Ciscandra - Personality Disor...

Por Ciscandra

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E dopo il Mondo Bipolare? Dove conduce quella misteriosa porta sul nulla che Ciscandra ha appena aperto? Sei... Más

♥ Avviso per tutti i Cannibal Rabbits ♥
1. Le persone che sei stata prima
2. Cocktail mostruosi
3. Lo smacchiatore
4. Erzsy
5. White Lily e la seduta
6. La Tigre del Cuore
7. Pugnali e autoreggenti
8. Ascolterai Mine Bruciate Rubando Amore
9. Un origami di carta sul baratro dell'incendio
10. Tu non mi hai spezzata
11. Pancakes rivelatori
12. Priscilla
13. Ho una voce. Ascoltami ruggire stanotte.
14. Il Distretto degli Istrionici
15. L'Indovina di Ferro
16. Diario di una cannibale
17. L'Imperatore Pallido
18. Sono una confessione che aspetta di essere ascoltata
19. Burattini, bugie e labbra di carta
20. Morso e la Regina dei Ratti
21. Giglio Cangiante
22. Pietra dei Ladri
23. Il Distretto degli Schizoidi
24. Il valzer del cuore cattivo
25. Fili rossi e frullati alla fragola
26. Niní
27. La Foresta delle Allucinazioni
28. La Casa degli Specchi
29. L'Hotel degli Inutilizzati
30. Brian
31. Ciscandra amerà distruggerti. Resterai imprigionato crollando.
GRAZIE

32. Le Stelle Fredde e il Disegnatore di Ombre

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Por Ciscandra

«Prego, inserire la propria chiave qui sotto»

Nel buio pesto questa è l'unica cosa che vedo: una scritta verde acido che pulsa su uno schermo non più grande di un dito e, sotto di essa, una serratura illuminata.

Appoggio una mano accanto alla scritta e scopro che la parete è metallica e freddissima. Con l'altra mano mi sfilo la collana.

Inserisco la libellula nella serratura e giro la chiave. Qualcosa pare azionarsi con un rombo di motori e l'istante seguente una luce scatta illuminando il luogo in cui mi trovo.

Sono in un ascensore.

Non credo sia quello del Grattacielo di Vetro, perché sulla parete di acciaio c'è una lunga fila di pulsanti luminosi con accanto diverse targhette: "Mondo Ossessivo-compulsivo, ossessivo-compulsivo, ossessivo-compulsivo", "Il barattolo della schizofrenia e altri disturbi psicotici", "AH! Ansia!", "Lunghi fiumi causati da eventi traumatici", "Sei troppo grasso, fai schifo, muori", "Questi mali sono grida di un corpo che non vuoi ascoltare".

Tra queste scritte spuntano anche "Mondo Bipolare" (il cui pulsante però è spento insieme a quello di "Dissociation"), mentre quella di "Personality Disorders" è resa quasi illeggibile da una specie di bruciatura.

Le diciture sono tantissime, così tante che mi accorgo che la fila di pulsanti arriva a coprire persino una parte del pavimento, perché sulla parete dell'ascensore non c'è abbastanza spazio. Accanto a molti noto invece dei pezzetti di carta attaccati con dello scotch su cui c'è scritto: "Dolore non ancora etichettato".

Ma è un pulsante rosso a catturare la mia attenzione: "Stelle Fredde".

Con il cuore aggrovigliato in gola premo il bottone e sento la mente rallentare, come se stesse trattenendo il respiro sull'orlo di un abisso pieno di vento.

Ho ancora le mani sporche di sangue.

Entro in uno stato di ovattamento: mi sembra di essere uno spettatore dei miei stessi movimenti e di seguire a fatica quello che sta accadendo intorno a me.

Sobbalzo quando l'ascensore si apre con un cristallino "Tin!" (mi pare che non si sia mosso neanche di un millimetro).

Ad aspettarmi fuori dalle porte metalliche ci sono due occhi gialli.

White Lily ha il manto più candido di come lo ricordavo e mi guarda con interesse, come se fosse sinceramente stupita di vedermi arrivare. Mi chiedo se sia addolorata per la perdita dell'Imperatore Pallido, se sappia quello che gli è successo, ma sono pensieri che svaniscono in fretta perché il gatto bianco lascia velocemente il posto a un nuovo felino: un gatto rossiccio e tigrato (e a dire la verità, anche molto grassottello).

