Game of Chaos (Game of Gods S...

By cucchiaia

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Spin-off di Game of Gods & Game of Titans, #4 da leggere. Nove fratelli e sorelle, con nomi di Dèi greci, ch... More

Intro + Info 🍒
1 (A) - Forse non avrei dovuto dare fuoco alla bara di mio zio
2 (H) - Le parole
3 (A) - Un martedí sera esplosivo
4 (H) - Le virgole
5 (A) - Vengo costretto a parlare dei miei sentimenti anche se non li ho
6 (A&H) - Il viaggio di Odisseo
7 (A) - Alla fine di tutto si scopre che sono un mammone
8 (A) - Mio nonno è un assassino
9 (H) - I punti di sospensione
10 (A&H) - Gli avverbi
11 (A) - Festeggio il mio non-compleanno
12 (A) - Quasi stermino metà famiglia durante i giochi di Achille
13 (A) - Purtroppo, adoro il drama
14 (H) - Dietro le quinte
15 (A&H) - I punti di domanda
16 (H&A) - Mostro il mio serpente a Hell (purtroppo non nel modo in cui pensate)
17 (A) - Faccio bagnare Hazel
18 (A&H) - Estoy condenado a no olvidarte nunca más
19 (H&A) - Visito la casa di Liam: il circo
20 (H) - Sotto le luci del palco
22 (A&H) - Le parentesi
23 (H&A) - Rimorchio grazie alla matematica
24 (A) - Vengo costretto a una riunione di famiglia mai richiesta
24.5 - La mela rossa
25 (A&H) - Ho aspettato di vederti per 6 ore e 15 minuti
25.5 - La canzone di Iperione
26 (H) - Fine dello spettacolo
27 (A&H) - Il mondo visto dall'alto
28 (H&A) - Entro, spacco (un bicchiere), esco
29 (A) - Quasi perdo la testa per colpa di Medusa
30 (A&H) - Ho quasi ucciso i miei nonni
31 (A) - Nella mia storia non sei il cattivo
32 (A) - Panta Vrehi
33 (H) - Dio della discordia
34 - L'epilogo
Epilogo - Dove piove sempre

21 (A&H) - Il predicato verbale

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By cucchiaia




elmosolyodni (ungherese): il sorriso spontaneo che viene quando si è travolti dalle emozioni, come l'amore o la felicità.

She waits and takes her time
'Cause Little Miss Sunshine
always thinks it's gonna rain
When Emma falls in love, I know
That boy will never be the same

🍒
A R E S

«Siamo di malumore, oggi?» mi domanda Michelle, mentre recupero la chiave della mia camera.

«Sì, ogni giorno da quando sono nato», bofonchio.

Non mi intrattengo per qualche inutile chiacchiera di circostanza, e mi dirigo a passo svelto verso le scale. Mentre sto salendo i gradini, il mio cellulare vibra dentro la tasca. Il centro di notifiche mi segnala l'arrivo di una nuova mail: la mia prenotazione è andata a buon fine. Fra dodici ore posso prendere l'aereo per tornare negli Stati Uniti. Da lì, noi Lively prenderemo un altro volo per la Grecia. Rea ci ha convocati.

Rientreremo tutti prima dalla vacanza. Ma i posti sui voli sono limitati, e abbiamo lasciato i primi due biglietti disponibili a Cohen e Hades. Non so in quale volo siano riusciti a infilarsi i miei cugini e i miei fratelli, e al momento non mi interessa granché.

Quando arrivo davanti alla porta della mia stanza, è troppo tardi. Noto un dettaglio che i miei occhi, ormai, possono vedere solo da vicino. È socchiusa.

Potrebbe essere Hell.
Ma perché lasciarla aperta?

Mi guardo attorno, lungo il corridoio. Anche la camera davanti alla mia ha la porta aperta. Faccio qualche passo in avanti, per controllare le altre, con un brutto presentimento addosso.

Ogni camera di questo piano ha la porta aperta. Il silenzio è surreale. Mi arrivano i rumori del piano di sopra e di quello sotto, ma qui sembra di essere avvolti in una bolla di silenzio.

Con l'occhio buono colgo un movimento alla mia sinistra. Due uomini alti e grossi come armadi, vestiti in completo elegante, si posizionano alla fine del corridoio, le mani giunte davanti.

Dalla parte opposta, altri due.
Sono circondato.

Deglutisco a vuoto e torno in camera mia. Li vedo ancora prima di mettere entrambi i piedi oltre la soglia. I miei ospiti.

La prima a catturare la mia attenzione è la donna. Con un abito nero e lungo fino alle caviglie, due tacchi a spillo ai piedi e lo sguardo rivolto fuori dalla finestra. I capelli sono grigi e legati in uno chignon stretto. Si gira piano, inchiodandomi sul posto. Non vedo bene i suoi occhi, ma colgo la montatura da vista che poggia sul naso.

Non l'ho mai vista in vita mia, ma capisco che è Gea. Infatti, seduto sul divano, c'è Urano. Anche lui con abiti eleganti e i capelli castani pettinati all'indietro. Il viso è scavato, e gli occhi brillano della stessa pazzia che ho notato quando ci siamo conosciuti.

«Ottimo, anche i nonni pazzi volevano farsi una vacanza in Messico», commento.

Urano non batte ciglio. Con Crono era divertente, perché si incazzava quando lo prendevo per il culo. Al contrario, solleva il braccio e indica la poltrona posta davanti a sé. Devono averla spostata loro. «Siediti.»

«Sto bene in piedi. Sai com'è, noi giovani riusciamo a stare in...»

«Ti ho detto di sederti», mi interrompe, la voce tagliente come una lama. «Hai cinque secondi o ti spezzo le gambe e ti faccio finire su una carrozzina come tuo fratello.»

Serro la mano in un pugno. Vorrei replicare a tono e insultarlo, ma qualcosa mi dice che potrei davvero far compagnia a Zeus. Perciò, prendo posto borbottando: «Pezzo di merda.»

Urano sospira, con la schiena completamente adagiata contro lo schienale del divano. «Adesso ti illustro cosa faremo nei prossimi trenta minuti Ares. Per prima cosa, tu smetterai di provocarmi con le tue battutine di merda e io ti risparmierò qualche mutilazione. Come seconda cosa, parlerai quando verrai interpellato da me, per il resto mi ascolterai.»

«Che diamine vuoi da me, adesso? Non ti è bastato...»

Una mano mi afferra i capelli e li tira con forza, facendomi inclinare la testa all'indietro. Mi salgono le lacrime agli occhi per il dolore. Su di me, svetta il viso di Gea. È una bella donna, dal naso aquilino e gli occhi azzurri e freddi, ma la pelle è segnata dalle rughe.

Forse dovrei rimandare le fatiche e aspettare che crepino di vecchiaia, questi due.

«Non ti ha interpellato», sibila lei.

«Tutto chiaro, ora?» riprende Urano. «Ora ti ho interpellato, Ares, puoi rispondere.»

