Game of Chaos (Game of Gods S...

De cucchiaia

1.5M 81.2K 387K

Spin-off di Game of Gods & Game of Titans, #4 da leggere. Nove fratelli e sorelle, con nomi di Dèi greci, ch... Mai multe

Intro + Info 🍒
1 (A) - Forse non avrei dovuto dare fuoco alla bara di mio zio
2 (H) - Le parole
3 (A) - Un martedí sera esplosivo
4 (H) - Le virgole
5 (A) - Vengo costretto a parlare dei miei sentimenti anche se non li ho
6 (A&H) - Il viaggio di Odisseo
7 (A) - Alla fine di tutto si scopre che sono un mammone
8 (A) - Mio nonno è un assassino
9 (H) - I punti di sospensione
10 (A&H) - Gli avverbi
11 (A) - Festeggio il mio non-compleanno
12 (A) - Quasi stermino metà famiglia durante i giochi di Achille
13 (A) - Purtroppo, adoro il drama
14 (H) - Dietro le quinte
15 (A&H) - I punti di domanda
16 (H&A) - Mostro il mio serpente a Hell (purtroppo non nel modo in cui pensate)
17 (A) - Faccio bagnare Hazel
18 (A&H) - Estoy condenado a no olvidarte nunca más
19 (H&A) - Visito la casa di Liam: il circo
20 (H) - Sotto le luci del palco
21 (A&H) - Il predicato verbale
22 (A&H) - Le parentesi
23 (H&A) - Rimorchio grazie alla matematica
24 (A) - Vengo costretto a una riunione di famiglia mai richiesta
24.5 - La mela rossa
25 (A&H) - Ho aspettato di vederti per 6 ore e 15 minuti
25.5 - La canzone di Iperione
26 (H) - Fine dello spettacolo
27 (A&H) - Il mondo visto dall'alto
28 (H&A) - Entro, spacco (un bicchiere), esco
29 (A) - Quasi perdo la testa per colpa di Medusa
31 (A) - Nella mia storia non sei il cattivo
32 (A) - Panta Vrehi
33 (H) - Dio della discordia
34 - L'epilogo
Epilogo - Dove piove sempre

30 (A&H) - Ho quasi ucciso i miei nonni

34.8K 1.9K 6.7K
De cucchiaia





Huzun (turco):
"l'acuto sentimento di perdita, misto a una visione speranzosa
del futuro e di ciò che la vita ha in serbo.
Un sentimento condiviso di malinconia - sofferenza poetica,
permettersi di soffrire profondamente, di struggersi per il dolore."

— I let it fall, my heart
And as it fell,
you rose to claim it
It was dark and I was over
Until you kissed my lips
and you saved me



🍒
A R E S

C'è un limite al dolore? Perché a me sembra che mi stia mangiando vivo. Lo sento aggrapparsi alle pareti del mio stomaco e iniziare a divorarmi, risalendo per tutto il mio corpo e ingurgitando con voracità ogni organo di cui sono fatto. Così affamato da non fermarsi ai tessuti morbidi, procede anche spaccandomi le ossa.

Sento ogni parte di me spezzarsi e svanire.

La morte è migliore. La morte è più buona della vita. E, in questo momento, vorrei davvero morire.

La vita mi suggerisce, da sempre, di farla finita. Mi sussurra subdolamente all'orecchio, ogni notte, incitandomi ad andarmene, per rendere il mondo un posto migliore.

Ma io sono più stronzo e tenace di lei, e non voglio morire per il semplice motivo che la resa non è nel mio sangue. Darò fastidio con la mia esistenza ancora per un po', fino a quando non sarà il destino a decidere per me.

Lancio un'ultima occhiata alla testa decapitata di mia madre biologica e mi inginocchio per terra. Allungo la mano tremante e le chiudo gli occhi, abbassando le palpebre. I miei polpastrelli indugiano sulla sua pelle.

«Ero solo un bambino», sussurro, giustificandomi con un cadavere. «Mi dispiace per la vita di merda che hai avuto, ma non è stata colpa mia. Il bambino che ha provato a ucciderti voleva solo smettere di soffrire. Riposa in pace.»

Be', un discorso di addio penoso, non c'è che dire.

Piego il foglio delle analisi mediche di Aphrodite e lo infilo nella tasca dei miei jeans, al sicuro da occhi indiscreti. Non è l'occasione giusta per parlarne. Non ora. Non qui. Non dopo tutto quello che è già successo.

Quando mi sollevo in piedi, il mio corpo è scosso da tremiti di rabbia. Mi guardo attorno; la mia famiglia è immobile, cauta, come se fossi una bomba a orologeria pronta a esplodere e distruggere tutto.

Ecco cosa temono, di me. L'impulsività. L'imprevedibilità delle mie azioni. Il momento in cui il mio cervello si disconnette e agisco col cuore, privo di razionalità.

L'istante in cui noto le loro espressioni dispiaciute e terrorizzate da me, accade. Sento quel filo sottile scollegarsi e andare in corto circuito. Non è una spina che è stata correttamente staccata dalla presa. È un cavo reciso che scoppietta e spara scintille, a cui non puoi avvicinarti per non rischiare la scossa.

Comincio ad avanzare fino al mio obbiettivo. Mi fermo davanti a Thymos, che non si smuove di un millimetro ma mantiene una postura di difesa. Guardingo, inarca un sopracciglio in una domanda silenziosa.

Riesco a vedere il rigonfiamento della tasca destra, nei suoi pantaloni, dove tiene le chiavi dell'auto. Con un gesto veloce infilo la mano dentro e gliele rubo.

Lo supero senza correre, ma a passo svelto, e lui impiega pochi secondi ad affiancarmi. «Cosa credi di fare?»

«Mi serve la tua macchina.»
«Per cosa?»

Non gli rispondo. È evidente che non sta provando a riprendersele con la forza perché ho appena tenuto in mano la testa mozzata di mia madre. In fondo, c'è un po' di tenerezza anche in questo uomo d'acciaio.

Usciti dalla radura, individuo un mini van – forse la vettura con cui Urano ha portato qui la famiglia – e la macchina di Thymos. Una Jaguar nera, invece, sta partendo in questo preciso momento. Ci sono due strade da cui passare, e l'auto imbocca quella più lontana.

«Ares, ti conviene darmi una risposta prima che ti butti a terra e ti spacchi la testa», avverte Thymos.

Premo il pulsante sul telecomando della chiave. «Se Urano pensa di potersene andare così, dopo quello che ha fatto stanotte, si sbaglia. Voglio seguirlo.»

«E dopo che lo avrai seguito, cosa pensi di poter risolvere?»

Sbatto la portiera e allaccio la cintura mentre metto in moto. In un istante, Thymos mi è accanto, sul sedile del passeggero. Alza l'indice, minaccioso. «Non ti azzardare mai più a sbattere così forte lo sportello della mia auto.»

Prova a tirar via la chiave per spegnere il motore, e io lo allontano con un gesto seccato.

«Ares, ascoltami...»

In tutta risposta, stacco la frizione e do gas. La macchina balza in avanti, e in cinque secondi sono già in terza. Vedo i fari dell'auto di Urano, a metri di distanza, e calco ancora di più sul pedale dell'acceleratore.

Non ho mai visto questa zona. Siamo molto più fuori dal centro di New Haven di quanto immaginassi. L'auto di Thymos sfreccia per una strada asfaltata a una singola corsia. Ai lati, ci sono campi deserti e desolazione. Anche oltre l'orizzonte non individuo la traccia di un singolo palazzo.