Mi ritrovo di nuovo a seguire un gatto, che stavolta però ha un'andatura piuttosto sgraziata. Mentre camminiamo lungo un corridoio illuminato da faretti a LED, mi domando se il felino si è accorto di essere seguito e se effettivamente sa dove deve portarmi.

La risposta non tarda ad arrivare: d'improvviso l'animale si ferma per sedersi con una mossa goffa e iniziare a leccarsi la pancia.

«Be', siamo già arrivati?», chiedo al gatto, che solleva il muso per fissarmi con occhi sonnolenti.

Quando mi volto alla mia sinistra, scopro una grande vetrata che si affaccia su una stanza illuminata fiocamente e piena di sagome ovali.

Per un secondo mi sembra di essere all'interno di un museo, forse anche a causa di una targhetta in ottone fissata accanto alla vetrata. La leggo ad alta voce: «Stelle fredde, separati dai mondi perché hanno interrotto la crescita delle loro anime».

Al suono delle mie parole le luci all'interno della stanza aumentano d'intensità e scopro che le sagome ovali in realtà sono fiori, fiori giganti e neri.

Il gatto inizia a miagolare insistentemente ma non mi volto verso di lui perché il fiore centrale davanti a me inizia a tremare.

I petali neri paiono diventare quasi liquidi e si dischiudono lentamente, sanguinando. Un grande lago rosso bagna il pavimento.

Quando Samuel esce dal fiore di sangue non sento niente.

So che dovrei sentire il fiato mancare, il cuore battere all'impazzata, un nodo in gola che brucia insopportabilmente, ma invece non sento nulla.

Sono silenziosa.

Fredda.

Distaccata in modo inspiegabile.

Quello che cammina lento nella mia direzione non è più un bambino. Samuel ha i tratti di un ragazzo che non ho mai visto crescere: anfibi troppo grossi, un chiodo di pelle cosparso di spille, unghie corte dipinte di smalto nero. Il suo volto da vicino è quasi irriconoscibile: il profilo è liscio, le ciglia chiare sbattono veloci, i capelli biondi sono lunghi fino alle spalle e qualche ciuffo è dietro alle orecchie. Un anellino dorato spunta sul suo sopracciglio. Quando sorride riconosco le fossette, che però incidono dei lineamenti squadrati.

Il ragazzo si avvicina tanto che riesco a scorgere il sottile filo d'oro che si snoda nei suoi occhi chiari. Questo lo avevo dimenticato.

Quando appoggia una mano inanellata sul vetro spesso, io faccio lo stesso, facendo coincidere i bordi delle nostre dita come se fossimo una cosa sola.

È normale che non senta niente?

È forse lo shock?

Guardo a lungo gli occhi azzurri percorrere assetati il mio volto e osservo le labbra sottili muoversi veloci, ma non sento niente di quello che dice.

Lascio scivolare la mano sul vetro mentre il ragazzo scuote la testa e pare alzare la voce più che può. I suoi occhi sono sbarrati, le mani aperte premute con forza sul vetro.

Ma io continuo a non sentire.

Questo che vedo davanti a me è veramente Samuel?

L'imperatore ha detto che non è mio fratello, che io sono l'anima di Brian.

Ma cosa significa? Com'è possibile che io sia un'anima?
Chi è allora questa persona davanti a me?

Forse è tutto un trucchetto del terapeuta per farmi esplodere la testa. Forse questa è una prova, uno scherzo, eppure in questo vortice di domande c'è solo una cosa che mi spaventa di più: la mia totale insensibilità.

È come se, una volta uscita dall'ascensore, avessi perso tutta la mia umanità.

Rivedo il volto dell'Imperatore Pallido incrinarsi di fronte a me, i suoi occhi screziati da una brace viva e una domanda mi mangia lo stomaco: sarei finita anch'io qui se Brian fosse riuscito a suicidarsi buttandosi da quella finestra? È per questo che sono così arrabbiata con lui?

Il gracchiare di un interfono mi riporta alla realtà.

La vocina di Lord Saint John invade il corridoio: «Tutti noi sappiamo tante cose, cose importanti, ma le teniamo dentro, le seppelliamo con tutte le nostre forze, perché è difficile a volte conviverci. Ma ricordati che queste troveranno sempre il modo di risalire. Non possiamo veramente dimenticare. Qualcosa in noi ricorda per sempre».

Samuel ha ormai tolto le mani dal vetro. Credo che senta anche lui queste parole perché smette di insistere e non cerca più di parlarmi. Resta semplicemente imbronciato, a osservarmi, forse aspettando una mia reazione.