«Sì», butto fuori a fatica. Non mi piace essere umiliato e venir trattato come una marionetta.

Nonna Gea mi lascia andare, ma mi fa sbattere la nuca contro lo schienale della poltrona. Faccio una smorfia infastidita.

«Sono qui per farti un regalo, Ares», dice Urano. Solo ora noto che, alla sua destra, c'è una sacca in tela di forma rettangolare. La afferra e la srotola davanti al mio occhio.

È un astuccio. E, al suo interno, ci sono delle armi: tre pistole di modelli diversi, un coltello affilato, una mannaia, una corda e una boccetta in vetro che non sembra contenere nulla di buono.

Indica le armi con un sorriso. «Ti offro la possibilità di ucciderti e di scegliere pure il modo in cui suicidarti.»

«Come?» Non credo di aver sentito bene.

«Hai tre pistole diverse, non che rappresentino tre modi di morire diversi, ma ho pensato che potessi trovare esteticamente più carino un modello di un altro», racconta come se nulla fosse. «Un coltello per tagliarti la giugulare o farti pugnalare da me in caso non avessi il coraggio, una mannaia per avere un taglio più netto, una corda per l'impiccagione e un veleno.»

Gea si siede accanto al marito e accavalla le gambe, in attesa. Come se potessi davvero dare loro una risposta.

«Perché cazzo dovrei togliermi la vita?»

«Perché sarebbe la soluzione migliore per tutti, compreso te stesso. Non sei stanco di giocare?»

«Vorrei tagliarti i testicoli e giocarci a tennis», rispondo di getto.

Urano alza gli occhi al cielo, sfila il coltello dall'astuccio e si alza. Non ho il tempo di sottrarmi. La lama affonda nella mia coscia, in un movimento fulmineo. La scarica di dolore mi fa urlare. Riesco a bloccare il grido quasi all'istante, spinto dall'orgoglio, ma una lacrima mi scivola dall'occhio buono e mi finisce in bocca.

Cristo, se fa male.

Urano ghigna. «Bene, ora hai un'arma in meno tra cui scegliere. Mi dispiace.»

«Sei matto?» gli sbraito contro, mentre sta tornando sul divano.

Gea osserva il coltello incastrato nella mia carne con un sorrisetto compiaciuto.

«La sai la differenza fra te e un poppante di tre anni?» chiede Gea. «Che se a un poppante dici di non fare una cosa, minacciandolo di fargli male, sta fermo. Tu, la fai comunque. Sei un cervello inutile in questa famiglia.»

Serro i denti per non parlare. Soprattutto perché le armi che ha ancora a disposizione, se le usa prima per punirmi, potrebbero rendere vana la sua proposta di suicidio.

«Pensaci, Ares: tuo fratello è in sedia a rotelle per colpa tua. Il fratello della tua migliore amica è morto, per colpa tua. I tuoi fratelli e cugini sono stanchi di trovarsi in mezzo a queste prove, e lo sai anche tu che ti ritengono colpevole. Se ti uccidessi... metteresti fine a tutto. Non è semplice e logico?»

«Perché non mi uccidi tu, allora?»

Sospira e si liscia la cravatta verde. «Perché è più divertente vederti compiere un suicidio davanti ai miei occhi. Immagino il momento in cui ti punti la pistola alla tempia e tremi come un moccioso, mentre cerchi il coraggio di premere il grilletto. O le mani che ti tremano nel tentativo di legare il cappio al collo...» Si interrompe, l'espressione carica di estasi. «Magnifico. L'omicidio è vile e per deboli, far suicidare qualcuno è solo per chi è davvero intelligente.»

«E tu pensi di essere così intelligente da spingermi a farlo?»

Gea allunga il braccio verso l'astuccio di armi, pronta a punirmi di nuovo, ma il marito la ferma posizionando la mano sopra. Lei retrocede, stizzita.

«Qui sbagli, Ares. Non ti sto spingendo io a considerare il suicidio. Ti sto assecondando. Vorresti dirmi che non ci hai mai pensato? Non hai mai pensato a farla finita per il bene comune? Andiamo, non mentirmi.» Mi rivolge un sorrisetto pieno di compassione, come se fossimo due amici che si confidano.

Questa volta, a scivolarmi sulla pelle, è una goccia di sudore che mi cade dall'attaccatura dei capelli. Il dolore della ferita è stabile, ma così intenso che comincio ad avere vampate di caldo.

«Perché ce l'hai così tanto con me?» gli domando, alla fine, per prendere tempo. «Ho dato fuoco alla bara di tuo figlio, d'accordo, ma era già morto. Perché tutto questo astio?»

Urano fa schioccare la lingua contro il palato e muove l'indice della mano, con espressione pensierosa. «Finalmente una domanda interessante.»

«Abbiamo sempre amato i nostri figli», interviene Gea. «Crio è stato il primo a deluderci, a dimostrarsi non all'altezza di portare il cognome Lively. Rimasti Iperione e Crono, Iperione ci ha impiegato poco a ribellarsi ai nostri modi di fare. Hanno pur sempre fatto morire due bambine nel labirinto, Demeter e Hestia, ma dopo quell'accaduto si sono rifiutati di sottoporre Poseidon, Zeus e Hera allo stesso destino. È lì che li abbiamo abbandonati. Crono, invece, è sempre stato fedele. A volte, forse un po' troppo. Pensavamo che fosse dedizione alla nostra storia e al nostro stile di vita, ma poi è caduto nella follia più totale. Stargli dietro era impegnativo, ma restava comunque l'unico figlio fedele che ci era rimasto. Ciò non toglie che il compito di togliergli la vita spettava a noi e solo a noi, e non a quella ragazzina.»

Ma se stanno dando la colpa a Haven, perché con lei non se la sono presa e mi ritrovo io qui, infilzato con un coltello, in un albergo in Messico di nome Tiki Boom Cha?

Senza offesa per Cohen, ma le avrei ceduto volentieri queste fatiche.
No, non è vero. Le voglio troppo bene, ormai, per fingere che non mi interessi.

Ad Apollo, però, sì. Cazzo, se le avrei cedute a lui.

«Non ce la siamo presa con Haven perché era il volere di Crono», mormora Urano, neanche potesse leggermi nella mente. «Ci è dispiaciuto per la sua morte, anche se forse era la conclusione migliore di questa tragedia. Gli volevamo e gli vogliamo bene, tutt'ora. Crono mi ha reso orgoglioso come nessun altro figlio potrà mai fare con il padre. Ho accettato la sua morte e ho letto il suo testamento. Oltre a lasciare tutto a Rea e ai figli, chiedeva espressamente che venisse rispettato un unico desiderio: lasciare una vita serena a Haven Cohen, la sua figlia biologica. Nessuno avrebbe dovuto farle del male. Anche perché aveva ingaggiato degli uomini per vendicarsi, in caso.»