«Dovresti metterti la cintura», raccomando Thymos, serrando le mani attorno al volante. Il tachimetro segna i 120 chilometri orari.

«Ares, decelera e fermati. Stai facendo una cazzata», risponde, con semplicità e calma. Non sembra spaventato dalla mia guida e dalle mie intenzioni. Anzi, sembra seccato. Come un padre che guarda il figlio commettere un errore per il quale lo ha già sgridato diverse volte.

La macchina di Urano accelera di colpo, mettendo una buona distanza da me, segno che si è accorto di noi. Accelero anche io, sfiorando i 150. Le mani cominciano a sudarmi. Non mi è mai piaciuto guidare, e non sono il tipo che ama la velocità.

Ma la rabbia che ho dentro mi sta consumando. Se tornassi indietro, dalla mia famiglia, a farmi guardare con stupore e compassione, impazzirei. Non ce la faccio ad affrontarli. Ho bisogno di distrarmi, di concentrarmi sulla mia rabbia, perché se la lasciassi perdere, subentrerebbe la paura.

«Ares, fermati. Ci ammazzerai entrambi.»
«Non avresti dovuto seguirmi.»

«L'ho fatto per...»
Mi scappa una risatina. «Me? Non ci credo.»

«No. Per la mia macchina bellissima e costosa», corregge, stizzito.

Il mio sorriso si allarga ancora di più e volto il capo verso il sedile al mio fianco. «La tua adorata bambina rientrerà a casa senza un graffio. Magari con qualche macchia del sangue di Urano ma...»

La voce mi muore in gola quando ripenso a ciò che ho detto. La tua adorata bambina. La mia testa torna ai documenti che ora sembrano pesare cinquecento tonnellate nella tasca dei miei pantaloni. Avrebbe potuto averla davvero una bambina. O un bambino.

Come faccio a dirglielo?

«Ares!» grida Thymos, strappandomi dai miei pensieri. I suoi occhi sono spalancati, rivolti al parabrezza.

Quando guardo, mi accorgo che l'auto di Urano sta frenando bruscamente, mentre compie un'inversione a U in un unico movimento. Ora, la Jaguar ha il muso puntato nella mia direzione, e mi sta sfidando a procedere verso uno scontro frontale che sarà fatale per tutti quanti.

Un pensiero intrusivo mi fa paralizzare la gamba destra, impedendo al mio piede di premere il freno.

E se non mi fermassi?

Dentro quella macchina ci sono due scagnozzi di Urano e lui stesso, con la moglie. Se io, adesso, continuassi ad avanzare, moriremmo tutti. Non sarebbe la fine dei nostri problemi?

Sì, morirei dopo sei fatiche, con una sola mancante. Ma morirebbero anche i nostri nonni. Gli altri sarebbero liberi. Giusto? Potrei fare questo sacrificio. Morire per salvare mia madre biologica era troppo per il mio animo egoista. Ma morire per portarmi dietro anche Urano e Gea... Oh, suona come il perfetto epilogo della mia storia.

D'altronde, non è anche questo un giochetto di Urano? Fare inversione e sfidarmi a sacrificare la mia vita, di nuovo, per il bene degli altri. Lo ha fatto perché sa che io mi tirerò indietro, che sono troppo codardo. Sa che, per quanto la vita mi faccia paura e mi abbia preso continuamente a pugni in faccia, io non ho il coraggio di lasciarla andare e sono disposto a restare inerme a farmi colpire.

«Thymos, pensi di poter saltare giù dall'auto in corsa?» chiedo.

«Frena, coglione!» mi ordina Thymos.

«Ti dispiacerebbe molto morire ora, qui?»

«Ares, inizia a premere il freno!» Thymos lancia una serie di imprecazioni così volgari e furenti, che per un attimo ho più paura di lui che dello schianto.

«Merda», urlo, premendo sul freno con tutta la forza che ho. E per quanto l'auto risponda in modo veloce, non lo sarà mai abbastanza per evitare l'impatto.

«Non ci fermeremo mai in tempo», sibila Thymos.

«Thy...»

Pochi metri ci separano, ormai. Urano accende gli abbaglianti, e due fasci luminosi mi colpiscono gli occhi. Fortuna che me ne funziona solo uno e, di conseguenza, il mio fastidio è dimezzato.

Per Thymos non è così; si copre il viso con il braccio, e l'altra mano vola sul freno a mano.

«Che cazzo fai?» lo aggredisco, continuando a scalare le marce. «Finiremo per...»

«Tappati quella cazzo di bocca», mi sgrida. «Questo è il nostro momento di convertirci e pregare qualsiasi Dio esista lassù.»

Il suo nome mi muore in gola quando solleva il freno di stazionamento. La velocità è ancora troppo elevata, però, e accade ciò che temevo. La vettura comincia un testacoda, ruotando di 360 gradi, ma inizia anche a perdere velocità.

In pochi istanti, scivoliamo al lato sinistro della strada, capottandoci tre volte. Basta il primo urto ad azionare l'airbag del passeggero, evitando a Thymos lo schianto sul cruscotto. Il mio non si apre, però, e la mia testa sbatte in avanti sullo sterzo. L'impatto mi lascia stordito, con un dolore pungente che si concentra sul naso. Al secondo urto, si apre anche il mio. Al terzo, si arresta la nostra corsa.

Siamo a testa in giù, sul bordo strada, in mezzo alla vegetazione. Nell'abitacolo regna il silenzio solo per qualche secondo, prima che la mia portiera si spalanchi e qualcuno mi estragga fuori con la forza. Non ho nemmeno il tempo di riprendermi e metabolizzare ciò che è appena successo.

La testa mi gira e sento male ovunque, persino i suoni mi arrivano ovattati. La voce che mi sta parlando pronuncia parole spezzate, di cui non riesco a ricomporre i pezzi.

Riconosco solo il viso di Urano, che mi stringe per il colletto della giacca in pelle e mi dà uno scossone. Sorride, soddisfatto, e mi passa il polpastrello dell'indice sulla fronte, per poi mostrarmi il mio sangue che gli macchia la pelle.

Cogliendomi di sorpresa, se lo porta alla bocca e lo assaggia. Mi viene un conato di vomito.

Mi dà uno strattone più forte, e avvicina le labbra al mio orecchio: «Sono felice che, per l'ennesima volta, tu non sia riuscito a fare l'eroe e toglierti la vita. Voglio vederti morire davanti ai miei occhi, mentre sorseggio un vino costoso e me ne sto seduto comodo.»

Mi lascia andare, spingendomi, e sbatto la nuca sul terreno. L'erba secca e puzzolente attutisce l'urto, ma fa un male cane comunque. Se avessi un briciolo di forza, mi rialzerei per strangolarlo.

L'ultimo saluto che mi dedica è uno sputo in pieno viso, seguito da un insulto che ignoro.

Riconosco il suono di passi che si allontanano, poi un'altra portiera che sbatte e il rombo di un motore che viene messo in moto. In quell'istante, so che io e Termos siamo rimasti soli, sdraiati accanto a una macchina capottata in culo al mondo.

Merda.
Mi sa che è colpa mia.

«Moccioso, stai bene?»

Thymos mi appare come una visione angelica, il mio Salvatore. Per un attimo, valuto l'ipotesi che possa essere Gesù Cristo venuto a prendermi e che io sia morto.

Lui sembra capire la mia confusione dal mio sguardo, perché mi afferra per le spalle e mi mette seduto, con la schiena poggiata all'auto. «No, non sono Dio. Al massimo potrei essere Lucifero che viene a trascinare il tuo culo all'Inferno. Ma dubito che pure lì ti vorrebbero.»

