Ciscandra - Personality Disor...

By Ciscandra

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E dopo il Mondo Bipolare? Dove conduce quella misteriosa porta sul nulla che Ciscandra ha appena aperto? Sei... More

♥ Avviso per tutti i Cannibal Rabbits ♥
1. Le persone che sei stata prima
2. Cocktail mostruosi
3. Lo smacchiatore
4. Erzsy
5. White Lily e la seduta
6. La Tigre del Cuore
7. Pugnali e autoreggenti
8. Ascolterai Mine Bruciate Rubando Amore
10. Tu non mi hai spezzata
11. Pancakes rivelatori
12. Priscilla
13. Ho una voce. Ascoltami ruggire stanotte.
14. Il Distretto degli Istrionici
15. L'Indovina di Ferro
16. Diario di una cannibale
17. L'Imperatore Pallido
18. Sono una confessione che aspetta di essere ascoltata
19. Burattini, bugie e labbra di carta
20. Morso e la Regina dei Ratti
21. Giglio Cangiante
22. Pietra dei Ladri
23. Il Distretto degli Schizoidi
24. Il valzer del cuore cattivo
25. Fili rossi e frullati alla fragola
26. Niní
27. La Foresta delle Allucinazioni
28. La Casa degli Specchi
29. L'Hotel degli Inutilizzati
30. Brian
31. Ciscandra amerà distruggerti. Resterai imprigionato crollando.
32. Le Stelle Fredde e il Disegnatore di Ombre
GRAZIE

9. Un origami di carta sul baratro dell'incendio

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By Ciscandra


Ci sono enormi nuvole di polvere nella strada.

L'asfalto non è così accecante come credevo, anche se Didì accetta volentieri da Ambra degli strani occhiali, con una montatura azzurra e appuntita.

Forse lo prende come un gesto di tregua dalla bionda, che guida scalza, anche lei con grandi lenti scure e graffiate sopra gli occhi vuoti.

Da una radio scassata, Real Wild Child di Iggy Pop cerca con tutto il volume possibile di sovrastare il rumore del vento, che ci scompiglia i capelli (non certo quelli di Didì, che si è sciolto il turbante per metterselo come un foulard, stile diva anni sessanta).

Il sudore mi incolla ai sedili di pelle nera, che sembrano aver raggiunto una temperatura sopportabile.

«Quanto distante è questo paese?», urlo sopra la musica, voltandomi verso Ambra, che sterza a sinistra, seguendo l'asfalto rovente nelle nubi di sabbia.

Gli occhiali scuri rimandano un'espressione immobile. Solo delle rughe sottili si scontrano tra le sopracciglia marcate. «Non manca molto», grida la ragazza, dando uno sguardo veloce a Didì, che sdraiata sui sedili posteriori fa danzare le braccia alzate a ritmo di musica, fingendo di conoscere la canzone in radio (emette anche dei suoni strani, che somigliano a delle specie di ululati). Comunque, sembra aver recuperato in fretta il suo buon umore.

Le lenti nere di Ambra tornano su di me scuotendo la testa, e io mi lascio andare ad un sorriso. Poi mi distendo sul sedile con un grande sospiro ed osservo la mia mano nuotare nell'aria, spinta da onde invisibili di vento.

Mi sento strana. C'è qualcosa di inspiegabile che non riesce a cancellarmi il sorriso dalle labbra. È una gratitudine appena sbocciata, un timido calore nato da fattori stupidi forse... ma la musica alta, il forte vento addosso, e la macchina che corre veloce lasciando scorrere tutto dietro di noi, mi fa sentire viva come mai prima.

Una distesa luminosa di sabbia ci avvolge, ma non mi agita essere dispersa nel nulla. Forse, quel cielo di vetro viola senza nuvole è la cosa più bella che io e Dalila potremmo mai desiderare, dopo aver trascorso un tempo indefinito tra le mura rotanti del Sanatorio.