Gea ha gli occhi persi nel vuoto mentre recita: «Come ultima cosa, vi prego di rispettare il mio volere: che nessuno faccia del male ad Artemis. Se sono morto per salvare lei o per causa sua, lo accetto. Chiunque altro, diverso da mia figlia, si sia permesso di porre fine alla mia vita deve essere punito.»

Wow. È ancora più pazzo di quanto credessi. Insomma, da una parte è quasi tenera questa cosa. Crono accettava di morire solo per mano di Haven.

«Noi vogliamo onorare nostro figlio, soprattutto dopo la morte», conclude Urano. «Onorarlo significa rispettare le sue volontà, il suo testamento e dargli il rito funebre che meritava. Tu lo hai trasformato in uno spettacolino patetico. Hai deturpato il suo corpo con il fuoco, ignorando la lettera che avevamo scritto. Nessuno disobbedisce alle mie volontà, Ares.»

Ci rifletto un istante. Scrollo le spalle. «Be', un semplice "mi stai sul cazzo e non ti voglio in famiglia" sarebbe andato bene comunque.»

Con mia sorpresa, Urano non si infastidisce, anzi, abbozza un sorriso. «Hai ragione. In parte è perché mi stai anche sul cazzo, dal primo momento in cui ho scoperto che mio figlio ti aveva adottato. Non sei mai stato degno di questa famiglia.»

Gea annuisce. «Per questo puoi scegliere di suicidarti ora e farla finita. Prima che tu affronti altre tre fatiche inutilmente. Non sarebbe triste impegnarti così tanto solo per poi morire alla fine di tutto?»

«La mia storia non merita di finire con un suicidio.»

Urano inclina il capo verso destra. «Ah, no? Pensi che la tua presenza nel mondo sarebbe utile? Cosa hai fatto di utile fino ad ora? Non riesco a pensare a nulla, Ares, perché sei la fonte di tutti i problemi. Tu e la tua lingua troppo lunga, il tuo sarcasmo irritante e l'atteggiamento di chi si crede invincibile.»

«Non mi credo invincibile, ma migliore di voi.»

Urano afferra la prima pistola che trova e spara un colpo. Il proiettile mi sfreccia accanto al viso e perfora la poltrona. Sbatto le ciglia furiosamente, ma non mi muovo. Ho il cuore che minaccia di uscirmi dal culo, da quanto è stato improvviso.

«Pensi di essere tu, la vittima, nella storia commovente che vede protagonisti te e la tua madre biologica?» mi incalza. «Sei tu la vittima perché ha provato a farti annegare in mare, o è lei la vittima perché aveva te come figlio?»

Questo cambio repentino di argomento mi fa venire un capogiro. Non mi aspettavo di sentir parlare di lei, e ancor meno mi aspettavo che qualcuno potesse dare a me la colpa del suo tentativo di uccidermi.

«Ero solo un ragazzino», dico a denti stretti. «Che colpe avevo? Lei era malata, senza dubbio, ma...»

«Se avesse abbandonato te e scelto di tenere il tuo gemello, non sarebbe successo. Ci hai mai pensato?» mi interrompe Gea, la voce vellutata e dolce. «Abbiamo conosciuto il tuo gemello, Ares, e non è come te. È il tuo opposto. Una persona che è impossibile odiare. Vostra madre sarebbe stata così felice di crescere lui, al tuo posto...» Sospira. «Sarebbe stato un figlio carinissimo, e lei non avrebbe iniziato a odiarlo al punto da aumentare le dosi di droga per sopportarlo. Al punto da provare a ucciderlo per liberarsene. Hai fatto impazzire una madre, Ares, te ne rendi conto? Ti rendi conto di quanto la tua esistenza nel mondo sia sbagliata?»

Urano le dà man forte e mi avvicina l'astuccio di armi. «È colpa tua se tua madre ha provato a ucciderti, Ares, mi dispiace. Se fossi stato diverso, lei ti avrebbe amato. Ma eri tu... E tu non sei una persona da amare. Lo sai bene, vero?»

Boccheggio.

Entrambi mi guardano in attesa, muovendo appena il capo per suggerirmi la risposta da dare.

«D'altronde, se tu non fossi stato tu, Haven Cohen avrebbe lasciato Hades per te. Vero? Ma tu sei tu. Non poteva amarti», rincara la dose Gea.

«E credi di avere speranze con la ragazzina dai capelli da maschio?» continua Urano, la fronte aggrottata. «Vi conoscete da mesi e lei non sembra poi così presa. Hades si è fatto amare quasi subito da Haven. Ricordi? Nemmeno Hazel può amarti. Perché tu sei tu, Ares.»

Strizzo l'occhio e tento di mandare via il suono fastidioso delle loro voci. Ma non ci riesco. Urano e Gea continuano a parlare, a elencarmi tutti i motivi per cui non merito di vivere, tutte le persone che ho ferito e tutte quelle che non sono riuscite ad amarmi e mai riusciranno.

Forse hanno ragione.
Forse sarebbe meglio chiuderla qui.

D'altronde, cosa c'è dopo la morte? Il nulla, a mio modesto parere. E il nulla è confortante. Sapere che non ti aspetta niente è meglio del sapere che potrebbe aspettarti una nuova vita o l'Inferno. Esistere è una condanna, non esistere è la fine della pena che siamo tutti stati costretti a scontare venendo al mondo.

«Queste cinque fatiche non erano nulla, Ares», la voce di Urano mi arriva forte e chiara. È inginocchiato davanti a me, ma mi fissa con superiorità. «Sei sicuro di voler affrontare le prossime tre? E di volerle far affrontare anche agli altri?»

«Pensa al dolore del povero Newt Cohen», si intromette Gea, ancora seduta sul divano. «Lui ti riteneva un amico, sai? Almeno, quando eri Percy. Dev'essere stata dura scoprire che era una farsa. E non parlo della tua identità, ma della tua amicizia. Lo ha saputo che lo volevi sacrificare dentro il labirinto. Lo ha saputo quanto poco contasse per te. E, nonostante questo, ha voluto salvare Hell nel gioco di Hypnos. Per te. Perché lui era buono. Ed è morto, per colpa tua

Ha ragione.
Hanno ragione?
Hanno ragione su tutto?

Magari non tutto quanto, ma alcune cose sono vere.

«E la povera Hurricane? L'hai usata per stare con Hazel Fox», prosegue Gea. «Hai rovinato la loro amicizia. Era l'unica amica che Hazel avesse.»

Cristo, ma questi vecchi sanno tutti i gossip della famiglia?

Urano fa scorrere i polpastrelli delle dita sulle armi, andando ad accarezzarle una ad una. «Allora, dove mi fermo? Quale vuoi?»

La mia mente comincia a valutare quale sarebbe il modo più veloce e migliore. Forse un colpo di pistola alla tempia riesco a spararlo, senza sembrare troppo patetico.

«Ci stai ripensando?» mi rimprovera Gea. «Ares, amore, non vuoi porre fine a tutto? Non è più bello così? Se continui con i giochi, morirai per mano nostra. Non ti rende orgoglioso farlo al nostro posto? Sei tu in controllo. Non ti piace il controllo?»