Mi indico un punto indefinito del volto. «Non vedi come sono messo? Ti sembra il momento di aggredirmi?»

Noto che Thymos non ha un graffio, ora che il mio occhio comincia a metterlo a fuoco. Però alcune rughe di espressione sul viso mi indicano che l'ho fatto spaventare parecchio. Respira a ritmo irregolare, e il sudore gli imperla la fronte ambrata.

«Hai distrutto la mia macchina, tanto per cominciare. E ci hai quasi ammazzati, prima con un frontale che ho scampato io e dopo con un testacoda dovuto al fatto che non hai iniziato a frenare subito. Ho tutto il diritto di aggredirti, e ringrazia che lo sto facendo solo verbalmente, perché ho una voglia matta di spaccarti ogni osso che hai in corpo», butta fuori, senza pause. Quando termina, pare più calmo, dopo aver sfogato una piccola parte della sua ira.

Mi inumidisco le labbra e sbatto furiosamente le palpebre. Be', non posso ribattere. Ha ragione. Abbasso il capo, colpevole e imbarazzato, in segno di resa e sottomissione. Spero che gli bastino come scuse, visto che non ho alcuna voglia di pronunciarle.

«Chiamerò il soccorso stradale. Ti scarico al Pronto Soccorso e faccio venire la tua famiglia.» Thymos fruga dentro la tasca e recupera il cellulare.

I miei occhi si spalancano ancora prima che possa frenare la mia reazione istintiva. Thymos resta con il telefono a mezz'aria, il dito sospeso in direzione dello schermo.

«Ti prego, no.»

Mi costa davvero troppo dover supplicare qualcuno, a maggior ragione se è Ken Greco. Ma devo.

«Ares?»

«Non ho nessun danno grave. E non ce la faccio a vedere gli altri, ora», ammetto in un sussurro.

Thymos è immobile, svetta su di me con la sua figura mastodontica e piena di muscoli. Alla fine, si inginocchia, in equilibrio sulle punte dei piedi, e i suoi occhi castani mi si puntano addosso con insistenza.

«Rispondi a una domanda.»
Annuisco.

«Hai davvero preso in considerazione di schiantarti con l'auto di Urano e suicidarti, pur di ucciderlo?»

«Se rispondessi di sì penseresti che sono coraggioso o uno stupido coglione?»
«La seconda.»

Non fiato. Volto il capo verso sinistra, per evitare il suo sguardo indagatore. Qualcosa, tra l'erba di un cespuglio, si muove. Osservo le foglie frusciare e agitarsi piano, fino a ritornare al loro stato di immobilità.

«Ehi, poppante, stammi a sentire. Guardami

Controvoglia, punto lo sguardo su Thymos. È così vicino che, per la prima volta, posso accogliere bene ogni dettaglio del suo volto. «Cazzo, sei davvero bello. Non me n'ero mai reso conto.»

Aggrotta la fronte, poi decide di lasciar stare. «Il tuo passato è orribile. Tua madre era una drogata che ti trattava male e non si preoccupava di te; ti odiava perché eri il frutto di un abuso. E tu, stando a tuo nonno, avresti provato a liberarti di lei nell'unico modo che un bambino cresciuto nello sbando totale poteva conoscere. Il tuo passato è una merda, Ares, ma gli stai permettendo di influenzare il tuo presente. E, soprattutto, stai permettendo a Urano di allontanarti dalla tua famiglia.»

Faccio una smorfia. «Penseranno che sia un mostro.»

«Questa è una tua ipotesi, non la realtà. Prima di temere il mostro nell'armadio, accertati almeno che ci sia un mostro dentro quel cazzo di armadio e apri le ante.»

Sbuffo, ma solo perché ha ragione e io detesto avere torto. Giuro, è la cosa che più mi irrita al mondo. Pari merito con il chiedere scusa, adesso che ci rifletto meglio.

«Capisco», cedo, alla fine. «Resta il fatto che ho bisogno di stare un po' da solo, ora. È un reato? Tutti abbiamo diritto alla solitudine, okay? Quell'armadio lo voglio lasciare chiuso, solo per qualche giorno.»

«Se solo facessi la stessa cosa con la tua boccaccia...»

Alzo gli occhi al cielo. Un dolore pulsante alla tempia mi fa emettere un sibilo, infastidito, fino a quando non svanisce.

«Sei arrivato fino a qui, e non di certo per fortuna. Sei sicuramente un deficiente, ma hai un briciolo di cervello e una fiammella dentro di te. Sfruttala, e incendia tutto.» Fa un sorrisetto. «Magari anche le bare dei tuoi nonni, questa volta.»

Dio, quanto lo spero. Anche se, per loro, punto a fare un upgrade. Crono l'ho cremato, praticamente. Quei due... Oh, quei vecchi di merda voglio bruciarli vivi.

«Urano, con ogni gioco, voleva portarti alla morte. Voleva che tu, praticamente, ti suicidassi. Per tenersi le mani pulite. Se qualcuno vuole così tanto la tua morte, è tuo dovere lottare il doppio per restare vivo. Resta. Vivo. Ares», scandisce ogni parola.

I nostri sguardi si incontrano, e mi trovo ancora ad annuire. «Resterò vivo. Ci provo.»

Thymos mi fissa ancora, ma la sua attenzione si sta spostando di nuovo verso il telefono. Basta quel gesto ad aprire il mio personale vaso delle paranoie, nella mia testa.

Cosa diranno? Zeus non avrà pietà, come al solito. Come reagirà Teia? Avrà paura che possa provare a uccidere anche lei? Hera mi regalerà uno dei suoi abbracci dolci e confortanti, o mi starà lontana? E Hell? Le ho detto che sono troppo egoista per allontanarla e tagliarla fuori, ma ora potrebbe scegliere lei di scappare a gambe levate da questa famiglia. No, da me.

So che dovrei prima controllare se c'è un mostro nell'armadio. Però, non ce la faccio. L'ansia mi si attorciglia alla gola e comincia a soffocarmi, lentamente, rafforzando sempre di più la presa.

Mi porto una mano al collo e strizzo gli occhi. Spalanco la bocca e faccio un respiro profondo, aiutandomi anche col naso.

Thymos si blocca subito. «Ares?»

«Mmh.»

«Ares. Merda. Ci mancava anche un attacco di panico, stasera», borbotta.

Mi farebbe ridere, se solo non avessi una quantità di ossigeno limitata da conservare per non crepare qui.

Thymos abbandona il telefono per terra e mi è subito vicino. Mi raddrizza la schiena e mi sprona a seguire il ritmo del suo respiro. «Ascoltami, moccioso. Ascoltami. Mi stai ascoltando?»

«Porca puttana, sì, sì, sì!»

«Ora chiamo il soccorso stradale e un'ambulanza. Lascerò che ti visitino e decidano loro se è il caso di portarti in ospedale. In caso dovessi star bene, verrai con me nel mio appartamento vicino a Yale. Potrai restare lì fino a quando lo vorrai, a patto che tu non rompa eccessivamente le palle. Chiedo troppo, forse, ma ci provo.»

D'un tratto, una grande boccata d'aria mi fa gonfiare il petto e dà sollievo ai polmoni. La porta dell'armadio comincia a chiudersi. «Dici sul serio?» domando in un bisbiglio rauco.

«Sì. Però, stai calmo e respira, per favore. Non credo di riuscire a sopportare altri problemi, oggi.»

Thymos afferra il telefono, io protendo la mano in avanti e la aggancio attorno al polso. «Perché lo fai? Perché mi aiuti?»

