre della creaturina, trasformando i suoi vagiti in blandi cinguettii e mortificando in pochi secondi i vani tentativi di quelle che a Mando sono sembrate ore.

E ora è lui che – candidamente – non riesce a trattenere una domanda.

«Come ci riesci?»

Omera lo guarda.

Lo guarda come guarderebbe sua figlia o uno degli altri bambini se le avesse fatto la stessa domanda.

«Ho perso il conto delle volte in cui lo facevo con Winta, quando era più piccola e non riusciva a dormire.»

E poi— «Vuoi provare tu?»

Il bianco si raffredda, condensandosi in una coltre d'indaco, opaca e illeggibile. Si arrampica tra i pertugi delle scuse che Mando vorrebbe accampare ma gli restano incastrate in gola e, ghiacciandosi, ne diventa lo scheletro – solo perché un'armatura non può essere più rigida di così.

Poi una mano tentenna sopra l'altra, meno incerta sul da farsi che intimorita dal riscontro. La pelle di un guanto si ritira lentamente, lasciando il posto a un tessuto ruvido e pallido.

Caldo.

E questa è una di quelle volte in cui il visore somiglia di più a due occhi.

In una stentata imitazione di Omera, Mando porta l'indice sul groviglio di grinze sulla fronte del Bambino e, a primo impatto, gli sembra meno ruvido di quello che pensava. Fa scorrere il polpastrello in giù, fino a fermarsi sulla piccola protuberanza solcata dalle narici – una, due, tre volte. Dopo forse la sesta, il dito non gli trema più, ma devia dal solito percorso per raccogliere le ultime gocce che si rifiutano di cadere. Probabilmente alla decima, il casco è già virato tutto da una parte, come sotto l'influenza di un campo gravitazionale o la spinta di radici calde e pulsanti che penetrano tra crepe sterili...

Ma ha già perso il conto quando, a riportarlo con il cuore per terra, è una serie di piccoli ronfi che a intervalli regolari interrompono il silenzio rinnovato nella capanna.

E lo sguardo compiaciuto di Omera.

«Qualcosa mi dice che ce l'abbiamo fatta.»

Alla vista del Bambino addormentato, il cacciatore soffia dal naso, un equo misto tra sollievo e stupore. Non da ultimo, verso se stesso.

«Così sembra.»

Dank farrik, se quel cosetto è strano!

Ma è ancora più strana la delicatezza con cui Mando fa scorrere le dita prive di guanto dal bavero della tunichetta fino alla punta di un orecchio. Lì si raccolgono e, distrattamente, premono. Per un motivo che al momento gli sfugge. O, per spirito di autoconservazione, preferisce farsi sfuggire.

«Ma non è mai detta l'ultima parola con questo piccoletto.»

E mentre la donna deposita il minuscolo topo rago nella culla lì accanto, l'attenzione di lui si sposta su un altro nodo inestricabile. Lo è solo da qualche giorno a questa parte, in realtà, ma non è un attenuante per non dargli da pensare.

A come, per una sola volta, vorrebbe non fosse così difficile, con un modulatore in dotazione, colorare una frase affinché non sembri un asettico riflesso condizionato. Soprattutto quando si tratta ogni volta della stessa frase.

«Ti ringrazio.»

Il valore che quelle parole hanno per lui va ben oltre la frequenza con cui si ritrova ad articolarle, ma la sua devozione alla Via non gli dà di che stupirsene. Si stupisce, piuttosto, di come Omera gli sembri soppesarle per la prima volta.

Poi la vede sorridergli. Di un sorriso che, sotto la fioca luce della lanterna a muro, tradisce l'impronta di quel riposo tolto prematuramente, ma dimostra tutt'altro che impazienza. È di quelli che non si aspettano niente, ma capiscono tutto.

O quasi.

«Siamo noi a dovervi ringraziare. Per tutto quello che avete fatto.»

Lui annuisce, in quel suo modo un po' ieratico.

D'altronde, non potrebbe spiegarle né come né perché quella sovrabbondanza di plurali lo disturbi ad un livello profondo, ma non così abissale da risparmiargli una punta di amaro nella saliva. L'unica cosa di cui è sicuro è che almeno Cara, con questo, non ha nulla a che vedere.

«Ma forse potremmo fare di meglio se il punto delle nostre conversazioni è sempre e solo ringraziarci a vicenda.»

Se Omera stempera quella frase con lo sbuffo leggero di una risata, le falangi di Mando si stringono a morsa intorno ad un fardello invisibile e la pelle del guanto che ha ancora indosso sfrigola come beskar sul fuoco. Come se dietro a quell'implicito "Non voglio fartelo pesare" avesse rilevato l'ombra di un "Ma neanche tacertelo per sempre".