Pochi metri dopo sorpassiamo un cartello autostradale arrugginito. Una scritta sbiadita dal sole ci informa che siamo ufficialmente dentro i confini di 'Dissociation', ma passa ancora molto tempo prima che fiorisca qualcosa di fronte a noi.


***


Quando raggiungiamo un piccolo gruppo di case dai colori sgargianti, una strana inquietudine torna ad accarezzarmi le spalle.

Il sole è alto nel cielo, ma le silenziose villette a schiera, con i giardini anteriori perfettamente curati, mi rendono tremendamente nervosa.

Ho imparato a non fidarmi mai delle cose che sembrano perfette, pulite e ordinate.

Ambra parcheggia nel vialetto di una casetta gialla e quando spegne il motore, si sistema gli occhiali fissandosi nello specchietto, prima di mettersi i tacchi vertiginosi e sbattersi la portiera della Cadillac alle spalle.

Dalila balza fuori dall'auto come ridestata da un sogno agitato (sembra abbastanza frastornata dal viaggio), mentre io, quando scendo, resto imbambolata a fissare la lunga strada asfaltata che si snoda al mio fianco, delimitata dalle piccole case colorate.

Forse sto esagerando con tutta questa apprensione, ma è in quel momento che sento lo stomaco annodarsi ripetutamente: mi sembra di essere rinchiusa nel plastico di una città perfetta.

Ambra non dice nulla, né ci invita ad entrare. Fila dritta verso la porta di legno bianco, facendo girare velocemente la serratura prima di sparire nel buio.

«Voi chi siete?», dice una vocina.

«Oh! Per Dio!», grida Didì, premendosi una mano sul petto spaventata.

La piccola voce proviene da una bambina, che ci osserva dal giardino della casa affianco. Indossa un tuta da danza color carne, e una parrucca bianca con una lunga frangetta e un taglio a caschetto. I suoi occhi sono gonfi e rossi, come se avesse appena finito di piangere, ma l'espressione è stranamente fredda, non sorpresa come la sua voce stridula.

«Da dove venite?», chiede ancora la bambina, lasciando la bocca e gli occhi chiari leggermente spalancati.

«Cielo, tesoro! Mi hai spaventato! Sei davvero carina con quella tutina! Quando ero piccola la mia mamma me ne ha fatto una uguale uguale, sai?», risponde la drag queen chinandosi verso la bimba.

«Ma tu sei un uomo. Gli uomini non indossano i vestiti da femmina», dice la bambina, mettendosi le mani sui fianchi e inclinando imbronciata la testa da un lato.

«Be' c'è una cosa che si chiama femminilità, e quella non appartiene al corpo ma solo alla nostra anima», risponde Didì dolcemente, e il mio cuore si stringe di tenerezza, mentre osservo i suoi abissi scuri cercare un assenso nel piccolo viso ovale.

«Layla!», una donna appare sulla soglia della casa rosa. Indossa un abito da sera verde smeraldo (con lo strascico), e lunghi guanti bianchi di seta. Sembra pronta per un gala. «Ah, sei qui! Con chi stai parlando Lili?»

«Con un uomo che fa finta di essere una donna», risponde la bambina, grattandosi la testa.

«Oddio! E perché mai finge?», chiede la donna, avvicinandosi con passo elegante ed espressione austera.

«Perché dice che la femminilità non appartiene al corpo», ghigna la bimba, con un sorriso malevolo e improvvisamente così adulto, che mi si blocca il respiro in gola. Per un momento mi sembra di trovarmi di nuovo di fronte alla Regina Bipolare.

Proprio allora parcheggia un'auto nel vialetto. La portiera blu sbatte, rivelando un uomo magrissimo, di una certa età. Numerosi tatuaggi colorati si rincorrono sulle sue braccia ossute e pochi capelli ricoprono la sua testa. Il viso scarno è scavato da sottili venature bluastre, mentre un grande ematoma s'irradia da uno dei suoi occhi verdi.