Non mi guarda. Si libera dalla mia presa con un movimento delicato. «Non lo so nemmeno io. Voglio farlo e basta.»

«Ah, chiaro. Cominci a volermi bene.»

Ora sì che ha gli occhi su di me e mi sta incenerendo sul posto. «Non scherzare. Ti prenderei volentieri a pugni.»

Scivolo qualche centimetro di lato, mettendo altra distanza fra i nostri corpi. Non lo farebbe mai, ora, ma Justin Bieber una volta cantò "never say never", e in fondo aveva ragione.

Thymos si rimette in piedi e porta il telefono all'orecchio; in attesa di risposta, prende a passeggiare attorno all'auto, studiandone i danni. Ogni tanto lo sento mormorare imprecazioni, miste a insulti rivolti verso me. Molto originali, devo dire.

Io adagio la nuca contro l'auto e chiudo gli occhi.

Devi dirgli di Aphrodite e del figlio. Lui non lo sa. E chissà se anche lei lo sapesse. Devi dirglielo. Ti sta facendo un favore. Gli hai sfasciato l'auto. Lo hai quasi ucciso in un frontale. Devi dirglielo. Essere onesto è la cosa giusta da fare. Più rimandi, peggio sarà.

Merda. Odio quando la vocina razionale ha ragione, perché mi costringe a fare cose che non vorrei, seppur giuste.

Non posso entrare in casa sua e mentirgli.

Merda. Merda. Merda.

Urano voleva dimostrarmi che, nel vaso di Pandora, ci sono ancora tanti segreti sulla famiglia di cui ignoriamo l'esistenza. Questo su Aphrodite, in particolare, me lo sarei risparmiato volentieri. Ennesimo giochetto per vedere se lo nascondo alla mia famiglia o se lo confesso. Ogni opzione ha i suoi rischi.

Non dirlo eviterebbe tanta sofferenza, ma se poi lo scoprissero in futuro... sarebbe la fine.

Mi sollevo il tanto da poter sfilare il documento, ripiegato dentro la mia tasca, quando un rumore alla mia destra mi mette sul chi va là. Ogni muscolo del mio corpo si pietrifica, mentre scruto nel buio alla ricerca di una potenziale minaccia.

Thymos, alle mie spalle, cammina avanti e indietro e spiega le dinamiche dell'incidente all'operatore telefonico.

L'erba di un cespuglio si muove. Dal fogliame vedo sbucare una zampetta nera, che scompare velocemente.

Che diamine...

Tamburello le dita sul terreno e provo a fare qualche versetto, piano, per attirare fuori qualsiasi animale si nasconda lì dentro. Dopo svariati secondi in cui mi sento un completo coglione, un batuffolino di pelo nero fa la sua entrata in scena.

È un gattino completamente nero, con le orecchie piccole e a punta. Non credo che abbia più di un mese. Protetto dall'oscurità, attende di capire se può fidarsi di me.

Io mi avvicino con un gesto studiato, e quando lo vedo da più vicino per poco non scoppio a ridere. Mi tappo la bocca con la mano per bloccare la risata e non spaventarlo.

Questo gattino ha un solo occhio aperto. Una sola iride gialla, con la pupilla sottile come una lama. L'altro, invece, è chiuso, e all'angolo più interno c'è una crosta bianca. Nonostante ciò, il suo muso è la cosa più dolce che abbia mai visto in vita mia.

«Ehi, amico», lo saluto. Indico il mio occhio. «Tu non lo sai, ma io ti capisco benissimo.»

Il gatto rimane immobile. Trema appena, non so se perché magari ha freddo o perché ha qualche malattia che ignoro. Dev'essere un gatto randagio, ma la sua famiglia dov'è? Si è perso? È morta? O qualche umano lo ha abbandonato su questa strada e se l'è data a gambe?

Allungo la mano e agito le dita, piano. Il gatto indietreggia, studiandola come se fosse un'arma pericolosa, ma dopo qualche istante muove due passi traballanti nella mia direzione.

Attendo, senza pressarlo, e quando mi è abbastanza vicino, comincia ad annusarmi la punta delle dita. Il suo nasino umido si scontra con i miei polpastrelli, dandomi una sensazione piacevole.

«Ehi, micetto», mormoro, e azzardo a fargli una carezza delicata sulla testa. «Che ti è successo di così brutto? Anche il tuo nonno gatto ha messo alla ghigliottina tua madre?»

Il gatto mi lancia uno sguardo carico di giudizio, come se mi stesse dando dello scemo.

Il suo unico occhio sano è lucido, e il pelo è sporco e rado. Sembra denutrito, se non malato. Non credo nemmeno che sopravvivrà a domani, a dirla tutta. Una morsa mi stringe il petto, al pensiero che questo esserino innocente possa morire qui, da solo, sul ciglio di una strada.

D'istinto, provo il desiderio irrefrenabile di prenderlo con me e portarlo via. Anche se non sono ammessi animali nei dormitori, chi sono io per rispettare le regole e lasciarlo da solo?

Poi, con la coda dell'occhio, capto la figura di Thymos che si sta avvicinando e trovo la soluzione. Posso lasciarlo a casa sua. Non accetterà mai, ma la sua approvazione non è richiesta, per quanto mi interessa.

Il gattino si sdraia accanto alla mia gamba, e io mi chiedo com'è possibile che si fidi già di me al punto da starmi così vicino, lasciandosi accarezzare il corpo scheletrico e tremante. Dev'essere così stanco della solitudine, che a questo punto della sua breve vita cercherebbe amore e calore da qualsiasi persona.

Sta chiedendo aiuto.

Interrompendo il contatto, mi sfilo la giacca in pelle e la uso come coperta, mettendolo lì in mezzo. La creatura reagisce facendo le fusa. Accosto l'orecchio al suo corpo e chiudo gli occhi, sorridendo piano per il rumore delle fusa.

«Tra venti minuti saranno qui», annuncia Thymos, che sta osservando la scena intima fra me e il gatto come se fosse la cosa più assurda del mondo. «Hai fatto amicizia?»

«Dobbiamo portarlo con noi. Non può stare qui da solo.»

«Immagino che tu voglia lasciarlo a me, nel mio appartamento.»

«Esatto.»

«Te lo puoi scordare, moccioso.»

«Non sta a te la decisione.»

«È casa mia, quindi direi di sì.»

«Lo porteremo da te.»

Thymos sospira, e con le mani sui fianchi inclina il capo verso il cielo scuro e privo di stelle. «Dio, dammi la pazienza, perché se mi dai la forza io te lo spedisco tra le tue braccia e sono sicuro che manco tu la vuoi questa rottura di coglioni.»

Trattengo una risatina.

Poi mi ricordo del foglio nella mia tasca. Devo dirglielo. Deve sapere. E, adesso, nemmeno la dolcezza di questo trovatello orfano riesce a placare il terrore che mi attanaglia.

Il cuore mi batte all'impazzata mentre sfilo il foglio dai jeans e glielo porgo, lasciando il braccio teso nell'aria. Thymos lo fissa, con un sopracciglio inarcato, e lo afferra. Ma non lo apre. Se lo rigira tra le mani, sempre più confuso.

«È quello che ti ha dato Urano, prima di andare via, vero?»

«Sì. Mi dispiace.»

Bastano le mie parole a farlo irrigidire. Le mani grosse e callose di Thymos cominciano a tremare, in preda a un nervosismo che non gli ho mai visto. Nemmeno quando stavamo rischiando il frontale era così agitato.