Sto per dire qualcosa quando alle mie spalle sento un cigolio.

Io e il gatto ci voltiamo entrambi.

Alle mie spalle, si apre appena una porta da cui sbuca una testa.

«Ah, bene! Sei qui!», a parlare è un ometto davvero singolare. Ha le guance porpora, una parrucca di boccoli bianchi in testa e una coroncina d'argento fatta con quelle stelle filanti che si usano di solito per addobbare gli alberi di Natale.

«Scusi, ma lei chi è?», chiedo sorpresa indietreggiando.

La porta allora si spalanca completamente.

L'ometto cerca di raggiungermi nel corridoio ma non riesce a farlo a causa di due ali bianche che perdono un sacco di piume. Sono così grandi che è davvero impossibile farle passare dalla porta.

«Oh, santo il cielo e tutte le pergole del Paradiso! Ci mancava solo questa! Ma che bisogno c'era di farle così grosse?», esclama col volto arrossato il piccolo uomo.

In effetti le sue ali sono davvero ingombranti e devono essere parecchio pesanti da portare in giro.

«Vuole una mano?», chiedo incerta avanzando.

«Oh, no cara! Facciamo prima se vieni tu di qua!», risponde lui.

Mi giro verso la grande vetrata per salutare Samuel ma non c'è più nessuno.

Il fiore nero è tornato a chiudersi e il pavimento è lindo come se non si fosse mai aperto.

«Ma...», dico confusa.

«Oh, cara! Lascia perdere, ciò che dovevate dirvi ve lo siete già detti», dice l'uomo.

«Ma non ci siamo detti nulla!», rispondo io.

«Appunto!», aggiunge l'ometto sorridendomi dolcemente, «Adesso forza, segui me! Da questo punto in poi i gatti non sono più ammessi»

«Va bene», rispondo osservando il grosso felino rosso che pare indispettito da quell'affermazione.

Oltrepasso la porta di acciaio.

Visto interamente l'ometto è davvero bizzarro. La coroncina argento è sostenuta sopra la sua testa grazie a un fil di ferro intrecciato che si unisce alle grosse ali indossate dall'uomo come uno zainetto.

«Per favore cara, chiudi la porta. Non vogliamo spifferi!»

Mentre accosto la porta il gatto rosso riesce a sgusciare furtivamente dalla nostra parte e quando mi volto per rincorrerlo vedo che l'uomo stringe tra le braccia una boccia di vetro in cui nuota un piccolissimo pesce arancione. Pare una lacrima di fuoco.

«Oh, santa pazienza cara! Ti avevo detto niente spifferi!»

«Ma è un gatto»

«Appunto!»

Scambio uno sguardo perplesso con il felino che pare soddisfatto della sua impresa (e parecchio interessato al pesciolino nell'acquario).

«Tienimi un attimo questa! Fare il tuo angelo è davvero un grosso lavoro, lasciatelo dire! Ho bisogno di un aiutino», detto questo l'uomo molla tra le mie braccia la boccia di vetro e poi estrae dalla sua tunica grezza una bottiglietta con delle pillole.

«Lei è il mio angelo?», riesco a dire solo questo mentre incredula lo osservo buttar giù qualche pasticca bianca, «Ma cosa sta prendendo?»

«Oh, nulla di che. Qualche ansiolitico», risponde lui.

«Gli angeli prendono gli ansiolitici?»

«Di questi tempi sai, è veramente dura starvi dietro!»

«Ma non le fanno male... intendo... prendere così tante pastiglie e a caso»

«Oh, insomma! Sì, lo so. Dovrei andare in terapia o forse fare yoga, ma chi ha tempo per queste cose oggigiorno! Si è sempre pieni di cose da fare!»

Ancora più perplessa e confusa mi zittisco e seguo il mio angelo che con il suo acquario cammina lungo il corridoio seguito dal gatto che si lecca i baffi.

Non so dire per quanto camminiamo ma non molto tempo dopo l'uomo si volta con sguardo spaventato: «Perché mi segui?»

«Cosa?», mi blocco senza capire.

«Mi stai seguendo», dice lui.

«Sì, è vero. Ma me lo hai detto tu, sei il mio angelo», rispondo, «Ricordi?»
L'uomo mi studia con occhi socchiusi e mugugna qualcosa prendendosi il mento. Poi qualcosa si accende nel suo sguardo: «Ma ceeeerto! Sono il tuo angelo. Scusami, devo tenere a mente così tante cose che non mi ricordo mai niente! Vieni, vieni. Seguimi»

Mi chiedo se siano davvero ansiolitici quelli che prende quando arriviamo alla fine del corridoio.