Sono di nuovo il bambino che annaspa alla ricerca d'aria e ingoia acqua salata.

Sono di nuovo il bambino che viene messo in orfanotrofio.

Sono di nuovo il ragazzino che tiene la valigia pronta, perché sa che Iperione e Teia lo riporteranno indietro.

Sono di nuovo il ragazzino che crea scompiglio tra i fratelli.

Sono di nuovo quello che spezza il cuore delle ragazze.

Sono di nuovo quello che inganna Newt Cohen e non dà valore alla sua vita, quando lui mi riteneva un amico.

Sono di nuovo quello che si mette in mezzo a Haven e Hades, creando casini e facendoli soffrire.

Sono di nuovo quello che viene guardato male e ritenuto inopportuno, perché non sa filtrare i pensieri.

Sono di nuovo la causa dei litigi in famiglia.

Sono di nuovo il ragazzo di cui Hell non si fida e che sa che non la merita.

Sono di nuovo quello che ha ferito Hurricane, e l'ha usata per distrarsi da ciò che desiderava davvero: Hell. Se non avessi mai iniziato la farsa del frequentarla, non avrei rovinato la loro amicizia.

Rivedo tutte le versioni di me che hanno commesso errori. Rivedo tutte le versioni dell'Ares che sono stato, e non ne trovo nemmeno una buona. Non vedo un solo Ares che sia degno di una parola d'amore.

Forse non era mia madre cattiva. Forse lo ero io. Forse dovevo morire fin da piccolo.

«Coraggio, Ares.»

Gea mi riporta alla realtà.

Ho la pistola stretta in mano, a metà strada verso la mia nuca. La guardo, confuso; non ricordo di averla estratta dall'astuccio. Non ricordo di averla mai presa.

La studio con attenzione, nonostante non abbia alcun senso per me farlo. Voglio fingere di star soppesando la situazione, per non far capire ai miei nonni che sono incerto.

Se lo faccio, è finita. Ed è un sollievo.
Se non lo faccio...
Mi troveranno.

Il pensiero mi colpisce con violenza. Si schianta dentro la mia testa e mi fa venire un dolore acuto alla tempia. È passeggero, ma mi lascia stordito.

Dopo Haven e Hades, hanno trovato dei posti su un volo per gli US Apollo, Herm e Athena. Athena ha ceduto il suo biglietto a Liam, per allontanarlo il prima possibile. Io ne ho trovati due a Hell e Posy, partiranno fra un'ora dall'albergo. Io, Zeus, Hera e Nys andremo insieme, per ultimi, anche per capire come spostare Zeus.

Se lo faccio, Hell verrà qui per prendere le sue valigie e mi troverà morto.

E, dopo di lei, Poseidon.
E, dopo di lui, Zeus, Hera e Nys.

Se mi uccido, i miei fratelli si troveranno davanti il mio corpo privo di vita.

Non solo lascerò loro il trauma, ma si incolperanno di non essere arrivati in tempo.

Sì, farla finita non ha alcun impatto su di me. Ma lo ha sugli altri.

Sono di nuovo il ragazzino che entra a casa di Iperione e Teia e incontra i suoi nuovi fratelli. Sono di nuovo il ragazzino diffidente che non rivolge la parola a nessuno, ma che riceve sorrisi calorosi da Hera, pacche sulla spalla da Poseidon, occhiate disinteressate da Nys e sguardi rassicuranti da Zeus. Sono di nuovo il ragazzino che, dopo anni di abusi mentali, dà il suo primo abbraccio a Hera. Sono di nuovo il ragazzino che ha paura dell'acqua e non sa come confessarlo, ma Zeus se ne accorge e lo porta via senza dire nulla. Sono di nuovo il ragazzo che viene sgridato bonariamente dai fratelli. Sono di nuovo il ragazzo che non chiude una telefonata con la madre senza averle detto che le vuole bene.

Non importa se il mio cervello vuole ingannarmi a pensare che i miei fratelli non mi amino e starebbero meglio senza di me.

Prima di tutto, sono il ragazzo che ama i suoi fratelli a prescindere che il sentimento sia ricambiato o meno.

Non posso lasciargli questo trauma.
Né a loro, né a Hazel.

E pazienza se lei non mi amerà mai perché "io sono io".
A volte puoi amare le persone così tanto da compensare l'assenza d'affetto da parte loro.

Mi punto la pistola alla tempia e sorrido. «Il degno finale della mia storia non è un suicidio», lo informo con tranquillità. «Il degno finale della mia storia è sopravvivere fino a quando posso, solo per rompervi il cazzo.»

Le loro espressioni cambiano di botto. Dalla finta comprensione e gentilezza, passano a un misto di disgusto e irritazione.

«Ares.»

Non è Gea. Non è Urano.

È Hell. Lo so ancora prima di voltarmi.

È sulla soglia della porta, ormai spalancata, le braccia piegate dietro la schiena e tenute bloccate da uno degli uomini in completo che avevo visto ai lati del corridoio.

La sua espressione è neutrale, nasconde tutta la paura che i suoi occhi non riescono a fare a meno di comunicarmi.

«Cosa fai?» aggiunge.

Solo ora mi rendo conto che sto tenendo la pistola puntata alla tempia. Non ha paura dell'uomo grosso e adulto che l'ha intrappolata, e tanto meno dei due signori qui con me. Ha paura che potrei uccidermi.

Lascio andare la pistola a terra, quasi lanciandola via, come se fosse un oggetto incandescente. Urano osserva l'arma, con le labbra arricciate, il simbolo della mia codardia e dell'incapacità di togliermi di mezzo una volta per tutte. Mugugna qualcosa, è un verso gutturale che proviene dalla gola.

In uno scatto d'ira, è in piedi. Mi afferra per il colletto della maglia e mi costringe ad alzarmi. La gamba ferita cede e mi inclino in avanti. Lui si sposta e mi fa capitombolare a terra. Attutisco l'impatto con i palmi delle mani, ma qualcosa, credo il suo piede, fa pressione sulla mia schiena e mi spinge con la faccia sul pavimento. Il colpo è forte e mi fa temere per un istante di essermi spaccato qualche osso in viso.

«Patetico codardo», mi apostrofa ridendo.

La punta della sua scarpa si scontra con il mio fianco, così violento da farmi voltare di lato. Segue un secondo calcio sulla pancia; mi mozza il fiato e mi fa annaspare alla ricerca d'aria.

«Ares!» strilla Hell.

«Stai buona, stronzetta», la sgrida lo scagnozzo di Urano.

Volto il capo, mentre Urano continua a darmi calci in ogni parte del corpo che trova libera. Il mio unico occhio funzionante inquadra la figura di Hell che scalcia e si dimena. Se non mi stessero riempiendo di botte, riderei e la prenderei in giro. Ma che vuoi fare, Hell? Liberarti di quello? Smettila, ti farà male.

Un'altra botta mi fa espirare con forza.