Non sono pronto ad assistere alla sua reazione, ma non riesco nemmeno a distogliere gli occhi dal suo viso.

Man mano che legge, il suo petto si gonfia. Percepisco il momento esatto in cui smette di respirare, trattiene il fiato, e lo rilascia solo quando ha finito.

Senza dire niente, lo ripiega e me lo rende.

«Thy...»

Lui mi dà le spalle e comincia a camminare nella direzione in cui siamo arrivati. Cammina sul ciglio della strada a passo svelto, come se qualcuno lo stesse rincorrendo. Si allontana di svariati metri, fino a diventare una sagoma indistinguibile.

Nel silenzio della notte, un urlo squarcia la quiete. Un urlo virile, roco e carico di dolore. Il suono si prolunga per istanti interminabili; fa così male che ho la tentazione di tapparmi le orecchie per non sentirlo più.

Anche il gatto drizza la testa, a fatica, per poi rintanarsi di nuovo su se stesso.

Un secondo urlo squarcia l'apparente quiete creatasi. Si spezza a metà, e il suo eco mi rimbomba nelle orecchie.

Con gli occhi puntati davanti a me, comincio a scorgere la figura di Thymos che torna da me. Quando mi è abbastanza vicino, la sua espressione è impassibile e le mani sono strette in due pugni lungo i fianchi. Per quanto si sforzi di nascondere le sue emozioni, ha gli occhi più tristi che abbia mai visto in una persona. Vuoti, spenti, privi di luce.

Senza aprire bocca, si siede accanto a me, per terra. Ha le spalle ricurve e le gambe distese davanti a sé. Ogni tanto, le mani vengono scosse tra fremiti violenti. Il suo corpo emana calore e... dolore. Lo sento come se fosse una nebbia fitta, invisibile, che sta attorno a noi e ci avvolge.

È soffocante. Mi viene da piangere.

«Non lo sapevi», constato. Non ero sicuro se ne fosse al corrente o no.

Penso che non mi risponderà.

Invece, dopo un attimo di esitazione, parla. «No. E credo che nemmeno lei lo sapesse.»

«No?»

«Aphrodite non voleva figli. Almeno, non a quel punto della sua vita. Ero riuscito a farla ribellare al padre, e aveva ottenuto il permesso di iscriversi al corso di Astrofisica. Eravamo d'accordo. Io, più di lei. L'avrei seguita anche fino all'altra parte del mondo, pur di vederla realizzare i suoi progetti. E, quando si sarebbe sentita pronta, avrei accolto volentieri l'idea di una famiglia e dei... bambini.»

Dio, la giornata di oggi va di male in peggio. Manca qualcos'altro a distruggere le nostre vite? O è abbastanza così? Possiamo avere una tregua, ora?

«Mi dispiace.» La cosa più inutile che si possa dire a qualcuno che sta soffrendo.

«Anche a me.» La cosa più orribile che quel qualcuno possa risponderti.

«Non è giusto che continuino a infierire su Aphrodite. Non è giusto che tu debba continuare a rivivere quel dolore.»

«Ma io non voglio smettere», risponde. «Non voglio smettere di pensare a lei, anche se fa male. Potrei evitare tanta sofferenza, senza pensare a Daisy e andando avanti con la mia vita, come un automa. Ma non posso. I morti vanno ricordati e pianti fino a quando non si riesce a farlo con un sorriso.»

Faccio una smorfia. Non sono affatto d'accordo. «Quindi ti torturi volontariamente, pensando a lei?»

Annuisce.

«Perché?» Credo di saperlo, ma voglio sentirlo dalla sua bocca.

«Perché la sua morte è anche colpa mia, che non ero lì a proteggerla.»

Ecco il motivo del suo aiuto. Sa che ci accomuna il senso di colpa. Senso di colpa per cose di cui, in realtà, non abbiamo poi colpa.

«Non era colpa t...» tento.

«Quando l'ho scoperto ho pensato di andare da Athena e ucciderla. A seguire, il padre. Ritenevo lei e Crono colpevoli. Alla fine, ho spostato quell'accusa su di me. Prima o poi mi perdonerò.»

Faccio per ribattere, ma lui alza la mano per aria. Ha gli occhi chiusi, serrati a forza, e mi sta supplicando di fare silenzio. Una lacrima gli sfugge al controllo, e la spazza via con un gesto rapidissimo.

«No, per favore. Non voglio più parlarne», mi dice in tono supplichevole. E capisco che gli sta costando davvero tanto implorarmi così. «Basta così, oggi.»

Perciò, mi tappo la bocca e riprendo a coccolare il mio nuovo amico, che non ha smesso per un secondo di fare le fusa.

«Hai deciso come chiamarlo?» indaga Thymos, dopo un po'. Forse ha bisogno di distrarsi.

Stringo le spalle. «Non saprei. Vorrei dargli il nome di qualcosa che mi piace, ma dubito che "tette" sia un bel nome da dare a un animale.»

Thymos mi guarda, la bocca dischiusa, e l'aria di uno che vorrebbe volentieri lasciarmi qui da solo a marcire. «Sei un coglione.»

«Dovresti chiamarlo 13.»

«13? Come il numero?» domando.

Thymos mi lancia un'occhiata esasperata. «Come altro, sennò? Certo.»

«Ma porta sfiga il 13», ribatto, poco sicuro. In realtà, nella mia mente, comincia ad acquistare il senso che ha anche in quella di Thymos.

«Il 13 è il numero sfigato per eccellenza. Conosci le varie storie dietro questa scaramanzia?» comincia a raccontare. «Secondo la mitologia nordica, il 13 era associato a Loki, la tredicesima divinità dell'universo pagano del nord. Dio dell'inganno e maligno, si narra che fosse crudele con gli uomini. Riferendoci, però, alla vostra amata mitologia greca, c'è un collegamento pure lì. Secondo lo storico greco Diodoro Siculo, Filippo II, re di Macedonia e padre di Alessandro Magno, fu ucciso da una sua guardia del corpo dopo aver fatto erigere una sua statua accanto a quelle dei 12 Olimpi. La sua morte sarebbe stata la punizione per la sua superbia, e marchiò il numero 13 con lo stigma della sfortuna.»

«Wow, sei un uomo tutto muscoli e cultura, Termos.»

Sbuffa.

«Comunque, non mi piace tanto che gli associamo la sfiga. È una piccola creaturina indifesa e tenera», dico, con la voce più alta di un'ottava, mentre gratto il nasino del gatto.

«Già», borbotta Thym. «Gatto nero, abbandonato in mezzo ai campi, denutrito e con un occhio chiuso, che ha incontrato come prima persona proprio te. Direi che più sfigato e adatto al 13 non c'è nessuno.»

🦊🔥
H E L L


Sono passati due giorni dalla sesta fatica di Ares, e lui è sparito. Svanito nel nulla. Si è allontanato con Thymos, e non lo abbiamo più visto.

Non ha risposto a nessuna chiamata o messaggio. Ci siamo anche divisi per andare a cercarlo. Hera, Poseidon, Liam e Zeus sono partiti per la Grecia, per controllare che non si trovasse sull'Olimpo; io, Apollo, Nys, Haven e Hades siamo andati a controllare all'appartamento di Thymos.

Continuo a pensare che Liam abbia insistito a far parte della squadra Grecia, solo per fare un salto a Santorini, ma questa è un'altra questione che ora non è importante.

Non era in nessuno dei due posti. Thymos ci ha liquidati dicendoci che aveva solo bisogno di un po' di tempo da solo, che aveva paura e che dovevamo aspettarlo.