Una porta verniciata di rosso ci aspetta.

«Eccoci qui», dice l'angelo facendosi da parte e stringendo solennemente la boccia al petto.

«Cos'è?», dico osservando il gatto che si mette a sedere con uno sguardo sornione rivolto al pesce.

«È la stanza della tua malattia, cara», risponde l'angelo seguendo poi il mio sguardo fino al felino, «Per tutte le pergole del Paradiso! Cosa ci fa un gatto qui?»

Non so cosa ribattere mentre l'ometto mi guarda allibito e solleva spaventato sopra la testa il piccolo acquario.

Mi giro verso la porta rossa.

«Grazie per avermi accompagnata fino a qui», dico stringendo la maniglia.

«Figurati», risponde il mio angelo, «Ah, e Ciscandra... a volte è davvero tremendo vivere. Ma non sprecare la tua prossima vita»


***


Gli occhi lucenti e color carbone che mi trovo davanti appartengono a un demone nerissimo, pelato e con due dentini triangolari che spuntano dalle labbra.

Il demone è seduto a un tavolino da té imbandito di teiere, tazze e pasticcini colorati, ma la cosa più sconvolgente è lo scenario che ci circonda: questa stanza (se così la si può chiamare) non ha pareti, ma è delimitata da un intreccio di connessioni neurali brillanti e vene del cuore, entrambe percorse da piccole luci che corrono impazzite da un filamento all'altro come nelle lucine di Natale.

«Ciscandra! Era tanto che ti aspettavo», il demone lo dice con una voce solare allargando le braccia. Pare sinceramente rallegrato.

«Mi aspettavi perché tu sei...», dico sperando che finisca la mia frase.

Il demone raddrizza con estrema delicatezza una tazza di porcellana azzurra sul piattino davanti a sé, poi solleva lo sguardo e mi sorride dolcemente: «Il Disegnatore di Ombre».

Sorpresa spalanco la bocca e nei miei occhi tornano i gemelli del Mondo Bipolare e il loro enigma (ora svelato) che mi fissa calmo.

«Ma prego, accomodati», dice il demone alzandosi educatamente per invitarmi a sedere, «Abbiamo molto di cui parlare»

Mi accomodo al tavolino facendo tremare le tazzine quando lo urto con le ginocchia. Non riesco a staccare gli occhi dalle pareti che pulsano e da quelle luci minuscole che viaggiano veloci.

«Risponderò a tutte le tue domande, ma prima desidero mostrarti una cosa», dice lui infilandosi un paio di guanti di gomma gialli e sollevando da terra un telo cerato, che nasconde una casa delle bambole.

Quando il demone solleva il tetto dell'abitazione vedo un salotto in miniatura, con un divano, la tv, delle tendine ricamate, un piccolo bancone da cucina e tre pupazzetti di stoffa: un uomo, una donna e un bambino.

Solo quando lui inizia a raccontare le marionette prendono vita.

«I genitori di Brian si sono separati quando lui era molto piccolo. Per un periodo il bambino ha vissuto con la madre (di cui si prendeva cura - perché era una mamma molto depressa), e con il suo compagno, un uomo molto violento che spesso lo picchiava.»

I piccoli pupazzi si aggirano come spettri nella casa, non sfiorano mai terra. Il pupazzo di Brian è spesso accanto alla madre o sul pavimento. I bottoni che ha al posto degli occhi tremano e a volte della lana rossa esce dalla sua imbottitura.

«Già da molto piccolo Brian sviluppa un disturbo dissociativo di identità: la prima identità che nasce è qualcuno che lo protegge, un indiano che si chiama Giglio Cangiante.»

Davanti alla tv in cui si animano fili di lana grigi, il pupazzo di Brian esplode in tanti piccoli pezzi: alcuni restano sul pavimento della casa delle bambole, altri si riuniscono trasformandosi in un giglio di cartapesta.

«Brian ricorda bene l'ultimo giorno che vede sua madre. È seduto in un campo di grano, nel frinire delle cicale e nel sole accecante. Il vento è fortissimo. Quello è lo stesso giorno in cui la sua mamma lo porta a vivere dal padre: il dottor Bowie, uno psichiatra»

Anche se quel ricordo mi appartiene non sento niente, neanche quando vedo crescere dei sottili steli di grano nel mezzo del piccolo soggiorno e la marionetta della madre crollare in un mucchietto di polvere.

