UMANA ∽ Ritorno sulla Terra

Por AriaWriter

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Una squadra di giovani esploratori sbarca sul pianeta azzurro dopo che quest'ultimo era stato abbandonato per... Más

AVVISO e BOOKTRAILER!
Umana
Prologo
1. La partenza
2. In Viaggio
3. I Titans
4. L'atterraggio
5. Le lavanderie
6. Lo sbarco
7. Alberi enormi
8. La foresta
9. Il furto delle parabole
10. La città sommersa
11. Gli Antichi
12. La battaglia
13. Summer
14. I nemici
15. Le regole del gruppo
16. Stanchezza
17. Il lago
18. I lupi
19. Pietà
20. Hans
21. Il Nuovo Potere
22. Fardelli pesanti
23. Amicizia
24. Eden
25. La mina vagante
26. Tramonto
27. La cattura
28. Prigionieri
29. Il villaggio
30. La tigre
31. In trappola
32. La storia del villaggio
33. Umanità
34. Liberazione
36. L'Anziano
37. Libertà
38. Possibilità
39. Sogno o realtà?
40. Oppio
41. Resterai?
42. Oscure presenze
43. Paura
44. Rivendicazione
45. Guarigione
46. Speranza
47. Vita
48. Ritorno
UMANA - L'Antico Potere
Ringraziamenti
Novità, Copertine e Bollini!

35. Ulrik

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Por AriaWriter

L'allenamento era fondamentale in tutti gli sport. Anche nel tiro a segno. Indipendentemente dalla disciplina praticata, la costanza e la dedizione erano indispensabili per progredire, per il miglioramento delle proprie capacità e delle proprie prestazioni.

Attraverso sedute di allenamento dry fire, ovvero con armi da fuoco completamente scariche, si allenavano le tecniche di base e i fondamentali del tiro a segno. L'obiettivo restava quello di abbassare il tempo di esecuzione e ottimizzare i movimenti che queste tecniche comportavano, ripetendo quelle mosse che risultavano più difficili, mirando al raggiungimento dell'eccellenza.

Per eccellere nel tiro però non bastava apprendere solo la parte che riguardava l'esecuzione tecnica. La cura del proprio corpo era anch'essa indispensabile. La parte alta del tronco, le spalle, le braccia e i muscoli del collo dovevano essere in perfetta forma. Ovviamente, quando si andava a lavorare sulla forza e sulla resistenza, non bisognava dimenticarsi che non era possibile allenare un solo gruppo muscolare alla volta. La forza necessitava di stimoli differenti e di graduali adattamenti del sistema nervoso centrale e periferico. Il corpo andava allenato a trecentosessanta gradi, con una multifrequenza settimanale, una attivazione muscolare mirata e un'impeccabile distribuzione dei carichi nei vari mesocicli.

Nulla di impossibile, serviva solo, appunto, tanta determinazione e tanta perseveranza.

Il professore la scorsa settimana aveva sostenuto a lezione che la forma fisica fosse sì imprescindibile, ma non era affatto al primo posto. Infatti, se bisognava proprio essere scrupolosi, la forma fisica giocava solo un venti/trenta percento massimo come contributo alla prestazione finale. Il resto era tutta tecnica.

Inutile sottolineare che prima ancora della tecnica c'era tanta teoria, che non andava mai trascurata, per nessuna ragione. I fondamentali erano la base degli allenamenti.

Altrettanto si poteva dire della preparazione psicologica. Molto sottovalutata da quasi tutti i soldati dell'Accademia, in realtà era quella che predisponeva ad affrontare la competizione, a controllare l'ansia da prestazione e a gestire la motivazione.

Tutto questo preambolo non era stato inutile come avevano commentato alcuni dei suoi compagni di classe, era stato per Ulrik esplicativo e illuminante.

Tornando all'allenamento in bianco, bastava allenarsi con costanza, anche davanti a uno specchio, in modo da poter giudicare in prima persona se la tecnica fosse eseguita in maniera corretta. Il gesto doveva divenire automatico.

Solo quando il corpo aveva memorizzato la sequenza dei movimenti, si poteva passare a un allenamento a fuoco.