Quando esco dalla doccia, mi avvolgo in un asciugamano grande e resto a fissare il mio riflesso sullo specchio appannato. Man mano che la nebbiolina svanisce scopre piccoli dettagli del mio viso. La ragazza che mi sta guardando ha le occhiaie, le labbra spaccate e l'espressione preoccupata.

Non riesco a togliermi la preoccupazione di dosso. Vorrei solo che lui fosse qui. Che parlasse con qualcuno. Che si facesse consolare e rassicurare. Vorrei vedere il suo sorriso da furbetto e sentire una delle sue solite battute del cavolo che fanno ridere solo me.

Con un sospiro, prendo l'olio per capelli di Hades e lo applico sulle punte bagnate. Condividere la stanza con Haven significa anche che il suo ragazzo, ogni tanto, passa la notte qui e la mattina ha bisogno del suo kit di hair care e skin care, pronto all'evenienza. Non si accorgerà che gliene ho rubato un po'.

Stasera sono sola, motivo per cui esco dal bagno senza vestirmi e resto con l'asciugamano addosso.

Quando varco la soglia e mi sporgo oltre, in direzione del salotto, per poco non urlo dallo spavento.
Lui è qui.

Ares è poggiato alla porta d'ingresso, come se volesse compensare il fatto di essere entrato senza bussare. Ha le braccia conserte, il capo chino verso il basso e indossa una semplice maglietta bianca a maniche corte, che risalta la pelle liscia e olivastra.

Non riesco a muovermi, paralizzata da un'ondata di sollievo. Man mano che i secondi passano, senza una parola da parte sua, comincio a provare un acuto senso di agitazione.

Sono arrabbiata. Non perché ha voluto prendersi del tempo da solo, ma perché non si è degnato nemmeno di dirci se stesse bene.

«Ciao, Genietto.»

Sentire la sua voce mi fa quasi crollare in ginocchio dal sollievo. «Ciao.»

Emette una risatina fioca. «Deduco che tu ce l'abbia con me.»
«Cosa te lo fa...»

Lentamente, solleva il capo e punta gli occhi su di me. Trattengo un verso di stupore, quando mi accorgo che ha un ematoma sulla fronte e una piccola fascia sul naso. Gli occhi sono spenti e stanchi, ma c'è un piccolo bagliore che gli illumina le pupille, e non capisco proprio che cosa sia.

I suoi occhi restano sul mio viso per qualche secondo, dopodiché scendono e accarezzano l'interezza del mia figura. Si inumidisce il labbro con la lingua e poi lo morde, incapace di distogliere l'attenzione dal mio corpo nudo, coperto solo da un asciugamano.

D'improvviso, manderei a fanculo tutte le domande che vorrei fargli e asseconderei il desiderio che è dipinto sulla sua faccia.

Mi schiarisco la gola. «Cosa ti è successo?»

«Ho quasi fatto un frontale, uccidendo me, Thymos, Urano e Gea. Ma poi Thym ha tirato il freno a mano e abbiamo fatto un testacoda, prima di capottarci a bordo strada», racconta con calma.

«Dio, come stai?»
«Bene.»
«Ares...»
«Ho adottato un gatto. Si chiama 13.»

Rimango un attimo destabilizzata da questa nuova informazione. Di certo, non era la prima cosa che mi aspettavo di sentirgli dire, dopo due giorni di assenza e dopo aver visto morire la madre biologica.

«Dove sei stato? Ti abbiamo cercato ovunque», chiedo.

«Hell, ti a...»

«Non hai mai risposto. Avresti almeno potuto mandare un messaggio per dirci "tutto okay, lasciatemi solo, sono al sicuro".»

«Ti a...»

Lo interrompo, di nuovo. «Avevi promesso che non mi avresti allontanata. Avevi detto che sei troppo egoista per tenermi fuori da tutto, al sicuro.» La tristezza che ho accumulato nelle ultime 48 ore comincia a montarmi dentro, facendomi tremare.

«Hazel, ti...»

«Ero preoccupata.» Faccio due passi in avanti. «Ero disperata», ammetto, a cuore aperto. «Stavo impazzendo, senza sapere dove fossi. Immaginandoti ferito, da qualche parte, ad addossarti le colpe.»

Anche lui fa un passo verso di me, ma è una falcata grande il triplo delle mie. «Puoi tapparti la bocca solo per un cazzo di attimo e lasciarmi dire che ti amo?»

Sto per ribattere con un'altra accusa, quando le parole appena pronunciate si fanno spazio nella mia testa e mi costringono a pietrificarmi.

Ares mi guarda, un misto di esasperazione e dolcezza. Continua ad accarezzarmi con gli occhi, ogni centimetro della mia pelle sembra andare a fuoco sotto il suo sguardo.

«Cosa?» sussurro.

«Ti amo», ripete, piano. «Ora puoi continuare a incazzarti.»

Non riesco a emettere un fiato.
Cosa diavolo è appena successo?

Approfittando della mia sorpresa, Ares si avvicina sempre di più a me, con movimenti cauti e piccoli, fino a quando a separarci non ci sono solo pochi centimetri. Sento il calore del suo corpo avvolgermi, e il suo profumo familiare stuzzicarmi le narici.

«Ti sembra il momento adatto a dirmi una cosa del genere?»
Sorride. «Sì. Qualche obiezione al riguardo?»

«Sì! Sì! Ne ho tante. Tantissime. Davvero numeros...»
«Ti amo, Hazel», bisbiglia, interrompendomi.

Mi mordo il labbro con forza, ricordandomi troppo tardi che ce l'ho già screpolato e prossimo alla spaccatura. Anche Ares se ne accorge; allunga il braccio e, con la mano, mi sfiora la bocca, costringendomi a liberarla dalla stretta dei denti.

«Piano. Ti sta uscendo sangue.» Con attenzione, passa il polpastrello sulla mia carne, e tampona con delicatezza il sangue.

Ho già dimenticato la rabbia, la disperazione e la tristezza. Ma sono abbastanza orgogliosa da non gettarmi tra le sue braccia e baciarlo per prima.

Le mani di Ares si posano sui miei fianchi, sopra il tessuto umido dell'asciugamano, e mi spingono fino a farmi poggiare la schiena sul muro. Adagia la fronte contro la mia, e sospira. Il suo fiato caldo mi colpisce, aumentando il mio desiderio.

«Ci hai fatto preoccupare. Tutti quanti.»

«Avevo paura che foste spaventati da me. Avevo paura che fossi diventato il cattivo anche nelle vostre storie. Il mostro da sconfiggere», ammette.

Mi concedo di alzare la mano e infilare le dita tra le ciocche scure dei suoi capelli. «Siete entrambi vittime, Ares. Ma tu eri solo un bambino maltrattato e abbandonato a sé stesso. Nessuno ti vede come un mostro. Tanto meno io. Saresti dovuto tornare da noi.»

«Mi dispiace.» Fa subito una smorfia. «Dio, quanto odio chiedere scusa e stare nel torto.»

Riesce a strapparmi un sorrisetto. «Ares.»

Solleva lo sguardo su di me. Diamine, gli occhiali da vista lo rendono ancora più attraente di prima. È insopportabile. È un'impresa titanica riuscire a tenere le mani a posto e non baciarlo.

«Sarò sempre dalla tua parte, anche quando tutti dubiteranno di te. Con te, fino alla fine», gli prometto.

Una nuova emozione gli brilla negli occhi, così pura e innocente che mi fa quasi commuovere. «Sul serio?»