Comincio a diventare insensibile e non sentire più nulla. La gamba ferita è completamente addormentata. Se sentissi dolore, lo implorerei di fermarsi e la darei vinta al mio orgoglio.

Urano ride.
Hell scalcia.
L'uomo la tiene ferma.
Ma lei si piega all'indietro e gli assesta una gomitata nelle parti basse, il tanto giusto da fargli allentare la presa e permetterle di sfuggirgli.

Recupero l'ossigeno che mi serve per gridarle: «No! Stai lontana!»

Non serve a nulla. Non c'è rischio che si avvicini a Urano e lui la ferisca. Lo scagnozzo la acchiappa con una mano per i capelli. E con l'altra per il collo. Hell rantola.

Una scarica di adrenalina mi attraversa il corpo e mi risveglia. «No, cazzo, lei no!»

Scatto in avanti, facendo leva sul ginocchio della gamba buona. Non mi muovo di nemmeno cinque centimetri, perché Urano mi afferra per la nuca e mi trascina fino al divano, sbattendomela sul bracciolo. Fa male, ma è la cosa più piacevole ricevuta oggi.

Gea, nel frattempo, si alza. Mi lancia uno sguardo privo di interesse, e scavalca il mio corpo, i tacchi che pestano fastidiosi sul pavimento. Esce dalla camera senza dire nulla e senza fare altro, lasciandomi solo con quella bestia di suo marito.

Urano si china su di me, portando i nostri visi a una vicinanza rivoltante. Il suo alito sa di alcol. Mi sorride, radioso. «Altro da dire, Ares?»

Ricambio il sorriso a stento. «Sì. Bella dentiera, vecchio di merda.»

Urano agguanta una delle due pistole rimaste nell'astuccio e la usa per darmi un colpo sulla testa, con tutta la forza che gli è rimasta in quel corpo in putrefazione. «Ci vediamo alla triade finale di fatiche. Sarà un piacere dare fuoco alla tua bara.»

Ormai, sento poco. È come se provare così tanto dolore in una volta sola, senza pause, mi avesse anestetizzato. Non sento nulla. E mi viene da ridere, perché è stata una tortura quasi piacevole. Poi ci rifletto, e capisco che il vero dolore arriverà di colpo e farà ancora più male.

Chiudo l'occhio e mi lascio cullare dal tempo che scorre.
Conto.
Pochi numeri, però.
Ritorno alla vita reale.

Qualcuno mi scuote per le spalle e il viso di Hazel Fox comincia a diventare più nitido. Una smorfia le distorce le sopracciglia, respira veloce e a ritmo scoordinato. «Ares? Mi senti? Ci sei? I tuoi fratelli stanno arrivando. Li ho chiamati. Cerca di stare sveglio, okay?»

Merda. Un'altra visita all'ospedale non la reggo. Ma ho un cazzo di coltello conficcato nella coscia, non credo di avere molta scelta. So di non doverlo estrarre, perché sta bloccando l'emorragia. Attendere un'ambulanza o andare in ospedale, però, è troppo.

«Hell?»
«Sono qui. Cosa c'è?»

«Dammi uno schiaffo.»

Un attimo di silenzio. «Come, scusa?»
«Anzi, dammene due. Forti, eh. Non ti trattenere.»

Man mano che mi riprendo, il suo viso si fa più nitido, così come il resto della camera. Il dolore alla gamba torna, e diventa il focus principale. «Sei impazzito?»

«Dammi due schiaffi. Ora.»

Vedo il panico nel suo sguardo, poi l'indecisione e, in fine, la mano che carica e si schianta sulla mia guancia. Funziona. Mi risveglia parzialmente, mi sento più lucido. Le porgo l'altra e ghigno. «Apollo docet

Il secondo schiaffo mi fa sobbalzare sul posto. Hell si ritrae per lasciarmi spazio, e quando ho possibilità di movimento, premo sul bracciolo e provo a mettermi in piedi. Lei mi è subito a fianco, mi circonda la vita e prova a spingermi sul divano.

«No, no, no», mi sgrida con dolcezza. «Devi stare fermo e seduto.»

Scuoto la testa. «No, devo darti il tuo biglietto aereo. Ho prenotato il volo per te e Poseidon. Tra meno di un'ora dovete muovervi da qui per arrivare in aeroporto o lo perderete. Devi prendere i bagagli e...» Le parole si rincorrono e perdono significato.

Scanso Hell, tentando di non essere brusco, e trascino la gamba per quanti passi riesco a fare. A occhio e croce, quindici passi mi separano dalla camera da letto. Posso farcela.

Uno. Due. Tr... Inciampo e crollo per terra. Uso le mani per attutire la caduta, ma il pavimento dà una spinta al manico del coltello e lo sposta appena, facendomi esalare un gridolino soffocato. Comincio a imprecare, rovesciando fuori dalla bocca una serie di volgarità fantasiose.

Sto ancora imprecando quando due mani mi afferrano per le ascelle e provano a sollevarmi. Hell fa un versetto affaticato che quasi mi strappa una risata. «Genietto, non riuscirai a sollevarmi. Il mio cazzo pesa troppo.»

«Smettila, non è il momento di fare battute di merda.»

Ma so che, se la vedessi in viso, starebbe sorridendo.

Cerco di aiutarla come posso; in due non riusciamo a combinare nulla.

Le faccio cenno di lasciare che me la cavi da solo, poi mi rimetto a terra, sul fianco e inizio a strisciare.
È una scena così patetica che non so con quale coraggio la guarderò in faccia.

«Ares, cosa stai facendo?» sbotta Hell, esasperata.

«Devo mettere te al sicuro. Devo farti tornare a Yale. Devo darti i biglietti, li ho stampati stamattina, sono sul mio comodino e...» Devo darti anche un'altra cosa. Devo dartela prima che tu parta e io finisca di nuovo in ospedale.

«Non parto. Vengo con te in ospedale. Quindi, il biglietto non serve. Stai fermo.»

«Col cazzo», la apostrofo. «Tu parti da qui il prima possibile.»

«No.»
«Smettila.»

«Hell, inginocchiati e avvicinati a me, per piacere.» Non so con quale forza riesco a mantenere un tono piatto ed essere un minimo educato.

Lei obbedisce, arrivando al mio stesso livello. Con la mano libera, le afferro il viso e me lo porto vicinissimo, fino a quando il suo fiato non si scontra sulle mie labbra e io vorrei solo baciarla, dimenticando tutto il resto.

«Fai quello che ti dico, ti prego. Fidati di me. È la scelta migliore», sussurro. I suoi occhi rimangono fermi sulla mia bocca, poi risalgono. Sbatte le palpebre furiosamente. «Apri il cassetto del mio comodino e prendi i biglietti e il dise...»

«Che cazzo è successo qui?»

Ottimo. Altri ospiti. Con l'aggravante che non è nessuno dei miei fratelli, e tanto meno dei cugini.

Strizzo gli occhi per accertarmi che sia chi credo che sia.