C'erano in realtà, anche lì, due livelli differenti. Infatti era possibile distinguere tra discipline statiche e discipline dinamiche. Le dinamiche prevedevano l'uso di fondine e porta carichi, un esempio era il tiro rapido sportivo.

La prima disciplina, invece, serviva sempre per lavorare sui fondamentali e dedicare il giusto tempo agli automatismi necessari per la corretta esecuzione del tiro.

Normalmente ci si posizionava a quarantacinque gradi rispetto al bersaglio. Ma questa regola andava modulata a seconda della propria conformazione fisica: ad alcuni sarebbero potuti servire più gradi, ad altri meno.

L'impugnatura era centrale, anche qua, se non si possedevano le basi teoriche, non si poteva andare da nessuna parte.

Infine, dopo essersi preparati a puntare, bisognava trovare il giusto allineamento occhi, tacca della mira, mirino e bersaglio. Le spalle non dovevano essere contratte, dovevano rimanere lontane dalle orecchie, il corpo era teso ma non rigido.

La respirazione era un altro argomento molto complesso. Il professore aveva insegnato loro con alcuni semplici esercizi derivati dallo yoga come fosse possibile riuscire a sentire il suono del proprio respiro che entrava nei polmoni e usciva dalle narici. Le risatine di alcuni ragazzi l'avevano distratto e non era riuscito assolutamente a concentrarsi. Avrebbe replicato quelle tecniche in camera la sera stessa, in solitudine.

Col dito tolse la corsa a vuoto e si preparò a sparare.

Questo era il momento cruciale. Anche qua, l'operazione andava ripetuta infinite volte, la mano doveva memorizzare, in ogni suo nervo, la forza necessaria affinché il dente di scatto si sganciasse, permettendo la partenza del colpo. Bisognava prendere confidenza con la propria arma, confidenza con quella gestualità fino-motoria.

Ma in quello Ulrik era imbattibile, sembrava fosse nato per prendere la mira e sparare.

Il suo sogno sarebbe stato quello di disquisire di quegli argomenti per ore. Un monologo interiore infinito, con cui ripassava senza sosta tutto ciò che conosceva del suo sport preferito. Forse in futuro sarebbe potuto diventare un professore dell'Accademia, o almeno un assistente.

Prese la mira e centrò in pieno il bersaglio appeso dall'altra parte della stanza.

Avrebbero potuto scegliere dei bersagli con il cerchio da dieci centimetri, ideali per pistole e carabine. Ma i suoi compagni avevano preferito i bersagli di cartonato umani.

Le dimensioni erano cinquanta centimetri per sessanta, neri, con il target al centro dell'addome e altre cinque file di cerchi bianchi concentrici attorno a esso. Per niente ufficiali, quelle sagome non venivano utilizzate né per gli esami, né per le gare. Era stata una velleità che era stato costretto ad assecondare, un vezzo che si erano voluti togliere Isaac e Archer.

Ecco cosa succedeva ad allenarsi con due coglioni.

Ulrik prese la mira e sparò. Centro. Per l'ennesima volta. Si stava annoiando. Quell'allenamento era totalmente inutile, il bersaglio era troppo vicino, troppo grande. Eppure quei due cretini non riuscivano a prenderlo nemmeno di striscio. Erano deconcentrati, chiacchieravano da una ventina di minuti, ovviamente nulla che riguardasse l'allenamento. L'argomento era volgare e spinto.

Ulrik sbuffò, poggiò l'arma sul balconcino e si chinò per raccogliere la borraccia d'acqua in cui aveva sciolto un integratore di potassio e magnesio.

«Una figa assurda! Tu non puoi capire che tette!»

Un moto di nervoso si diffuse in tutto il suo corpo, costringendolo a gettare con rabbia l'innocente borraccia nella tasca centrale dello zaino, invece che riporla con cura nella retina laterale.

«E tu che le hai detto?»

«Ma che ne so, non ricordo. Volevo solo invitarla a bere un caffè, niente di che. Ma quella stronza mi ha snobbato. Così, come se non fossi nessuno. Mi ha piantato in asso, davanti a tutta la sua classe. Guarda, non ti puoi immaginare la figura di merda.»