E per un sempre che – lo sanno entrambi – si limiterà al più ad altri pochi giorni, fa parecchio male.

Per un istante ha l'impressione di trovarsi davanti una sagoma quasi evanescente, argento lunare intrecciato a lunghi capelli corvini e dita sottili che tormentano l'orlo consunto di una manica, ma non è neanche la cosa peggiore. La cosa peggiore è che articolare parole non gli riesce facile come destreggiarsi tra detonatori, mirini e grilletti e non ha idea di come darle né torto né qualcosa che non sia sempre e solo un "grazie".

«Vi lascio riposare... Per qualsiasi cosa la mia porta è sempre aperta.»

«Omera

È un sospiro rauco, quello del Mandaloriano. Basta a trattenere la donna tra gli stipiti costruiti tra legno e corda, solo per un pelo a fare lo stesso con un'urgenza disperata. Vederla voltarsi appena verso di lui, poi, è un pugno sferrato allo stomaco.

Ed è così stanco. Di molte cose, troppe per poterle elencare tutte, ma ora, soprattutto, di darle sempre l'impressione di essere sul punto di dire qualcosa di importante per poi rinunciarvi come se non lo fosse più. Come se lei non lo fosse affatto.

Resta.

Anche solo per un po'. Perché io non potrò farlo per sempre.

«Posso farti una domanda?» chiede invece.

Ed è a dir poco ironico, visto e considerato l'ambiente da cui proviene e i relativi protocolli.

Le spalle di Omera seguono il corso di un sospiro.

«So quello che ho detto prima. Ma non dobbiamo parlare se questo può metterti a disagio.»

Mando azzarda qualche passo avanti. Solo quando il fruscio di indumenti e il cozzare del metallo spinge Omera a girarsi completamente verso di lui, si decide a parlare.

«Io so che vorrei fare di meglio,» asserisce, quasi solenne.

Nel sentire le sue stesse parole tornarle indietro, lo sguardo di lei scivola rapidamente verso il basso, come se il certo grado di discrezione delle ciglia potesse effettivamente farle da riparo. Quando ritorna sul visore, gli angoli delle sue labbra tirano leggermente verso l'alto.

«Qual è la tua domanda?»

Il respiro gli trema sul confine delle labbra e Mando realizza solo allora di averlo trattenuto.

Non è ancora una causa persa.

«Dove hai imparato a sparare in quel modo?»

La vede inarcare un sopracciglio. È evidente che non sia la domanda che si aspettava.

«Ti sembra strano che un'allevatrice di krill sappia badare a se stessa?»

Il suo tono esclude ogni traccia di malizia, ma non è una scusa sufficiente perché l'elmo del suo ospite non scatti di lato.

«Mi sembra strano che, fino a due settimane fa, fossi l'unica in tutto il villaggio a saperlo fare.»

«Non ho sempre vissuto qui,» replica lei, e adesso gli sembra quasi che sia tornata a sorridere davvero, solo non nel modo in cui è abituato.

Non la stella che illumina il cielo terso, ma la nuvola che lo offusca.

«In realtà, prima che Winta nascesse, ho vissuto ovunque e da nessuna parte per molto tempo.»

Il cacciatore non interviene; per incoraggiarla a proseguire, ma anche per assimilare l'amara consapevolezza che, per qualcuno che non segue la Via di Mandalore, una vita descritta in questi termini non può comportare più di due, massimo tre, diversi scenari. Si tratta solo di capire quale.

E, per chi la speranza ha ancora il lusso di nutrirla, sperare che non sia il più buio.

Omera, intanto, si avvicina alla finestra. Senza dei vetri ad attutire la vista dell'esterno, le sue pupille si incatenano direttamente alle due lune che galleggiano appena sopra le creste degli alberi. Come se in quel momento non desiderasse altro che far parte della loro limpida diade.

«La cosa più semplice da capire di un AT-ST,» – la sua voce è più grave mentre con una mano percorre distrattamente le nervature legnose del davanzale – «È che c'è posto per un pilota e un artigliere. Nessun terzo potrebbe aggiungersi. Se poi si tratta di una bambina, è tutto ancora più complicato... E l'Impero non ha bisogno di mille modi per gestire le complicazioni.»

La pausa tra queste ultime parole e la reazione di Mando ora è glaciale, proprio come il brivido che gli corre per tutta la lunghezza della schiena. Mentre nella sua testa tutti i pezzi si incastrano perfettamente tra loro, la sua voce si infrange in un debole anelito.

«Era Winta, il terzo.»

E anche se è una constatazione solo in parte rivolta a lei, Omera annuisce.

«Non avevamo scelta, allora. Ma quando scoprii di essere incinta, la prima cosa a cui io e mio marito pensammo fu nostra figlia e a come fare per non doverla mai vedere con un'arma in mano e cadere nel nostro stesso errore. Così siamo scappati sul primo trasporto che riuscimmo a rubare. Sorgan fu il nostro atterraggio di fortuna... ma non ne avemmo altrettanta con i predoni.»