Dalla macchina esce anche un ragazzo. Quando lo vedo sobbalzo, perché è vestito con lo stesso completo bianco che Micheal Jackson indossa in Smooth Criminal.

Un ricordo improvviso mi abbaglia.

All'ospedale, nella sala ricreativa, c'era una tv che trasmetteva a ripetizione la cassetta di Juliet. Lei diceva che era importante per noi ascoltare la musica, che quella ci poteva guarire. Ricordo che su quella cassetta, i video registrati erano quasi tutti di Micheal Jackson, perché Juliet adorava Micheal Jackson.

Mi sembra strano ricordare questa cosa. È come se avessi riportato a galla un sogno, e ora, non lo so spiegare, ma non sono pienamente convinta che sia successo realmente.

I mocassini pieni di fango si avvicinano alla recinzione. Il ragazzo si toglie il cappello bianco, rivelando una capigliatura bionda, su cui sta sbiadendo della tintura nera.

«Salve. Posso fare qualcosa per voi?», chiede, guardandomi dritto negli occhi.

Mi affianco a Didì, che si stringe in un abbraccio, sollevando appena il mento.

«Nulla, grazie. Siamo solo di passaggio», dico con voce smorzata, «Alloggiamo qui da un'amica»

Ha davvero un senso logico ciò che ho detto?

Il ragazzo annuisce, riportando il cappello con la fascia nera sulla testa. Vedo che alcune punte delle sue dita sono avvolte da piccoli cerotti bianchi.

«Cosa fate qui fuori! Rientrate! Subito!», una ragazza si affaccia da una finestra al primo piano della casa rosa. Uno sguardo terrorizzato sbarra i suoi occhi tremanti.

«Per favore lasciateci in pace!», grida paonazza, prima di richiudere violentemente i bianchi infissi di legno.

Nello stesso momento in cui la ragazza pronuncia queste parole, anche la bambina, la donna con il vestito verde, l'uomo magrissimo con i tatuaggi e il ragazzo con i mocassini, si voltano nella direzione mia e di Dalila, gridando all'unisono: «Per favore lasciateci in pace!»

Dalila mi prende per mano, tirandomi indietro con uno strattone, mentre io quasi inciampo arretrando.

«Ciscandra entriamo», mi dice la drag queen, improvvisamente seria in volto.

Le quattro strane figure non ci degnano più di uno sguardo, si allineano ordinatamente in una fila di altezze discontinue e scompaiono in casa con una camminata meccanica.

«Ricordami di non interagire più con nessuno, my love! Ho i peli delle braccia che sono schizzati via a perdifiato come ad un rally di auto clandestine!», mi bisbiglia febbrilmente Dalila, tenendomi sottobraccio.

Quando oltrepassiamo l'entrata della casa gialla, la porta sbatte fragorosamente dietro di noi.


***


La casa in cui entriamo è... enorme, e questo sembra spaventare me ma non Dalila, che commenta distrattamente dicendo: «Be', my love! Le case sono un po' come le persone, no? Magari piccole e insignificanti fuori, ma con enormi universi dentro!»

Nella penombra mi ritrovo a fissare accigliata la drag queen, che studia le sue unghie appena scheggiate, non accorgendosi minimamente della profondità che a volte hanno le sue frasi.

Forse Didì è abituata alle leggi del Mondo Bipolare, per lei nulla è così impossibile. Per me invece, è ancora faticoso concepire una casa come questa, che dall'esterno sembra poter contenere appena una cucina e una camera, ma che dentro ha almeno dieci stanze, senza contare il piano superiore.

Mi scopro ancora più sconvolta quando osservo lo svuota tasche sul tavolino vicino all'entrata, in cui sono riposte ordinatamente le chiavi della Cadillac.

So che è una cosa stupida, ma trovo tutto così assurdo!

Quando ho visto Ambra per la prima volta, avrei giurato che fosse uno spirito errante, che vivesse per strada o che i suoi vestiti fossero stracciati perché stesse scappando da questo Imperatore Pallido, che cancella le persone.