Isaac scoppiò a ridere, tenendosi la pancia con le braccia, le lacrime cominciarono a uscirgli dagli occhi mentre la sua risata rimbombava impudicamente in tutta la stanza, distraendo altri cadetti, alcune postazioni più in là, che stavano per concludere il loro allenamento.

«Ridi, ridi. Io almeno ho avuto coraggio. Cogli l'attimo, no? Così dicevano gli Antichi. Mi è andata male, ma chissene importa. Ci ha perso lei, quella smorfiosa. Scommetto che è corsa da quel teppista di Tomas Murphy. Sono fatti per stare insieme, quei due sfigati.»

«Ma se poco fa dicevi che era merce di un altro livello?»

«Bè, sì, che c'entra? È uno spreco. Tutto qua.»

Archer prese posizione, cercando di allineare il mirino al bersaglio, poi sparò, trattenendo il respiro. La sagoma intonsa, palese evidenza dell'ennesimo fallimento, sembrò scrutarlo da lontano con disprezzo.

«Oggi non sono in forma» si giustificò lui, sgranchendosi il collo intorpidito.

«Com'è che si chiamava?»

«Chi?»

«Ma come chi? La ragazza! La figa assoluta!»

«Summer. Tra l'altro, che nome del cazzo.»

«Summer? Ah ok...»

«Perché, ci vuoi provare anche te?»

«E anche fosse? Sei geloso?» lo prese in giro Isaac, ancora affetto da una ridarella irrefrenabile.

Ulrik chiuse gli occhi, tentò di placare la rabbia, cercando di portare l'attenzione sul suo respiro piuttosto che sulle mani che formicolavano.

Alla fine esplose. «Ce la fate a concentrarvi almeno per trenta secondi?!»

Gli occhi spalancati dei due ragazzi accrebbero solo la sua frustrazione.

«Rik, sono troppo distanti! Poi oggi è stata una brutta giornata, ho altre cose per la testa...»

«Cosa c'è di più importante dell'allenamento?»

Archer scosse le spalle, in imbarazzo. Non sapeva cosa rispondergli.

Ulrik non riusciva a capirli. Dopo qualche istante di silenzio, quando si decise a riafferrare la sua calibro venti, sentì che i due riprendevano il discorso, stavolta con un tono di voce appena più lieve, come se il vero problema fosse non farsi udire da lui.

Cosa c'era di più importante dell'allenamento?

Cercò di ripassare nuovamente a mente la lezione, appresa a memoria, paragrafo per paragrafo. Le regole del tiro a segno statico, i prerequisiti per quello dinamico, l'importanza di concentrarsi sulla espirazione e sul battito del proprio cuore...

Ah già. Il cuore.

Ulrik non aveva un cuore.

Prese la mira e sparò. Centro.

Poi di nuovo.

Ancora centro.

Una volta ancora.

Centro.

Ancora.

E ancora.

E ancora...

Le munizioni terminarono. La sua sagoma aveva un enorme buco al posto del petto.

"Ora siamo uguali" pensò.

Il suo cuore era sempre stato malato. In passato i bambini affetti dalla sua patologia avevano vita breve. Al massimo potevano sperare in un trapianto, una pratica arcaica, agghiacciante, nella quale il cuore di una persona deceduta veniva cucito nel corpo di un paziente ancora in vita.

Ulrik rabbrividì, immaginandosi come un Frankenstein rattoppato malamente nel vecchio mondo. Si chinò per raccogliere le munizioni e caricarle sulla sua pistola.

Un difetto del setto ventricolare, gli avevano diagnosticato i medici. Il titanio non poteva fare nulla, nemmeno per via endovenosa. Serviva un organo nuovo.

Il suo cuore era difettoso, una bomba a orologeria pronta a implodere da un momento all'altro.

Erano passati ormai dieci anni da quando aveva subito l'espiantazione. E ancora avvertiva i dolori tipici dell'arto fantasma.