«Brian cade in uno stato di mutismo e inizia la terapia con il dottor S. che si accorge del disturbo dissociativo del ragazzino perché al suo posto parla solamente Giglio Cangiante.»

Le pareti della casetta si trasformano e torna il bianco abbagliante dell'ospedale. Stavolta in scena resta solo il pupazzo di Brian che fa ondeggiare le sue gambette di corda da uno spoglio lettino di ferro.

«Brian resta per un lungo periodo in ospedale e vede poco il padre sempre indaffarato. Il dottor S. però gli porta dei colori per disegnare e lui decide di dipingere sul muro delle crisalidi, anche se non sa bene che forma abbiano di preciso»

Sul piccolo muro nascono delle chiazze rosse appese a rami di alberi appena accennati e stavolta qualcosa lo sento: un tremito, un richiamo, qualcosa nel profondo che mi vuole tirare dentro con sé.

«Quando la sua condizione pare abbastanza stabile, Brian torna ad abitare a casa del padre, che nel frattempo ha una nuova compagna. La signora Cromwell si è trasferita infatti da poco a vivere a casa sua insieme al figlio Samuel.»

Ed ecco tornare le pareti della casa, stavolta diversa, dipinta di un giallo pallido. L'arredamento è più fine e ci sono grandi tappeti persiani che profumano di pulito. Si sente il ticchettio di un orologio a pendolo nel soggiorno e sono due le nuove marionette. Quella di Samuel è voltata, non riesco a vedere il suo viso.

«Brian e Samuel si trovano a essere fratellastri. Brian ama Samuel, ama la sua fame di vita, il suo essere spericolato e senza paure e un po' lo invidia perché vorrebbe essere capace di affrontare tutto come lui. Solo con il tempo capisce che il fuoco che Samuel ha dentro è qualcosa di pericoloso, che il vivere al limite è solo un modo per non sentire niente».

È a quel punto che la marionetta di Samuel prende fuoco e non riesco a vedere neanche stavolta il suo volto, perché quando si gira le fiamme gialle lo stanno già bruciando.

«I due si innamorano ma per Samuel quell'amore non è abbastanza, non riesce a riempire la voragine che ha dentro. La sua disperazione senza controllo viene attenuata da polvere bianca e sottile inalata senza tregua. E nessuno, né il dottor Bowie, né la signora Cromwell se ne accorgono veramente o forse non riescono ad ammetterlo»

Le marionette dei genitori sullo sfondo si disfano, diventando solo pezzi di stoffa, fili e bottoni sparsi a caso sul pavimento della casa, mentre Samuel continua a essere consumato dalle fiamme e si annerisce.

«Finché, arriva il giorno in cui chiudete a chiave quella porta»

Nel bagno di piccole piastrelle verdi ondeggia impiccato al soffitto un piccolo fiore blu.

«Brian crolla, schiacciato da un profondo senso di colpa. Torna in ospedale. Stavolta dalle sue ferite nascono Ambra e un bambino»

La marionetta di Brian esplode di nuovo in tantissimi pezzi. Alcuni dei suoi frammenti restano a terra, altri si ricompongono in un pugnale fatto di giornale e in una monetina di bronzo.

«Un giorno come gli altri, quando vede ondeggiare le tende bianche nello studio del dottor S., decide di buttarsi dalla finestra. Entra in coma»

Rivedo le piccole tende di lino gonfiarsi furiose.

Erano come le vele di una barca.

Uno strano freddo mi accarezza la pelle.

«La sua anima esce dal corpo, si chiama Ciscandra, e inizia un viaggio nel mondo dell'inconscio per scoprire e accettare le ferite che ha ricevuto ma anche quelle che ha fatto».


***


Guardo i guanti gialli del demone.

È così buffo vederli fasciare le sue grandi mani. Sembra pronto per lavare una pila di stoviglie pericolanti.

«Perché i guanti?», chiedo assecondando la mia mente che vuole fuggire.

«Perché maneggio cose delicate e a volte pericolose», risponde semplicemente togliendosi i guanti di gomma.

Non pare troppo sorpreso dalla mia domanda, anzi, afferra la teiera ricoperta di rose arancioni e si versa altro tè.