«Hell, prendi il biglietto e vai via con Poseidon. Ha ragione Ares. Ci penso io a lui», dice il nuovo arrivato.

Come si chiamava? La guardia del corpo di Barbie che se la trombava alle spalle di Crono? Thym? Thyrkos? Miltos? Mirtos?

Prima di alzarsi, Hell si avvicina al mio orecchio e bisbiglia: «Thymós.»

La osservo correre in camera da letto con la bocca spalancata. Come diamine ha fatto?

Thymós si china su di me e, con una sola mossa, mi rialza da terra, tenendomi ben saldo al suo corpo grande quanto un armadio a dieci ante. «Adesso ti controllo la ferita e valuto se è così profonda da richiedere un intervento chirurgico, in ospedale. Altrimenti, te la medico io. Farà male, e a ogni lamentela che uscirà dalla tua bocca avrò voglia di darti uno schiaffo. Quindi, cerca di non darmi troppo sui nervi.»

«Vaffanculo, chi cazzo credi di essere?»

Thymós mi adagia sul divano e inarca un sopracciglio. «Uno che ti sta salvando il culo. Prego.»

Mentre sento Hell aprire cassetti e spostarsi da una parte all'altra della camera, Thymós comincia a esaminare la mia ferita. Sfiora il manico del coltello e osserva l'arma da ogni angolazione.

«Sai mostrarmi con le mani quanto era lunga, all'incirca?»
Gli faccio una misura approssimativa. «Credo così.»

Lui aggrotta la fronte. «Quanto è realistica?»
Cambio la dimensione. «No, forse così.»
«Sicuro?»

No, merda, nemmeno. Muovo di nuovo le mani. «Okay, forse... No, aspetta...»
Thymós mi blocca. «Basta così, lasciamo stare.»

È una situazione strana. Sono stato picchiato da mio nonno, quasi convinto a suicidarmi, e adesso Thymós, la guardia del corpo di Aphrodite, mi sfiora la coscia e mi fa da crocerossina. Il dolore non accenna a diminuire, e io ho bisogno di parlare di qualcosa per distrarmi.

Ma cosa? La prima che mi passa per la testa. Letteralmente.

«Allora... Culo o tette?»

Thymós si immobilizza. Poi, il suo capo si solleva piano, fino a quando i suoi occhi scuri non si fissano sul mio volto. «Che razza di problemi hai, tu?»

«Volevo fare conversazione e distrarmi. Sai», indico la lama nella coscia, «questa roba fa male e tu non fai altro che guardarla.»

«La guardo perché se la rimuovo senza capire qual è la sua lunghezza, quindi quanto in profondità è andata, rischio di farti crepare dissanguato. Vuoi che ci provi senza indugiare ancora? A voi Lively piacciono questi giochi di merda, no?»

Deglutisco a fatica. «Meglio di no, sai.»

«Bene. Allora zitto.»

«Quindi culo o tette?»
Ringhia come un cane rabbioso.

«Okay, non vuoi dirlo. Strizza l'occhio sinistro per il culo, sorridi per le tette.»

Non fa nessuna delle due cose. Si limita solo a darmi una pappina sulla fronte; il gesto avviene così d'improvviso che la testa mi crolla all'indietro e rimbalza sul cuscino del divano.

Fatico a credere che un uomo così burbero fosse riuscito a guadagnarsi l'amore di una come Aphrodite.

Passano altri minuti, e riprendo a sudare, preso da vampate di calore intermittenti. Thymós consulta qualcosa sul telefono e continua a studiare la mia ferita; a giudicare dalle sue espressioni, non ci sono buone notizie.

«Qui non c'è nulla da...» sta borbottando Thymós.

Un colpo contro la porta mi fa voltare di scatto e interrompe la mia infermiera. Se ho imparato qualcosa da nonno Urano, è che sarebbe capace di tornare qui con una mazza chiodata per dare via al round due.

Invece, è Poseidon. Ha la sua valigia al seguito, i capelli azzurri spettinati vanno in ogni direzione. Lui, che è sempre solare e allegro, sembra non dorma da giorni e abbia appena finito di vomitare.

«Perché un tipo sconosciuto sta cercando di toglierti un coltello dalla gamba?»

«Nonno Urano mi ha fatto visita.»

«Ah. Scemo io che chiedo.» Si alza in punta di piedi e sbircia oltre la porta della camera da letto. «Hell è pronta? Dobbiamo essere fuori dall'hotel entro cinque minuti, prima che la navetta parta.»

Lei arriva pochi istanti dopo, con lo zainetto celeste e la valigia nera. Quest'ultima è chiusa male, e dalla zip fuoriesce un pezzo di qualche vestito bianco.

«Eccomi, scusa.» Si gira verso me e Thymós, e quando vede il nostro operato, fa una smorfia. «Sicuri di cavarvela, qui?»

Thymós le regala un sorriso, lasciandomi di stucco. Quindi sa farlo? Pensavo gli mancassero i muscoli facciali, visto che sa solo inarcare il sopracciglio e aggrottarlo. «Vai, stai tranquilla. Chiamatemi se c'è qualche problema, d'accordo?»

Poseidon gli fa l'okay e circonda le spalle di Hell, che è comunque restia ad andarsene. In mano stringe i due biglietti aerei che ho comprato, ma non l'altra cosa che le avevo detto di cercare. Dev'essersene dimenticata e non la biasimo. Sono successe troppe cose nelle ultime settantadue ore.

«Hell, il dis...» la voce mi muore in gola.

«Cosa, Ares?» chiede lei.

Poseidon dà un'occhiata all'orologio, impaziente.

«Nulla, nulla, andate. Subito.»

Hell fa per rispondermi, ma Posy la trascina via e sbatte la porta per evitare che qualcuno, passando di qui, mi veda infilzato come un porco allo spiedo.

Restiamo avvolti dal silenzio per qualche istante, dopodiché Thymós si lascia andare con il culo a terra e butta fuori un fiotto d'aria. «Non posso fare nulla. Dobbiamo andare in ospedale.»

«Quindi non riuscirò a prendere il mio volo, più tardi.»

«Ne dubito, ma non importa, al momento. Devi farti medicare la gamba.»

Sono come dei pizzichi nella pancia. Un prurito fastidioso, quasi doloroso, non appena realizzo che devo stare lontano da lei. E dalla mia famiglia. Con la costante paura che Urano faccia un'altra visita e se la prenda con loro.

Ma non può accadere, vero? Lui ce l'ha con me. E se vuole metterli in mezzo, lo fa tramite un gioco. Finché starò lontano da loro, saranno al sicuro. Ecco la grande verità che fa un male cane da accettare.

«Capisco perché ti dia così tanto fastidio», mormora Thymós, cogliendomi di sorpresa. «Ho visto come la guardi. La guardi come uno scemo.»

«No, è che sono mezzo cieco quindi faccio smorfie per mettere a fuoco le co...»

«No, sei scemo e basta.»

«D'accordo, Cosa. Allora andiamo in ospedale, così stai zitto.»