I dottori avevano insistito che era impossibile. Non c'era alcuna evidenza medica che appurassero quello che lui riferiva. Ma c'erano diversi studi, in medicina, di molte altre persone che avevano subito un trapianto di cuore in titanio ed erano riusciti a trascorrere una vita sana, lunga e soddisfacente.

I luminari sostenevano, oltretutto, che l'aver subito l'operazione quando era ancora così piccolo fosse un bene. L'intervento precoce ha prognosi positiva nel novantanove percento dei casi.

Forse Ulrik era quell'un per cento. Forse prima o poi, il suo caso sarebbe stato trascritto e analizzato da una solerte equipe medica. I suoi dati, le sue radiografie, le sue analisi sarebbero state diffuse e citate nei libri di medicina e studiate durante l'apprendistato di giovani dottori. Più probabilmente sarebbe stato semplicemente dimenticato, aggiunto alla lista dei possibili effetti collaterali, come i tanti altri "un per cento". Si trovavano tutti lì, da qualche parte, nella letteratura. Senza un nome e senza un volto. Condividevano tutti lo stesso amaro destino.

Ulrik riprese l'allenamento. Questa volta decise di mirare alla testa, più precisamente alla zona frontale. Come soldato, sapeva che in missione, nel remoto caso in cui avesse avuto licenza di uccidere, era meglio sparare in testa piuttosto che al petto. Il petto era un bersaglio più semplice, ma non sempre mortale. Colpire il cervello era più difficile, ma garantiva maggiore probabilità di successo.

Se invece non fosse stato necessario uccidere il proprio bersaglio, bastava mirare alle gambe. Troppo spesso capitava che nell'impeto del momento, nel bel mezzo dell'azione, si commettessero errori fatali. Per Ulrik questo era segno che l'allenamento non era stato effettuato con sufficiente costanza e dedizione: era stata trascurata la preparazione mentale. O peggio ancora quella teorica.

Per il ragazzo era tutto bianco o tutto nero. Le sfumature esistevano solo per gli artisti. A lui piaceva la vita fatta di poche, inoppugnabili certezze. Il controllo totale sugli eventi, la prevedibilità.

Da quando non aveva più un cuore e la sua famiglia l'aveva ripudiato, mandandolo a studiare in Accademia, gli era stata chiara una sola cosa: per sopravvivere doveva distinguere il nero dal bianco.

Bianco erano i propri doveri: svegliarsi alle sei ogni mattina, allenamento callistenico, con flessioni, trazioni, squat e almeno cento addominali; doccia e colazione veloce con latte vegetale e integratori multivitaminici; presentarsi a lezione puntuale, prendere appunti, svolgere i compiti, consegnarli al professore; pranzo leggero, con carboidrati, proteine e due porzione di verdura a foglia verde; studio nel pomeriggio fino alle sedici, merenda con frutta secca e barretta proteica; allenamento fino alle diciannove e trenta; cena leggera, solo proteine e due porzioni di frutta e verdura; doccia bollente e a letto prima delle ventidue.

Sapeva che i compagni lo prendevano in giro. Alle sue spalle, ovviamente.

Perché nonostante quel trapianto, in tenera età, Ulrik aveva superato il metro e novanta e pesava circa centodue chili di soli muscoli.

Cercava di guadagnare ancora massa, senza eccedere in grasso, ma non riusciva. Aveva un metabolismo molto veloce e uno scarso appetito.

Incuteva timore anche se lui, in tutta la sua vita, non aveva mai nemmeno osato insultare un compagno. Tantomeno mettergli le mani addosso. Sfogava la sua rabbia in allenamento e questo gli bastava.

Allenamento: bianco. Aggressione ai danni di un compagno: nero.

Facile, no? Perché nessuno lo capiva? Perché le persone amavano complicarsi la vita?

Concentrarsi sul tiro a segno: bianco. Chiacchierare di ragazze: nero.

Questo riguardava aspetti di sé che gli andavano meno a genio. Ad esempio continuare a interpellare il dottore dell'Accademia, riportando dolori al petto e al braccio sinistro, difficoltà respiratorie e visione annebbiata rientravano nella categoria nero. Cercare di superare i suoi attacchi di panico ripetendosi che si trattava solo di allucinazioni, percezione alterata, sindrome dell'arto fantasma (in questo caso "organo fantasma") eccetera eccetera, invece, rientravano nel bianco.