Mai avrei pensato che avesse una casa! Per giunta anonima e ordinata!

L'istante dopo noto qualcosa che mi incuriosisce ancora di più.

La casa che circonda me e Didì non ha delle pareti. Al loro posto ci sono tantissimi cassetti. Alcuni sono piccoli, altri enormi. Alcuni sono rossi, altri blu e altri ancora neri. Noto che tutti i cassetti rossi e blu sono bloccati con dei grandi lucchetti, mentre solo qualcuno di quelli neri pare socchiuso.

Mi sembra di trovarmi in un enorme archivio e quando sollevo la testa in alto, scopro che solo il soffitto bianco riesce a respirare.

«Venite su!», grida la voce di Ambra.

Salendo le scale spero di trovare qualche elemento caotico di umanità che mi faccia tranquillizzare, ma anche al piano superiore tutto è perfettamente lindo e in ordine.

Troviamo Ambra seduta su un grande letto matrimoniale, intenta a massaggiarsi i piedi (e fin qui niente di strano). È lo scenario bizzarro che la circonda a farmi rallentare il passo.

Sui cassetti che ricoprono interamente le pareti sono attaccati una miriade di fogli di carta. Alcuni sono fogli da disegno, altri piccole pagine stracciate, e poi ci sono post it, scontrini, pezzi di giornale ritagliato, tutti interamente ricoperti di parole, alcune scritte a mano, altre (sembra) con una macchina da scrivere.

«Dovreste cambiarvi quei vestiti», dice Ambra, mentre io la guardo perplessa, domandandomi perché in questi mondi hanno la fissa di cambiarmi sempre abito (capisco la casacca di cotone dell'ospedale, però...).

Come se mi avesse letto nella mente la bionda aggiunge: «In città dareste troppo nell'occhio con quelli»

Ora che la guardo bene, ha davvero delle gambe chilometriche e i lisci capelli chiari non sono da meno, perché arrivano a sfiorarle i fianchi, come i miei.

«Ehm, darling, per quanto abbia un corpo da urlo - non riesco a negarlo - temo che i tuoi vestiti non mi entrino!», esclama Didì, stirandosi sullo stipite della porta, come se fosse pronta ad entrare in scena.

«Tranquillo Ciglia Finte, ho qualcosa anche per te», ribatte Ambra con un ghigno sulle labbra. Solo quando si alza e mi si avvicina, mi rendo conto che, anche senza scarpe, è più alta di me di almeno qualche spanna.

«Non sarà certo il vostro... stile», dice, trascinando alla luce una scatola nascosta sotto il letto, «ma andrà bene per ora»

Quando Ambra solleva il coperchio tenuto insieme da qualche pezzo di scotch, tutto quello che vedo è un ammasso scuro. Mi chiedo come faccia a trovare qualcosa in quell'accozzaglia di tessuti neri. Ma lei sembra non avere alcun problema, perché rovista un po' nella scatola ed estrae a colpo sicuro alcuni capi, appallottolandoli e lanciandoli tra le braccia di Dalila, che guarda inorridita quel trattamento speciale riservato ai vestiti.

«Cielo tesoro! Ma sei una killer di capi d'abbigliamento!», dice Didì con un'espressione sbigottita in volto.

«Di là, la seconda porta a sinistra... c'è il bagno. Puoi cambiarti lì. E forse trovi anche qualche rossetto», risponde Ambra inespressiva, e io mi sorprendo nel scoprirla così... gentile.

Pensavo che Didì le desse fastidio, ma probabilmente non bisogna fidarsi delle sue espressioni fredde. Forse, non tutti sappiamo far salire il calore agli occhi. Forse, alcuni di noi non se lo sono mai potuti permettere.