«Prima che tu faccia qualsiasi domanda ci tengo a dirti che, forse lo avrai capito, ma siamo nel mondo dell'inconscio. Tutto ciò che ricordi della tua vita è distorto e può essere stato trasformato variamente. Molte delle persone che hai incontrato nel tuo viaggio avevano a che fare intimamente con la tua storia, altre fanno parte del grande inconscio dell'umanità e avevano lezioni preziose da insegnarti»

Detto questo il demone si allontana un po' dal tavolo, quel tanto che basta per accavallare le gambe e porta con sé anche la tazza azzurra. Il piattino di porcellana sembra troppo piccolo per le sue grandi mani nere e lucide.

Quando il Disegnatore di Ombre solleva lo sguardo, espira con il naso un lungo soffio. Poi resta calmo ad aspettare la domanda che mi incendia la testa.

«Che cosa significa che sono l'anima di Brian?»

Lui non accenna nessun sorriso. Il suo volto pare restare privo di espressione per qualche secondo.

Quando parla, la sua voce è diversa, più profonda, come un boato della terra: «Ogni essere umano è un mistero composto da tre cose estremamente complesse: un corpo, una personalità e una cosa che gli viene donata alla nascita, antichissima e senza tempo: un'anima. Quando abitavi in Brian eravate estremamente mescolati. Ma quando lui ha tentato di uccidersi ed è entrato in coma tu ti sei staccata da lui, non solo dal suo corpo, ma dalla sua persona intera. A questo punto hai iniziato a dimenticare le sue particolarità. Hai portato con te solo quel nettare di esperienze che hai accumulato vivendo in lui.

Il compito di ogni anima è proteggere la consapevolezza acquisita: i sentimenti che custodisci sono reali, sono i frammenti della storia di Brian più salienti, solo i ricordi che li avvolgono sono distorti. Quando dico che sei l'anima di Brian intendo dire che sei la parte più antica che abitava in lui, una parte destinata a migrare da una vita all'altra»

«Ma com'è possibile che io non sia una persona reale?», dico con fervore mettendomi le mani nei capelli, «Come faccio a essere l'anima di un ragazzo? Ho visto il mio corpo nel letto d'ospedale. E poi ho un nome! Come faccio ad avere un nome?»

Il demone inclina la testa da un lato e lascia cadere il silenzio intorno a noi. Poi appoggia la tazza di tè ormai vuota sul tavolino e osserva l'alzatina per dolci piena di cupcakes colorati. Ne sceglie uno dalla base di cioccolato ricoperto da un ricciolo di glassa verde, forse pistacchio.

«Ti sei mai vista veramente?», dice poi alzando gli occhi carbone su di me, «Riesci a descrivere bene il tuo volto o di che colore hai gli occhi?»

Sprofondo nello schienale della sedia pieno di cuscini perché sento la testa vorticare e istintivamente mi porto una mano al viso. Lo accarezzo. Sento le labbra un po' screpolate, le guance, la fronte.

Che aspetto ho davvero?

«Il corpo che hai assunto in questa dimensione è particolare», dice il Disegnatore di Ombre osservando il suo cupcake, «È un po' come quello che si ha nei sogni. Hai scelto questa forma, ma potevi anche avere le sembianze di un uomo o un bambino»

Poi il demone addenta il suo dolce e lo fa scomparire molto velocemente. Vedo che gli è rimasta un po' di glassa verde sul naso quando continua a parlare: «Hai un nome perché sei un'anima molto antica ed è un privilegio che viene concesso solo dopo un tempo incalcolabile»

Arresa, fisso la mia tazza di té sul tavolino. Sarà ormai fredda.

I ricordi che ho non sono solo miei. Il corpo che ho non è un vero corpo. Cosa devo scoprire ancora?

«Perché hai deciso di ucciderti, lo sai?», il demone me lo chiede così, tranquillamente, pulendosi con un tovagliolo di pizzo il naso.

«Non l'ho certo deciso io. È colpa di Brian», dico premendo la radice del naso tra le dita.

«Ne sei sicura?»

Nel sentire quelle parole mi rannicchio stizzita sulla poltrona, un po' come fanno i bambini: «Ho davvero dipinto insieme a Brian quelle crisalidi?»
«Precisamente», risponde il demone accettando il cambio di discorso.

«Però non capisco. Io ho incontrato Brian nel Campo degli Evitanti. Com'è possibile?»

«Quello che hai conosciuto era la personalità di Brian, e aveva le sembianze che il ragazzo ha nella realtà», dice il Disegnatore di Ombre. Ha davvero una pazienza infinita.

«Mi fa strano pensare di avere quell'aspetto», borbotto tra me e me.