Alla fine, non aveva mai avuto un infarto, nessuna anomalia cardiaca. Questi sintomi arrivavano improvvisamente e, così com'erano arrivati, se ne andavano altrettanto rapidamente. Bisognava solo pazientare.

Ulrik impugnò la pistola e riprese la mira.

Isaac e Archer si stavano lamentando di lui, a bassa voce.

«Ripetimi perché siamo venuti qui.»

«E dove volevi andare?»

«Dove? Ho mille altre idee in mente! Ad esempio potevamo andare a trovare Kelly e Amanda. Dai, non fare quella faccia, sono simpatiche. Sempre meglio di stare qui con lui!»

«A fine mese abbiamo gli esami...»

«E allora?»

«Facciamo schifo! Verremo bocciati se non ci alleniamo!»

«Ma perché con lui? Venivamo io e te, da soli!»

«È il più bravo!»

«È uno spaccapalle! Mi ha rotto! Lui e le sue tecniche, la costanza, i fondamentali e bla bla bla. Ma chi se ne frega! Se la tira da morire, è simpatico come un calcio nei coglioni. Non ci puoi parlare, è inutile. Un robot. Preferivo andare ad allenarmi col professore, allora, se proprio dovevo flagellarmi.»

«Vorresti davvero che il professore vedesse le tue capacità nel tiro a segno statico? Dopo due mesi?»

«No.»

«Bravo. Ecco allora perché siamo venuti qui, con lui. Non pensare che io lo sopporti. Ma diciamo che è meglio tenersi vicini gli amici e ancora più vicini i nemici.»

«È meglio proprio non farselo come nemico, quello lì.»

Isaac scoppiò a ridere. Poi si voltò preoccupato, guardando di sottecchi Ulrik per vedere se l'aveva sentito. Il volto del ragazzo però era rimasto impassibile. Come sempre. Una maschera di cera.

«Potrebbe avere tutte le ragazze che vuole» commentò, a sproposito. «Secondo te è ancora vergine?»

Archer, distratto da quel commento, sparò al pavimento. Da lontano, qualcuno lo riprese e il ragazzo fu costretto a scusarsi, mentre il compagno ancora rideva a crepapelle.

Ulrik non diede alcun segno di aver compreso l'accaduto. Ma aveva ascoltato tutto.

Come al solito.

D'istinto mise una mano sul petto. Un gesto involontario che ultimamente gli capitava sempre più spesso di fare.

Nulla.

Il cuore non batteva.

Eppure lui avrebbe dovuto essere arrabbiato nero, fuori di sé, avrebbe dovuto aver voglia di spaccare tutto, di insultarlo, di difendersi. Sentiva, nel resto del corpo, il sangue che gli irrorava il viso, le orecchie, una vena che pulsava sulla fronte, le mani che formicolavano. Allora perché il suo cuore di titanio non batteva? Perché non riusciva a provare nulla? Perché non gliene fregava nulla?

Il panico l'assalì, il braccio sinistro cominciò a fargli male, una fitta lo invase. Ma dopo due respiri profondi tutto sparì. Tutto tornò come prima.

L'organo artificiale svolgeva il suo lavoro diligentemente, ma senza fare rumore. Eccola, la sua condanna.

Senza il battito a lui sembrava di non provare nulla. Perché non sentiva nulla.

Senza quel battito, Ulrik non aveva emozioni. La rabbia era solo mentale, non fisica. Non la sentiva come sua, era un'emozione che l'assaliva come un pensiero fastidioso ma che il suo corpo non riusciva a comprendere. Arrossiva, sì. Ma poi tutto tornava rapidamente nella norma. E allora cosa rimaneva di quella rabbia? Solo un fastidio diffuso, la debolezza del momento, un presentimento, una sgradevole percezione che si dissolveva fin troppo rapidamente, prima che lui potesse darle un nome.