Thymós mi mostra un ghigno vincente e si rialza. La posizione del suo corpo mi fa indietreggiare, per quanto riesca stando seduto sul divano. Ha le braccia tese, come se volesse...

«Cosa vuoi fare, prendermi in braccio e portarmi via così? Non se ne parla. È troppo umiliante.»

«Non costringermi a buttare Zeus giù dalla sedia a rotelle per usare quella, Ares. Non essere stupido. Non ci sono altri modi.»

«Mi trascinerò fino alle porte.»«Idiota.»
«Me lo diceva anche Aphrodite.»
«Non avevo dubbi.»


🦊🔥
H E L L


Hurricane ha davvero cambiato stanza.

Non l'ho fermata. Nemmeno quando si è presentata qui con gli occhi lucidi e ha impacchettato tutte le sue cose in grandi scatoloni. Nemmeno quando ha chiuso la porta e sono rimasta sola, di nuovo.

È stata la persona estroversa che mi ha salvata il primo giorno da matricola, qui a Yale. Quella che ti si siede accanto, per puro caso, e inizia a parlarti. E da lì capisci di aver trovato qualcuno con cui stare e che non ti farà più sembrare l'asociale che è sempre sola.

Ora, chi ho?

I Lively non si sono più fatti vivi a Yale, dalla vacanza in Messico. Siamo partiti tutti con voli diversi, e anche se ero con Poseidon, la mattina dopo lui non si trovava più nel dormitorio. Non era in caffetteria. Non era in piscina. Non era nel campus. E, con lui, anche il resto della famiglia.

È passata quasi una settimana, e per i corridoi di Yale gli studenti mormorano e fanno ipotesi su quello che potrebbe essere successo ai Lively. I più esagerati e desiderosi di creare drammi, dicono che siano tutti tragicamente morti. Be', sarebbe un modo crudele ma veloce per porre fine a questo impero di giochi e truffe.

L'unico rimasto qui è Liam Baker. Nemmeno lui sembra passarsela bene. Lo vedo di sfuggita in caffetteria; quando arrivo, lui sta ritirando le sue cose dal tavolo. Non sembra che qualcuno gli faccia compagnia. Credo che mangi da solo e che non abbia nessun altro con cui stare, senza la presenza dei Lively. Vorrei avvicinarmi e parlargli, ma ho paura di non essere gradita. Ho paura di essermi fatta un'impressione sbagliata e che, in realtà, io non sia ammessa nella loro cerchia. Non sono una sconosciuta per loro, ma nemmeno un'amica.

Solo martedì non l'ho visto, e credo che si sia assentato per partecipare al funerale di Newt, il fratello di Haven. La mattina dopo era in caffetteria a fare colazione, sempre da solo.

Ho scritto tre messaggi ad Ares. Non ne ho inviato manco uno.
Ne ho scritto uno a Poseidon e non ho avuto risposta.

Forse dovrei solo farmi gli affari miei.

Chiudo il libro di matematica con uno scatto e lo lancio a terra. È sopravvissuto a tanti lanci olimpionici, ma la copertina comincia a staccarsi. Sesto giorno che provo a capire l'argomento del capitolo due, sesto giorno che fallisco. Studiare qualcosa che non ti piace è pesante, studiare qualcosa che non ti piace e che nemmeno capisci, ti uccide dentro.

Controllo l'ora. Sono quasi le nove e dovrei andare in caffetteria prima che chiuda agli studenti.

Torno in camera e metto una felpa sopra la canotta e i biker neri, poi infilo un paio di vans senza lacci e passo le dita tra i capelli per tentare di pettinarli. L'unico pettine presente in questa camera era di Hurricane. Non lo usavo mai, in ogni caso. Lei, invece, ogni tanto me lo passava tra i capelli quando le veniva voglia di farmi qualche acconciatura carina.

Mentre sto spegnendo le luci delle stanze, sento un colpo alla porta.

Rimango immobile come una scema, in attesa. Non ne arrivano altri.

Scatto come un fulmine e abbasso la maniglia; davanti a me, non c'è nessuno. Guardo nel corridoio, ma trovo solo qualche studente che alloggia qui.

Abbasso il capo.

Sullo zerbino c'è una busta da lettere, rettangolare e grande. Non c'è scritto nulla, se non: Per Hell. Riconosco la grafia senza problemi; è la stessa usata nei bigliettini che ci scambiavamo io e Ares, quando lui metteva la musica troppo alta.

La afferro e rientro in camera, il cuore che mi martella nel petto. I battiti mi riecheggiano nelle orecchie, sono così emozionata che mi sento pure stupida. Cosa mi sto aspettando, di preciso?

Apro la busta con mani tremanti.

Al suo interno c'è un foglio da disegno, in cartoncino rigido, bianco. Il lato da cui lo apro è bianco, ma quando lo volto mi trovo davanti un disegno fatto a matita.

È una ragazza che dorme di fianco, con il viso poggiato al cuscino, raffigurata dalla nuca a sotto il seno. Le mani sono unite, e poggiano tra la guancia e la federa.

So che sono io, perché è la mia posizione preferita per dormire.
So che sono io, perché la ragazza ha i capelli corti come i miei.

Sono io, ma composta da lettere dell'alfabeto. Successioni di a, c, l, z, t, m, s, o, p e altre, si mischiano grigio su carta e vanno a creare ogni dettaglio della mia figura. Non è come un ritratto, affatto. Disegnare con le lettere non è facile e non rende il disegno realistico, ma è comunque la cosa più bella che io abbia mai visto. La cosa più bella che qualcuno mi abbia mai regalato.

Non so per quanto tempo io lo fissi, abbastanza da sentirmi stanca di stare in piedi. Mi siedo sul divano e lo rimiro ancora e ancora, con le lacrime agli occhi e un grande sorriso che non accenna a svanire.

Me lo aveva detto. Mi aveva detto che avrebbe voluto farmi un ritratto composto di parole. A lui, in genere, piace disegnare con i numeri; in particolare, la successione del pi greco.

Assottiglio gli occhi e guardo più da vicino le lettere. Magari formano delle parole. Conoscendo Ares, sarebbero "tette", "culo", "vagina" e "scopiamo".

Invece, non ce ne sono. Almeno, sul viso le lettere sono messe in ordine casuale e non formano parole di senso compiuto.

Quando scendo lungo il collo e sulle spalle, me ne accorgo.

Sul petto.
Nel punto in cui dovrebbe esserci il cuore.
Le lettere formano una parola ben distinguibile: Hell*. All'apice della l finale c'è un asterisco.

Okay, ora sono davvero curiosa. A cosa porta quell'asterisco? Rigiro il foglio alla ricerca di un qualche messaggio nascosto, ma non c'è nulla. La frustrazione prende il sopravvento. Che razza di giochino è questo?

Riprendo la busta e la capovolgo, scuotendola con foga. Un fogliettino bianco, molto più piccolo di quello in cui c'è il mio ritratto, cade sul divano. Bingo.