Un altro, amaro sospiro.

«Solo io riuscii a salvarmi.»

Un altro silenzio.

Sono appena un paio, i metri che li separano, ma il vuoto che li riempie basterebbe a colmare una voragine – di errori incancellabili e speranze infrante. Di una vita spezzata ancor prima di poter ascoltare il respiro di quella che aveva contribuito a generare.

Nessuno può essere così cieco da pensare che l'Impero non limiti il segno del proprio passaggio ad uno stemma impresso su uniformi e stendardi. Ma, per quello che ne sa Mando, anche la Nuova Repubblica. Il suo campo d'azione si limita alla zona neutrale fuori dal tavolo da gioco; se proprio deve immischiarsi tra le due parti, lo fa a condizione di poter giocare le sue carte. Ma quando i colori sgargianti dei due schieramenti, altrimenti così lontani e astratti, si mescolano prepotentemente alle terre e ai grigi della sua dimensione autarchica e solitaria... Quando è in grado di riconoscere le tracce di quel feroce duello sul volto di qualcuno che si è affacciato sulla sua vita accogliendolo nella propria senza patti né vincoli...

Ci dev'essere un motivo se ha imparato a fare a meno degli altri, soprattutto al di fuori della Tribù.

Ma, a quanto pare, è lo stesso che si cela dietro alla sua scelta di non condannarli. Non con una condotta morale appesa troppo spesso al filo della sopravvivenza. Non con il sangue che gli sporca le mani.

Non con la sorte a cui stava per consegnare il Bambino a pesargli sulla coscienza.

«Mi dispiace.»

Anche stavolta sono parole che intende sul serio. Ma sono anche le uniche che può dire in quel momento e se ne rimprovera il millisecondo dopo, quando sono già perse nella nebbia dell'insignificante. Non sarebbe un modulatore più sofisticato e meno asetticamente robotico a farle contare qualcosa.

«Per quanto possa valere.»

Omera scuote la testa.

«A me dispiace di non aver mai avuto il coraggio di dirlo a Winta... E che ora non riuscirai più a guardarmi allo stesso modo.»

In bilico tra volontà e impulso, Mando avanza verso la finestra. Ora è abbastanza vicino da accorgersi che gli occhi della donna brillano più del normale, ma di quella luce tremula e salina che si accende quando si spengono tutte le altre. E se lei non fosse così straordinariamente forte – come è convinto che sia – e lui così poco abituato a stringere i sentimenti delle persone tra le mani, sente che non resisterebbe alla tentazione di allungare una mano e cancellare dalle sue guance le orme stellate della sua sofferenza.

«Le persone non sono il loro passato. Soprattutto se hanno lottato per lasciarselo alle spalle.»

E suona un po' come un naufrago che aiuta un altro a raggiungere la riva con i polmoni ancora gonfi d'acqua, ancor prima di scrollarsi di dosso le sue alghe e la sua salsedine. Certo non si aspetta che Omera colga o si soffermi sul retroscena del suo giudizio, men che meno pretende la sua commiserazione. Immagina sia comunque qualcosa se ora gli sta sorridendo, anche se debolmente, anche se le ciglia tremano quando, umide, le accarezzano le gote.

«Né un guerriero è la sua armatura,» gli fa notare, tirando su con il naso.

Non è complicato indovinare le implicazioni nascoste dietro a quelle parole. Ma i frammenti di qualsiasi risposta Mando abbia iniziato ad elaborare si dissolvono silenziosamente a guisa di polveri siderali dopo un'esplosione, mentre un nuovo tepore inizia a diffondersi nel suo petto. Se da sotto o sopra le placche di beskar che lo rivestono, non sa dirlo, ma non farebbe differenza. L'unica cosa che può fare è percepire le schegge di quella deflagrazione ferire e aggrovigliarsi ad ogni suo respiro.

E sperare che Omera non se ne accorga come lui ha fatto con la timida pressione della sua mano sul metallo.

Al centro, leggermente a sinistra.

«Anch'io ho qualcosa da chiederti.»

Il cacciatore deglutisce, ma quasi non c'è saliva a irrorargli il palato. Perde un battito, ma gli strati che schermano la sua pelle sono troppi perché il vuoto che resta venga raccolto dal palmo di lei. Niente di tutto ciò, comunque, lo spinge a prendere soltanto in considerazione l'idea di scacciarlo.

«Certo.»

Sigilla il suo assenso con una parabola rapida e contenuta dell'elmo, e per ora è abbastanza attento da non lasciar trasparire lo sforzo che sta facendo per ricomporsi.