«Un bagno? Cielo! È secoli che non ne vedo uno!», strilla Dalila entusiasta, dissolvendosi velocemente, mentre io mi chiedo a cosa possa servire un bagno in una dimensione dove non abbiamo praticamente stimoli vitali.

«Tu invece puoi mettere questo», Ambra mi dà un abito grigio tutto stropicciato. Quando allunga il suo polso nella mia direzione, riesco a vedere da vicino le profonde cicatrici bianche che gonfiano i suoi polsi.

Abbasso lo sguardo in fretta, come se avessi visto una parte troppo intima, e accetto il vestito accartocciato, mentre lei mi abbandona nella stanza, lasciando la porta semi aperta.

Per la prima volta dopo tanto tempo mi ritrovo sola, circondata dai muri di carta, che sembrano ammutolirsi per ascoltare.

Le parole che si rincorrono frenetiche sulle pagine di tutte le dimensioni mi fissano con occhi spalancati, trattenendo il fiato. Mi accorgo che tutti i fogli sono contrassegnati con delle cifre nere diverse.

Per un secondo resto immobile ad aspettare che accada qualcosa, ma non succede nulla.

Mi avvicino al letto, iniziando ad aprire la cerniera del vestito rosso ormai stracciato, quando noto sopra un basso comodino di legno, un grande foglio riempito di croci rosse.

Quando lo prendo tra le mie mani scopro che è la cartina di una città. Ci sono dei percorsi rossi segnati nelle stradine bianche e dei nomi di località barrati. Assieme alla cartina c'è una lettera. Anche quella ha un grosso numero nero scritto in alto.


___

235

Mi hai detto che io non esistevo, che non sapevo neanche cosa mi piacesse, che non bastava avere degli occhi e dei capelli per essere un umano.

Mi hai detto che ero solo un'estensione di te.

Però io ho scoperto cosa mi piace.

Mi piacciono le gomme da masticare, quelle rosa.

Mi piacciono i cieli azzurri strazianti, il profumo dei glicini, il sangue che esce dai miei tagli, le calze bucate e il trucco pesante, la musica lirica e lo zucchero a velo. Il tè, l'imbrunire, e le nocche delle dita strette tra i denti mentre piango.

Mi piace il sole, correre a piedi nudi nell'erba, i canali delle televendite e la pioggia che sembra quasi nebbia pungente.

Ma anche se ora lo so, non te lo posso dire.

Vorrei parlarti, ma tu non rispondi mai.

Ho iniziato a collezionare cose nella mia testa: stelle distorte, fiori impiccati al soffitto, unghie che sanno di profumo e pillole che fanno convergere universi.

Ma la solitudine resta qualcosa di strano e io mi sento piena di distanze irraggiungibili.

È duecentotrentacinque giorni che non ci sei. La noia è un abisso che mi priva di ogni forza.

Ho passato un giorno intero stesa a terra a guardare un ricordo dei cervi sul soffitto. Avevano un manto così morbido, occhi neri e macchie di ruggine sul pelo.

Il giorno dopo l'ho passato in bagno, nella doccia arrugginita. Mi sentivo nuda come un fantasma, anche se indossavo le calze autoreggenti. Ho passato tutto il tempo a guardarmi le vene. Quanto pesano secondo te? Le tue, quando si gonfiano, sembrano tracce di fame blu pronte a saziare la paura.

Giorni fa mi sono svegliata e ho deciso di aprire quel cassetto. Sono tornata lì, dove ci hanno spezzato. So che me l'avevi proibito, ma avevo bisogno di vedere del sangue per ricordarmi di essere reale.

Tu lo ricordi ancora?

Quel giorno che ci hanno rinchiusi in un pugno, il sole era caldo e io avevo quegli occhiali scuri e graffiati che ti piacciono tanto.

"Starai meglio", continuavano a dirci, ma tu ridevi con sdegno, mi dicevi che ero troppo ingenua a fidarmi di loro.

Dopo giorni di silenzio, avevo detto che abitavamo un'oscurità simile ad un coro di voci in preghiera (tu, le senti ancora?).