Mettendomi in punta di piedi, raggiungo la sua fronte e ci lascio un bacio, per poi spostarmi verso il suo orecchio e baciargli anche il lobo. Riesco a percepire il momento in cui il suo corpo si rilassa e si abbandona a me, si concede di fidarsi e mi mostra la sua gratitudine.

«Hazel, ti amo», ripete. «Ti amo, davvero. Anche se non ho mai amato nessuna ragazza e non ho la minima idea di quale sia il modo migliore per dimostrare a qualcuno che lo ami, io ti amo. Anche se non ti riempirò di nomignoli da diabete e ogni mio tentativo di fare un gesto romantico andrà sempre a puttane, io ti amo. Anche se non riesco a cederti la mia giacca, la sera, perchè poi tremo dal freddo, io ti amo. Anche se sono il ragazzo peggiore che ti potesse capitare, io ti amo. Ti amo così tanto che penso pure che tu sia più bella di me. Il che è un enorme complimento, Hell, visto che io sono da sempre la persona più sexy sul pianeta.»

Questa volta, getto il capo all'indietro e rido, incapace di tenergli il muso un secondo in più.

«E ora, se permetti, ho la ragazza più bella del pianeta tra le mie braccia e praticamente nuda», mormora, il tono già carico di desiderio sfrenato. «Sei tutta mia, Hazel. Completamente e irrimediabilmente mia.»

In un istante, le sue labbra sono sulle mie, in un bacio che mi toglie il fiato e mi rende le gambe molli come gelatina. Per poco non cado dall'intensità con cui Ares mi sta baciando; la sua lingua si fa spazio, e si muove dentro la mia bocca con movimenti lenti e profondi. Mi aggancia la nuca, con i capelli ancora bagnati, e mi inclina la testa all'indietro per andare ancora più a fondo.

E, mentre mi stringe a sé, descrivendomi il suo amore con il bacio migliore della mia vita, capisco perché io sia così pazza di Ares Lively. Ares è la persona più rotta che abbia mai conosciuto, eppure riesce ad aggiustare ogni pezzo frantumato che c'è in me. Nel suo dolore, lui cura il mio. E per quanto lui sia rotto in miliardi di cocci, è sempre qui pronto a riparare i miei e farmi tornare qualcosa di integro.

Arrogante, irritante, con un sarcasmo che gli farà guadagnare tanti cazzotti nella vita, ma... mio. Tutto ciò di cui non sapevo di avere bisogno. L'irritante vicino di stanza che metteva musica al massimo volume, ogni dannata mattina, disturbando l'intero piano del dormitorio.

Le mani di Ares mi aprono l'asciugamano, facendolo cadere ai nostri piedi. Mi blocco, e lo guardo. «Siamo nel mezzo del...»

«Non ho alcuna intenzione di perdere tempo andando in camera», mormora, affannato, con le mani che mi accarezzano i fianchi e risalgono per tutto l'addome. «Sono stato senza di te per 48 lunghissime ore, Hazel.»

La sua bocca è di nuovo sulla mia, ma questa volta sono io guidare il bacio. Ares mi agguanta la coscia e mi incoraggia a saltargli su, agganciando le gambe attorno alla sua vita. Mi afferra al volo, sistemandomi in maniera sicura. Completamente nuda e umida, contro il suo corpo ancora coperto dai vestiti.

Ares fa solo due passi prima di atterrare sul divano. Mi lascia lì, mentre si spoglia di tutti i vestiti e si presenta nudo, nella sua gloria, solo per me. Estrae un profilattico dalla tasca dei pantaloni e lo scarta strappandone un angolo con i denti, prima di infilarlo.

C'è un momento condiviso, in cui entrambi scegliamo di restare fermi, senza avvicinarci, solo per studiarci a vicenda. I miei occhi vagano per tutto il suo corpo, ammirandone le forme e la bellezza, mentre lui fa lo stesso con me. E, quando i nostri sguardi si incontrano, so per certo che nel mio c'è la stessa adorazione che c'è nel suo.

Non mi sono mai sentita così voluta. E non ho mai voluto qualcuno così tanto.

Ares si china su di me, piantando la mano per non gravarmi col suo peso. La sua erezione sfrega contro il mio interno coscia, e devo trattenermi dallo spalancare le gambe per farlo arrivare dove voglio.

«Perché non mi dici che mi ami, Hell? Te lo leggo negli occhi», sussurra, la voce roca e calda. «Dimmelo, Hazel.»

Mi mordo l'interno guancia.
«Hai paura?» continua.

Beccata.

«Hai paura di essere una delle tante? Hai paura che non sia sincero? Che prima o poi finirà?» Dà voce a ogni dubbio che si annida, perfidamente, nei meandri più oscuri della mia mente.

«Io...»

Con la mano libera, mi accarezza le ciocche bagnate dei capelli. «Sai qual è la vera definizione di caos, Hell? Molti pensano che il caos sia sinonimo di disordine, di scompiglio e distruzione. Ma non è così.»

Si interrompe per baciarmi il collo, la sua lingua colpisce la mia pelle e la succhia, per poi spostarsi e scendere fino al mio seno. Mi mordicchia il capezzolo, prima di afferrare tutto in bocca e farmi roteare gli occhi all'indietro dal piacere. Gli reggo la nuca, pregandolo di non smettere, e lui ridacchia contro la mia pelle, soddisfatto dell'effetto che riesce ad avere su di me.

«Considerando che il termine greco antico "Chaos" non possiede in alcun modo l'attuale connotazione di "disordine" che si riscontra nella parola d'uso comune "caos", esso viene reso come "Spazio beante", "Spazio aperto", "Voragine", dove indica, nella sua etimologia, la "fenditura"», comincia a spiegare, mentre muove piano i fianchi stuzzicandomi l'inguine con la punta dell'erezione. «Il Chaos risulta essere, nella mitologia e nella cosmogonia degli antichi greci, lo stato primordiale di "vuoto", il buio anteriore alla generazione del cosmo, da cui emersero gli dèi e gli uomini.»

Ares mi agguanta le ginocchia e mi spalanca le gambe, aprendomi completamente per lui. Si prende qualche secondo per osservarmi, e poi si sfila gli occhiali da vista e li lancia all'indietro. Capisco subito il motivo. Si china per assaggiarmi, la sua lingua scorre per la mia intimità già bagnata.

Quando torna a me, si lecca le labbra e mi dà un altro bacio violento, che mi inchioda contro il divano. Si stacca per primo, e con un colpo deciso mi penetra. Così profondo da spingere il mio corpo fino al bracciolo opposto del divano. Un gemito mi scivola dalla lingua e si riversa fuori, riempiendo la stanza.

«Prima di te, era il caos», mormora, uscendo e rientrando con un'altra spinta feroce. «Vivevo in uno stato primordiale di vuoto. Ero un abisso buio e freddo.» Mi bacia, ancora, e risucchia il mio labbro inferiore tra i denti. «Quando sei arrivata tu hai riempito, illuminato e riscaldato ogni parte di me.»

Chiudo gli occhi, lasciando che queste parole mi si imprimano nella memoria e mi cullino.

Ares mi solleva per il fondoschiena, ribaltando le posizioni. Ora, sta seduto, poggiato allo schienale del divano, e io sto nel suo grembo, a cavalcioni. Dritta e immobile, svetto appena su di lui, che mi fissa dal basso con la bocca dischiusa, e le mani che lasciano tracce invisibili sul mio corpo.

Assicurandomi di essere nella traiettoria giusta, sistemo la sua erezione in mezzo alle mie gambe, e tenendo l'impugnatura alla base, mi abbasso, facendolo entrare di nuovo.