Ma come poteva, Ulrik, spiegare ai dottori che da quando gli avevano asportato il suo cuore, non riusciva più a provare emozioni?

Inoltre, c'erano tante cose, in lui, che non andavano, che non quadravano.

Ma questo già da prima che il suo cuore venisse gettato nell'organico.

Faticava a comprendere i modi di dire, le battute, i doppi sensi, le allusioni, il sarcasmo. Ci metteva un po' a comprendere quando una persona scherzasse, quando dovesse ridere, o quando invece volessero offenderlo. Quindi la sua reazione rimaneva sempre immutata: pura e semplice indifferenza.

Inoltre odiava il contatto fisico, gli abbracci, le pacche sulle spalle, i baci. Aveva avuto qualche incontro, con una ragazza in particolare, e gli era rimasta una spiacevole sensazione addosso, un disagio che aveva fatto fatica a lasciarsi scivolare via.

Da piccolo odiava guardare le persone negli occhi. Anzi, meglio, odiava il fatto che gli altri volessero guardarlo negli occhi. Come se intendessero penetrare al suo interno, attraverso i suoi bulbi oculari, per rubargli l'anima.

La situazione era molto migliorata, superata l'infanzia. Faceva fatica, ma si costringeva. Nella sua mente ripeteva un gioco che l'aveva molto aiutato: vinceva chi abbassava per primo lo sguardo. E a lui non piaceva di certo perdere.

Che fosse il suo cuore in titanio il responsabile o il capro espiatorio di tutte le sue problematiche relazionali, era fuori discussione.

Che fosse una delle sue più grandi ossessioni, invece, era vero.

La sua vita sarebbe stata molto diversa se quell'organo avesse riiniziato a battere. Magari si sarebbe fatto qualche amico. Giusto un paio, con cui chiacchierare un po' nell'intervallo o con cui condividere i pasti. Magari si sarebbe anche innamorato. Shani, gli dicevano tutti, era molto bella. Lui non l'aveva mai vista sotto quell'aspetto, ma immaginava fosse il fatto che quando la guardava il suo cuore non batteva. Era un'allieva insuperabile, molto precoce per la sua età.

Adorava allenarsi con lei, era davvero stimolante. Non come stare con quei due coglioni di Isaac e Archer. Shani era davvero a un altro livello, aveva un potenziale terribile quella soldatessa.

Ma cos'era che gli aveva detto la sera prima? Sembrava infastidita. Aveva parlato di una sua "ragazza", ma non aveva ben afferrato il significato delle sue parole.

"Farei ingelosire la tua ragazza, non voglio guai."

Non aveva assolutamente capito a chi si rivolgesse. Probabilmente c'era un riferimento implicito che non era riuscito a cogliere. Ma si vergognava troppo per chiederle direttamente il senso. Forse voleva provarci con lui?

Impossibile. La conosceva fin da quando era solo una bambina...

Gli balenò l'ombra di un sospetto, che immediatamente però cacciò via dalla sua mente. Nero. Nero assoluto. Aveva chiuso con quella storia, aveva chiuso con lei.

«Ultimo giro!» gridò, ai suoi compagni che ripresero le riga con fin troppa diligenza. Probabilmente per tutto quel tempo l'avevano schernito in ogni maniera possibile e immaginabile.





Accadde tutto in un attimo.

Aveva indossato le cuffie, quindi i suoni gli arrivavano attutiti dalla gomma della fodera.

Inoltre non si sarebbe mai potuto aspettare una cosa del genere

«Rik! Rik!»

Una voce femminile.

Gli spari partirono prima che si potesse rendere conto di quanto era avvenuto.

Si portò la mano al petto, appoggiando la pistola, lentamente, sul ripiano.

Qualcuno urlò.

Lui fu comunque quello a reagire più rapido. Scavalcò il divisorio e invase l'aria del poligono ad accesso assolutamente vietato durante gli allenamenti.

Maisie era lì, sdraiata a terra.

Si chinò su di lei, le infilò il braccio destro dietro la schiena e la sollevò.

I suoi occhi blu lo trafissero come spade acuminate.