«Tu non hai un aspetto!», ride il demone con dolcezza, «Sei un'anima!»

«Mi gira la testa», dico premendo gli occhi con i palmi delle mani.

«Comprendo. Sono tante informazioni tutte in una volta»

Il demone osserva le luci che corrono impazzite nelle pareti mentre nella mia testa vorticano così tante immagini che mi sembra di esplodere.

Sono domande aggrovigliate, confuse, a tratti si illuminano, ma nessuna riesce a trasformarsi in parole. Ripenso a Dalila, all'indiano. Ripenso alla ragazza di carta con i pugnali sempre a portata di mano.

«E Ambra, Giglio Cangiante e il bambino? Perché non li ho riconosciuti se facciamo tutti parte di Brian?»

«Perché sono frammenti della sua personalità. Quando ti sei staccata da lui hai perso gran parte delle memorie che riguardano Brian»

«Non riesco a crederci», sospiro, «Non riesco a credere che sia tutto così distorto, che Samuel non sia mio fratello, che ogni cosa che ricordo sia finta»

A quel punto il Disegnatore di Ombre prende un'altra tazza, dalla pila pericolante che traballa sul tavolino, e mi versa del tè bollente. Quando me lo allunga faccio di no con la testa. Lui rassegnato la appoggia vicino alla sua.

Poi dice: «La verità non è poi così lontana. Oltre quel legame di amore-odio, Samuel e Brian erano pur sempre fratelli. Questo ricordo lo hai custodito in te anche se ha assunto una sembianza diversa»

«Cosa intendi dire con amore-odio? Brian odiava Samuel?»

Il demone mi allunga un cupcake alla fragola, con una piccola ciliegina in cima alla montagna di panna e io accetto il piattino, ma ho lo stomaco così dolorante che non credo di riuscire a mandare giù neanche un piccolo pezzetto di quel dolce così colorato.

Il demone allora mi osserva con tenerezza e con occhi vecchi milioni di anni.

La sua voce torna profonda: «Ti ricordi quando nel Mondo Bipolare ballavi con il tuo scheletro? Quando hai visto il ricordo di Samuel che rompeva quel vaso e la rabbia che hai provato? Quel ricordo contiene tutta l'invidia che tu e Brian provavate per lui. Lo amavate alle follia, perché con lui tutto era possibile, ma allo stesso tempo lo odiavate perché lui almeno aveva trovato un modo per sopravvivere. Alla fine, sotto sotto, eravate anche un po' felici che ci fosse quella ferita insanabile dentro di lui, perché voi potevate sempre riempirla»

Vorrei poter dire che tutto questo è solo colpa di Brian.

Che tutto il dolore, la rabbia, l'invidia appartengono solo a lui.

Ma le parole del Disegnatore di Ombre mi strisciano sottili dentro e qualcosa si risveglia.

Non è stato solo lui a voler morire.

Per un istante lo ho desiderato profondamente anche io.

Lo desideravo accennando immagini: un coltello che affonda nella carne, una macchina che mi investiva, rotolare per le scale e spaccarmi tutta (non solo i denti), buttarmi da una finestra aperta nella notte.

Non erano solo immagini. Era la morte che mi accarezzava.

Ed era molto più facile consumarmi con la colpa per la morte di Samuel piuttosto che ammettere che volevo morire, che la vita era diventata così spenta da essere insopportabile.

«Hai altre domande?», il demone studia il mio viso e trova qualcosa che gli fa trattenere il respiro. Forse nei miei occhi vede che ho smesso di fingere.

«Alibi e Ridal», dico schiarendo la voce, «mi hanno detto che Samuel è rimasto nella Stanza delle Pillole con loro, per un po' di tempo. Chi era il Samuel di cui parlavano?»

«Si riferivano alla sua anima. Prima di togliersi la vita la sua anima è entrata in questa dimensione ma si è persa»

«E l'Imperatore Pallido, chi era veramente?»

«Era un'ombra che viveva in te e in Brian, ma che non poteva più convivere con voi. Come diceva il cronometro dell'imperatore, tu eri destinata a porre fine a questa parte perché era troppo convinta che la sofferenza fosse la sola maschera possibile per vivere»

Molte cose dentro di me si ricompongono, come i piccoli pezzi di un puzzle. Le connessioni sulle pareti, intrecciate alle vene del cuore, pulsano con un'unica luce rossa.

«Il tempo delle domande è quasi finito», il Disegnatore di ombre abbandona il tovagliolo sul tavolo e si alza dalla poltrona facendo traballare il servizio da tè.