Ares chiude gli occhi e geme. Affonda i polpastrelli nella carne delle mie cosce e mi risolleva appena, guidandomi di nuovo giù. «Non avere paura di dirmelo», bisbiglia, senza fiato. «Sono stato uno stronzo con le ragazze, per tutta la mia vita. E non posso cancellarlo. Non posso cancellare il passato e fingere che non esista. Posso, però, impedire che influenzi il mio presente e che mi rovini il futuro.»

Il cuore potrebbe scoppiarmi nel petto. Non solo per le parole che mi sta rivolgendo, ma per l'intensità con la quale spinge dentro di me e mi penetra. Ogni spinta è più profonda della precedente, e le gambe già tremano in vista dell'orgasmo che mi darà. E che voglio ritardare in ogni modo possibile.

«Quando sei arrivata tu hai riempito, illuminato e riscaldato ogni parte di me.»

Le mani di Ares mi afferrano il seno, e io mi reggo ai suoi avambracci mentre mi muovo sopra di lui. I nostri occhi si incontrano e non riescono più a guardare altrove, entrambi annebbiati dal piacere e dall'intensità del momento.

«Dimmi che sei mia», ordina in tono gentile, dando un colpo con i fianchi dentro di me e mozzandomi il respiro.

«Ares...» Una seconda spinta mi strappa le parole di bocca.

«Dimmi che sei mia e che mi ami, Genietto. Dimmelo mentre mi scopi su questo divano», mi provoca, un ghigno ammaliante dipinto sul viso bellissimo.

È un demone. Un diavolo tentatore che farebbe impallidire anche i peccatori peggiori. Con i muscoli delle braccia in flessione, le mani aggrappate al mio seno, e le dita che mi tirano i capezzoli fino a farmi così male da darmi anche piacere. Si protende in avanti per mordermi il collo, piano, e scende fino alla spalla, dove lascia una nuova impronta dei suoi denti.

Comincio a gemere più forte e senza sosta, mentre le mie pareti interne si stringono attorno al suo membro, che spinge sempre più velocemente. I movimenti sono scoordinati, e le dita dei piedi mi formicolano per il piacere. Ogni parte di me è elettrizzata, incapace di sopportare la meraviglia di quello che Ares Lively riesce a farmi e a darmi.

Una mano scivola fino al mio fondoschiena, e mi dà un colpo sul gluteo, così forte che scatto in avanti. Ares ne approfitta per baciarmi il seno, e io mi aggrappo al suo collo, alla ricerca di equilibrio. Un altro colpo contro la pelle mi fa sussultare.

«Dimmelo, Hazel», ordina, dandomi una leccata al capezzolo così rude che gli affondo le unghie sul collo, facendolo mugolare di dolore. «Cristo, amo quando mi fai male, Hell.»

Un altro schiaffo sul culo mi spinge al limite dell'orgasmo, e sono costretta a trattenere il respiro per ritardarlo. Non voglio che finisca. Non voglio che...

La bocca di Ares mi sfiora l'orecchio, e dopo averne tracciato il profilo con la punta della lingua, inumidendomi la pelle, ghigna. «Sai che c'è? Puoi pure non dirmelo. Ma io lo so che mi ami. E lo so che sei mia. Dal primo momento in cui ci siamo incontrati, Hell. Sei mia, e io sono tuo. Non importa se non ti senti pronta ad ammetterlo.»

I suoi fianchi martellano contro il mio inguine, e i nostri respiri affannati riempiono la camera.

Vorrei dirgli che ha ragione, ma non ne ho la forza, troppo concentrata a incontrare i suoi movimenti dentro di me.

«E ora, vienimi sul cazzo e fammi sentire quanto ti piace essere scopata dal vicino di stanza che dicevi tanto di odiare.»

Respiro a fatica, il cuore minaccia di uscirmi dal petto. La doccia è stata inutile, perché il sudore mi imperla la pelle e si mischia al suo, man mano che i nostri corpi entrano in collisione. Ma va bene così, perché ogni volta che sbatto contro di lui, una scarica di piacere più intensa della precedente mi lascia inebetita.

«Non te lo dico», mormoro, man mano che sento l'orgasmo avvicinarsi. «Solo perché mi hai fatto preoccupare e dannare. Quindi, aspetterai come io ho aspettato te. Chiaro?»

La mia presa di posizione lo fa immobilizzare, con gli occhi appena sgranati e il pomo d'Adamo che si abbassa. Prendo il suo posto e do una spinta finale, procurandomi da sola l'orgasmo. Mi esplode dentro e mi fa gridare come una matta, mentre Ares resta ad ammirarmi.

«Cazzo, se ti amo, Hazel», lo sento bofonchiare, prima di venire, ancora seppellito tra le mie gambe.

Crollo in avanti, addosso a lui, che mi prende senza esitazione e mi sistema contro il suo petto. Le sue mani mi accarezzano la schiena; i nostri respiri irregolari si fondono, e riescono a riprendere un ritmo normale quasi in contemporanea, come se uno calmasse l'altro.

«Resta, stanotte», gli chiedo, piano.
«Mi vuoi qui con te?»

Annuisco, sperando che si accorga del movimento.

«Allora, andiamo a letto, pequeño genio. Ci sono ancora troppe cose che voglio farti.»

«Stai imparando lo spagnolo? La mia seconda lingua?»
Fa una smorfia buffa. «No, ho imparato solo Genietto e "mi piacciono le tue tette".»




🤠🤚🏻 Perché Ares ha adottato un gattino? Perché negli ultimi giorni i miei #perTe di TikTok sono invasi da video di gatti e cani randagi e sono giorni che piango come una deficiente e soffro. Quindi boh, visto che nella vita reale la gente non adotta gli animali per strada, volevo che accadesse in una storia wattpad. Vabbè è molto stupido come motivo, lo so, ma ho il ciclo e sono scombussolata..................

COOMUNQUE. Ci tengo a precisare una cosa, riguardo all'ultimo capitolo, visto che nei commenti è emerso un dubbio collettivo. La gravidanza di Aphry non c'entrava nulla con Ares. Urano l'ha tirata in ballo per rifarsi alla conversazione che hanno avuto dopo la serata di beneficenza, all'Hotel. Il vaso di Pandora, pieno di segreti che solo lui conosce. Voleva dimostrargli quante cose brutte ha in mano. Tutto qui. E scusate per il colpo basso, non immaginavo che ci sareste rimasti così male 🥲🙏🏻

Ci vediamo al prossimo capitolo. Grazie per leggere Game Of Chaos 💚🍒

TikTok: cucchiaiaa
Ig: cucchiaia
Have a nice life 🤍

🎧 🎶 Vi ricordo che c'è una playlist per GoC, su Spotify, se vi va. Così come per ogni volume di GoG

Continuă lectura

O să-ți placă și

19.5K 1.3K 45
Costretta in un matrimonio di convenienza, Lyra sarà obbligata a decidere la sua priorità: seguire la ragione e continuare la sua alleanza per il ben...
1.4M 97.2K 63
-Sei pronta per quello che verrà domani? O per quello che verrà quando varcherò di nuovo quella porta? Non credo. - sospirò -Dico un sacco di stronza...
467 122 6
Manhattan, America. La famiglia Kelley è composta da otto componenti. Due genitori e sei figli. Tra di loro c'è Madison Kelley, la quarta figlia. Ve...
2K 161 13
Questa non é una storia che si narra ai bambini nelle fiabe, é una di quelle da cui si scappa che ti lascia una scheggia di vetro dentro al cuore. An...