«Ulrik...» La sua bocca era impastata di sangue.

Non indossava la divisa, ma un vestito bianco, di pizzo, lungo fin sotto le ginocchia e smanicato. Assomigliava a una sposa. Una dolce, eterea, bellissima sposa.

Lui la strinse più vicino a sé, per riuscire a sentire la sua voce sempre più flebile.

«Maisie!» la chiamò con un tono rauco e spezzato.

Lei sorrise.

Ulrik l'abbracciò intensamente, come non l'aveva mai abbracciata prima. Due lacrime bagnarono la pelle chiara della ragazza. Chi le aveva perdute? Lui o lei?

Un lago di sangue si stava diffondendo lentamente sul pavimento.

Era un liquido viscoso, di un rosso intenso, che odorava di rame. Ne era impregnata la ragazza, ma anche lui. C'era solo quel colore nella sua visuale.

Il vestito candido era un lontano ricordo. Come quegli occhi così blu.

«Maisie!» tentò di nuovo.

Ma sembrava aver già perso i sensi.

«Non l'ho vista! Cosa ci faceva là?! È morta? Rik, è morta?»

«Oh mio dio!»

«È morta davvero! Dobbiamo chiamare qualcuno. Rik! Cosa facciamo?»

Le voci di Isaac e Archer erano suoni indistinti alle sue spalle. Ulrik guardò quei capelli neri come l'universo, una volta così luminosi e lisci, ora tutti imbrattati di sangue. Cercò di distogliere l'attenzione dagli enormi buchi che ora riusciva a scorgere, sul torace e l'addome della ragazza.

Due uomini si erano avvicinati.

Gli dissero qualcosa, poi corsero fuori, alla ricerca di soccorso.

Rimase lì da solo con Maisie sempre più fredda tra le sue braccia impotenti.

Altre due lacrime bagnarono quel volto così delicato. Il ricordo di quella ragazza sembrava scomparso dalla sua mente. Ora vedeva solo quel cadavere, una volta così elegante e fiero, ora privo di forze, abbandonato a se stesso, la pelle viva, aperta, il sangue che zampillava fuori, a un ritmo cadenzato. Avvicinò l'orecchio al petto. Batteva ancora.

Sì, il cuore di Maisie batteva ancora!

La chiamò un'ultima volta disperatamente, urlò il suo nome con quanto fiato aveva in gola. Altre lacrime bagnarono il vestito della ragazza.

«Ti amo...Rik...» mormorò lei.

Poi il nulla. Il suo organismo smise di lottare, dichiarò persa la sua ultima battaglia. Non c'erano più speranze. Il cuore cessò di pulsare, i polmoni di gonfiarsi e sgonfiarsi, il cervello di emanare i suoi impulsi nervosi e l'anima di Maisie abbandonò definitivamente la sua forma mortale.

Rimase Ulrik da solo ad annegare in quel mare di porpora.

«Cosa facciamo?» ripeté Archer. Era sotto choc. Non riusciva a muoversi. Non aveva mai visto nessuno morire. Aveva solo sedici anni.

«Non è stata colpa mia.» Isaac scoppiò in lacrime. Il suo pianto disperato rimbombò tra le pareti con la stessa intensità con cui poco prima la sua risata era esplosa nella sala.

Il tempo era un nemico disgraziato. Non perdonava nulla.

Cosa ci faceva Maisie davanti ai bersagli? Com'era entrata? Perché?

«No. È stata colpa mia» ammise Ulrik.

Gli altri lo guardarono senza fiatare.

«È stata tutta colpa mia.»

E con le labbra tremanti sfiorò la pelle intonsa della fronte della ragazza. La baciò.

Sul viso di Maisie il rigor mortis aveva scalfito un inquietante sorriso. Sembrava davvero fosse morta felice. Anzi, sembrava felice di essere morta per mano dell'uomo che amava.

Dal suo punto di vista non aveva perso proprio nulla. Anzi, aveva vinto la sua guerra.

La guerra per il cuore di Ulrik.

Sarebbe stato suo per sempre, non l'avrebbe mai dimenticata. Mai.

Maisie

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