Visto in piedi è un colosso.

«Pensavo che il tempo non contasse per me», dico spaventata, perché non so cosa mi accadrà ora.

Il demone mi scruta con gli occhi che brillano e poi dice: «Ciscandra, la vita può davvero essere un viaggio entusiasmante se riusciamo a dare un significato alle nostre ferite. Dobbiamo essere un po' come artisti: trovare un significato. Tu hai chiuso a chiave una porta che ti ha segnato per sempre. Ora è la tua occasione per aprirne un'altra e fare la cosa giusta»

«E quale sarebbe la cosa giusta?», chiedo abbandonando lentamente la poltrona.

«Continuare a vivere, sempre, nonostante il dolore. Cercare la bellezza anche nelle ombre», le sue parole si imprimono come fuoco nel mio cuore e d'un tratto provo una grandissima vergogna per tutto quello che ho fatto.

«Ora vai, Brian ha bisogno di te», il Disegnatore di Ombre mi accompagna verso una nuova porta, anche questa è laccata di rosso e ha un pomello di ottone dorato.

Guardo per un'ultima volta il demone che mi appoggia una mano alla base della schiena, come per incoraggiarmi.

«Troverò la morte oltre quella soglia?», lo dico fissando intensamente i suoi occhi scuri. Non li voglio dimenticare.

«Dolce anima, questo non posso saperlo. La morte resta un mistero anche per questa dimensione»


***


È buio.

Il mio respiro è lento e regolare. Lo sento forte nelle orecchie, come la risacca di un mare illuminato da un sole che bagna timido e solenne il cielo.

Poi accade qualcos'altro.

Inizio a stiracchiarmi.

Mi allungo.

Entro e mi espando fino alla punta delle dita.

Abbraccio il corpo in cui ho sempre faticato a stare. Dico: «Sono tornata a casa, Brian» e lo stringo forte con questo pensiero, diventando un calore e poi solo un pulsare intenso.

Apro a fatica gli occhi, li sento incrostati.

«Oh, Cristo sulle Furie! Buongiorno signorino!», davanti a me vedo il viso nero di un uomo, un sorriso smagliante e caldo, una luce negli occhi così bella e familiare che mi viene da piangere.

Ma ancora riesco a muovermi, mi sento bloccato. Solo le punte delle dita sfiorano pianissimo il lenzuolo.

«Nessuno ci avrebbe mai scommesso! E io lo dicevo! Dicevo: "Ragazzi cari, questo fanciullo si risveglierà prima di quanto pensiate e vi farà mangiare la polvere a tutti!". Lo dicevo! Cavolo, se lo dicevo! Non sbaglio mai in queste cose!»

L'uomo è un fiume di parole che indossa un completo da infermiere azzurro e tiene in mano un pennello che gronda di colore rosso.

«Ah, tesoro mio! Scusami! So di essere un po' logorroico, ma non posso farci niente», dice gesticolando l'uomo con in mano il pennello, «Comunque io sono David. Mi sono preso cura di te per un po' di tempo. Ma non fare quella faccia! Non mi devi niente, eh!»

Poi però si avvicina, mi fa l'occhiolino e bisbiglia: «Però come minimo un regalino me lo aspetto, eh! Magari un vestito con mille spaghetti d'oro che sbrilluccinano gridando vendetta e che susciterà persino l'invidia del collier di Cartier più pesante!»

Spalanco gli occhi quando sento queste parole.

David mi guarda con una strana intesa negli occhi: «Adesso vado a dire ai medici che ti sei svegliato. Tu caro, aspettami qui tranquillo»

Ogni particolare della stanza che metto a fuoco è così nitido che mi gira la testa. Così chiudo gli occhi nella forte sensazione di aver fatto un lunghissimo viaggio o forse solo un lunghissimo sogno.

Quando David rientra nella stanza, chiudendosi dietro la porta, ha ancora il solito pennello in mano: «Ecco tesoro, li ho avvisati. Saranno qui tra poco. Ah, ma non guardarmi strano! Di solito non giro con questi cosi per il reparto, ma stavo preparando questo per quando ti saresti svegliato»

Quando l'uomo si discosta dal muro sento un fremito nello stomaco.

«Che te ne pare?»

Accanto alle crisalidi che avevo dipinto ora si dischiudono elettriche delle grandissime farfalle rosse.

Una dolcezza irriverente mi sboccia nel cuore.

Sorrido.



THE END

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