«Hai detto che ti fai chiamare Mando. Come se questo fosse tutto quello che sei.»

«Un Mandaloriano,» la incalza, anche se è più una richiesta di conferma che una domanda.

Omera annuisce. «Perché ho la sensazione che non sia così?»

Perché mi vedi.

«Non è il mio vero nome. E anche se lo fosse e rappresentasse tutto ciò che sono, non avrebbe più importanza di quello che faccio.»

«Ed è un bene?»

Non è da lui farsi prendere alla sprovvista. Né da una taglia, né da sillabe messe in fila, né tantomeno da qualcosa che sembra ma, realisticamente, non è. Un guizzo che nasce nell'ossidiana per poi rituffarvisi in tutta fretta. Ma, esattamente come la fiamma della lanterna ancora accesa, non muore. Rimane sospeso tra aspettativa e compassione – tra sclera e iride – e si aggiunge alla caterva di deterrenti che gli impediscono di costruire un'altra risposta di circostanza.

Perciò torna indietro.

Perché mi vedi.

Le avrebbe risposto proprio così, di primo acchito. Tuttavia gli è bastata una frazione di secondo per non essere più del tutto sicuro che entrambi vedano la stessa cosa.

Gli risulta molto più facile pensare che quello che vede lei sia solo la costruzione di fantasie che fluiscono senza sosta e, insieme a storie e leggende, raggiungono le stelle valicando i confini del reale, per il semplice fatto che lo sguardo non può valicare quelli dell'elmo.

In quanto a ciò che vede lui— È lì il problema.

Conosce il suo viso, così come glielo restituiscono gli specchi più o meno limpidi nella tazza da cui beve o gli angoli più lucidi della Crest nei momenti in cui la certezza di essere inequivocabilmente solo è più forte del suo spirito di abnegazione.

Ma tra il suo viso e quello che c'è oltre si frappone un vicolo cieco. Una trappola senza scampo, dove quel tarlo che poco si addice a qualcuno con la sua reputazione si insinua fin sotto qualsiasi armatura abbia posto tra sé e il mondo e prende a mordergli le ossa.

Quello della paura.

Paura che non solo Omera, ma tutti e due vedano solo quello che vogliono vedere. Che, senza la corazza, non rimarrebbe che un involucro vuoto, pezzi martoriati di carne senza respiro, incollati l'uno all'altro tra sudore, lacrime e sangue.

L'uomo distrutto che davvero è, seppellito sotto una coltre di metallo insieme a quel nome così sofferto che comunque non ha più valore di quello con cui tutti, ad oggi, gli si rivolgono.

, pensa. Forse è meglio così.

Non c'è niente, lì sotto, che valga la pena vedere.

Per quanto irrazionale possa sembrargli, immagina debba esserci un rapporto di consequenzialità tra la mancanza di appigli tangibili nel suo percorso mentale e il fatto che la sua mano – la stessa che ha usato con il Bambino – si sollevi per raggiungere quella di lei, ancora ferma sul suo petto.

Vista la notevole differenza di dimensione, non gli è difficile coprirla fino a nasconderne la presenza sulla placca metallica. Poi la stringe piano, come se, anche dopo quello che Omera gli ha appena rivelato, avesse ugualmente paura di farle male.

Come se fosse possibile essere terrorizzati dal niente – da se stessi.

Coglie lo stupore nei suoi occhi, l'impercettibile frattura del suo respiro, la scintilla di prima che le trema nelle pupille. E pensa che è passato parecchio, troppo tempo dall'ultima volta che ha percepito il calore della sua pelle confondersi con un altro.

Il che gli ricorda l'ultima domanda che la donna gli ha fatto.

Di quando su quello stesso davanzale ha appoggiato l'elmo per consumare il proprio pasto e, da quella stessa finestra, è rimasto a guardare il Bambino, Omera, Winta e gli altri ragazzini mentre giocavano, pur con la consapevolezza che avrebbero potuto voltarsi nella sua direzione in qualsiasi momento.

Se si fosse trattato di lei, pensa – spera –, forse, ma proprio forse, il senso di colpa non l'avrebbe investito con la violenza di un peccato. Sa che è comunque una speranza vana, esattamente come lo è interrogarsi su come sia possibile che le lune di Sorgan siano così lontane pur gravitando così vicine.

Ed è un bene?

Strizza le palpebre, sotto la morsa di una strana fitta che non sarà raccolta da nessuno sguardo all'infuori di quello del metallo inerme e spigoloso che nasconde il suo. Quando parla di nuovo, quello che gli percorre la gola è un sussurro strozzato.

Non potrebbe essere diversamente, poco importa quanto uno di loro desideri il contrario.

«Il più delle volte.»

GLOSSARIO:

¹cabur(-e, pl.) — [Mando'a] "guardiano, protettore"

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