Da allora ci avevano sempre messi al sole qualche ora. Pensavano che così il buio dentro potesse scemare, come se la nostra pelle avesse potuto ingoiare piccoli cristalli appena nati, dissipando le tenebre.

Come facevamo a spiegare loro, che le nostre ossa erano solo sbarre da spezzare per rinascere?

Come spiegare della prigione che avevamo dentro? Del nostro sentirci completamente disarmati nel dolore? Della nostra incapacità di ricostruire ogni caduta, con pazienza, nello sconforto inerme?

Brian, dove sei?

Mi chiedo quanto brilli il coltello che hai nella schiena ogni notte che ti stendi.

Sai, ci sono ancora tanti fiumi di sangue in cui bagnarsi i piedi e alberi carichi di neve pronti a scaldare le nostre lingue.

A volte riesco a scorgere il tuo ritorno accecante, mi taglia appena le palpebre.

Dove sei, Brian?

Quali braccia stavolta ti bloccano contro il muro?

Chiedimi tutto, da capo.

Chiedimi come mi sveglio. Chiedimi che sapore ha la cenere in fondo alla gola, il cuore dell'ultima regina che ho mangiato. Chiedimi delle mie guerre, dei torti che ho inflitto, chiedimi delle torture di cui ho riso, delle pillole che ho ingoiato, di quante parole hanno cercato di amarmi.

Spengo le luci nella mia testa.

Se fossi qui, non capiresti mai a cosa sto pensando, però scopriresti che sono diventata forte e fragile come un fiore.

Se fossi qui, vorrei stringere una benda di chiodi attorno ai tuoi occhi, vorrei sentirti gridare d'angoscia mentre mi inginocchio e ti abbraccio la schiena. Forse allora sentiresti che senza di me non hai senso, che io sono nata per difenderti.

Ma no, tu continueresti a dire che stai meglio lontano da me, che non vuoi che io sporchi le tue cosce. Allora mi sentirei trafitta da polvere e vento, e cercherei della dolcezza nella tua crudeltà, una scheggia di amore in ogni tuo tremito di rabbia.

Sì, forse mi diresti con disgusto: «Guarda, sei diventata una spiaggia di ossa con un cuore in affitto»

Ma io ti amerei comunque, perché tra i due, sono io che ho trovato l'immensità in quella violenza.

Ti direi di amare la tua paura e di crocifiggere la tua bellezza. Ti direi che ogni cosa scorre nella giusta direzione. Ti direi che il nostro dolore è solo un crescere che si arrende alla meraviglia.

Ma tu mi volteresti le spalle, lasciandomi sola, ad osservare i tagli segnare pesanti ogni muscolo e ombra nella tua schiena.

___


«Hai letto», Ambra è sulla porta, mi fissa senza una traccia di emozione sul volto. Improvvisamente la vedo piccola e fragile, come un origami di carta sul baratro di un incendio.

E io mi ritrovo con la sua lettera in mano e un calore che mi divora lo stomaco.

Ho le mani macchiate.

Cosa ho fatto? Perché ho letto questa lettera! Erano cose sue!

Sento che dovrei vergognarmi, eppure c'è un impulso di curiosità avida dentro di me. C'è quella voce sottile, che ci dice a volte di violare i confini altrui, anche se sappiamo che è sbagliato, che non è così che si fa.

Eppure noi lo facciamo. A volte anche ripetutamente. A volte chiediamo scusa, a volte scopriamo cose, che capiamo solo a posteriori perché ci erano tenute nascoste dalla vita.

Eppure siamo lì, non intenzionati a tornare indietro.

«Mio fratello se n'è andato», gli occhi azzurri mi fissano indagatori per qualche secondo. Non c'è rabbia in quel volto. La ragazza bionda si stiracchia il collo prima di entrare nella stanza.

Persa nel suo sguardo, mi sento come davanti ad uno specchio.


♥ ♥ ♥

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