*biblioteca di Yale, reparto dei dizionari.
Concise Oxford English Dictionary: Main edition, 2011.
Pagina 612.

È una caccia al tesoro? Per andare a leggere sul dizionario cosa significa la parola "inferno"?

Infilo il foglietto nella tasca della felpa e porto via solo telefono, portatessere e le chiavi della stanza.

Sfreccio tra i corridoi di Yale, per una volta in questi ultimi giorni sinceramente serena e felice per qualcosa. Ma anche preoccupata che mi stia abituando così tanto alla presenza di Ares e della sua famiglia.

Nell'edificio c'è il solito viavai di chi ha finito di cenare e si sposta in giardino per godersi la primavera, e chi si organizza per uscire o fare qualcosa in stanza.

Catturo gli sguardi di tutti, mio malgrado. Ormai la gente pensa che io stia diventando una di loro, com'è successo a Haven. Stasera, però, non mi importa delle attenzioni non richieste. Ignoro i mormorii e le occhiate insistenti e mi dirigo in biblioteca. Ho tempo prima che chiuda, ma sono troppo curiosa.

La biblioteca è quasi deserta. Pochi banchi sono occupati da studenti che studiano; quasi cammino in punta di piedi per non dare fastidio a nessuno e mi affretto a raggiungere lo scaffale con i dizionari di tutte le lingue.

Trovo quello che mi ha indicato Ares dopo due tentativi e lo apro a pagina 612. Poi, mi siedo per terra con la schiena poggiata allo scaffale e guardo cosa ha combinato.

È la pagina della H. Più precisamente, quella in cui c'è la parola hell. Solo che, nello spazio in cui si trova la sua definizione, qualcuno (Ares), ci ha incollato sopra un altro foglietto. Lo stacco senza rovinare la carta e leggo.

hell
/hɛl/
Nome: inferno
Un luogo che, secondo varie religioni, viene considerate un posto spirituale in cui regnano il male e la sofferenza. Spesso descritto come un posto di fuoco perpetuo, situate sotto la terra, dove i cattivi vengono puniti dopo la morte.

Esclamazione: hell!
Usato, in inglese, per porre enfasi o esprimere rabbia o sorpresa.
"oh, hell—where will this all end?"

Nome: Hell (Lingua di Ares*)
Nomignolo identificativo di una ragazza introversa; agli occhi degli altri può sembrare che parli poco, quando in realtà è solo brava a scegliere con cura le parole da non dire. All'apparenza fragile, ma con una forza interiore di cui neanche si rende conto. Adorabile scrittrice con poca autostima, schiappa in matematica e abile pesciolino d'acqua. Altruista, fin troppo buona e gentile, a volte irritante. Ignara dell'esistenza dei pettini e sempre con le occhiaie, si aggira per Yale con vestiti sgualciti e il capo chino per non incontrare lo sguardo di nessuno. Macchiolina di colore rosso che brilla più di qualsiasi altra. L'unica cosa che i miei occhi si sforzano di vedere meglio.

*nota lingua parlata dal popolo Ares, famoso nell'area del Connecticut per essere un popolo dotato di grande bellezza, carisma, simpatia e un apparato riproduttivo molto soddisfacente.

Hell.
La ragazza di cui __________

La frase si interrompe. Volto il foglietto, ma non c'è nulla in più.

La ragazza di cui...?

La ragazza, complemento oggetto. La persona su cui ricade la cosa.
Io, Ares, soggetto sottinteso, colui che sta compiendo l'azione.
Manca il predicato verbale, ovvero l'azione compiuta dal soggetto sottinteso, Ares.

Non è difficile ipotizzare il continuo della frase, ma è un'ipotesi così folle che il mio cervello la scarta all'istante. No, non è possibile.

Rileggo il contenuto del foglietto almeno cinque volte, e ogni volta le parole sembrano assumere un significato più bello della precedente. Come ha fatto a preparare tutto questo? Lo ha fatto prima di partire per il Messico? O è tornato a Yale senza che io me ne sia accorta?

Tiro fuori il telefono e scatto una foto, ai bigliettini e al dizionario. E quando blocco lo schermo, vedo il mio riflesso che sorride. Per quanto provi a smettere, non riesco a impedire agli angoli della mia bocca di stare piegati verso l'alto. Non so nemmeno che emozione sto provando; sono tante e si rincorrono tra di loro, facendomi contorcere le budella e aumentando i battiti del mio cuore.

Chiudo il dizionario e mi alzo, per poi riporlo sullo scaffale.

Ha usato la mia passione delle parole straniere per creare qualcosa con il soprannome che mi ha dato. Ares Lively. Lo scemo della porta accanto che, al contrario mio, sceglie con cura le parole peggiori da dire agli altri. E, questa volta, ha scelto con cura le migliori da rivolgere a me.

Infilo il foglietto nella tasca della felpa e mi volto, pronta a correre in caffetteria, mangiare e poi chiamare Ares.

Alla fine dello scaffale, c'è una persona che se ne sta poggiata contro di esso a braccia conserte. Liam. Ha un sorriso tirato, il tipico sorriso che faccio io quando sono in imbarazzo e ho paura di disturbare.

Agito la mano per aria in cenno di saluto e lui ricambia. Però, mi raggiunge. «Ehi», sussurra.
«Ciao.»

Con l'indice picchietta sul dorso di un dizionario di portoghese. «Piaciuta la sorpresa?»
Lo fisso, confusa.

«Ares ha chiesto a me di venire qui a manomettere il dizionario e lasciarti il disegno davanti alla porta», spiega, lanciando un'occhiata alle sue spalle. «La bibliotecaria mi ha scoperto la prima volta, in realtà, e sono stato cacciato. Ho chiesto al primo studente che ho incontrato.»

Trattengo una risatina. «Grazie per il tuo lavoro, Liam.»

Lui annuisce e comincia a giocherellare con dei braccialetti che ha al polso. «Stavo pensando... noi due siamo entrambi soli in questi giorni, no? Potremmo stare insieme. Pranzare insieme, magari. O fare colazione. O la cena. O tutti e tre. O nessuno perché magari non ti va.»

Io e lui siamo simili. E non me ne stupisco. L'ho sempre sospettato.

Mi mordo il labbro con forza. La sua proposta scatena un'ondata di calma e serenità dentro di me. «Mi piacerebbe, Liam, certo.»

«Sicura?»
Gli afferro la mano. «Andiamo in caffetteria, dai.»

Liam mi prende a braccetto e mi trascina dalla parte opposta, verso un'uscita secondaria, forse per non farsi vedere dalla bibliotecaria. Restiamo in silenzio fino a quando non ci ritroviamo fuori, immersi nel rumore dell'università e lontani dalla quiete della biblioteca.

«Allora, come stanno gli altri? Come va dopo quello che è successo in Messico?»

Liam sospira. «La morte di Michael Geckson ha lasciato un solco profondo nella mia anima, ma devo dire che sto affrontando il lutto con tutta la forza e il coraggio di cui sono capace. Agli altri non sembra fregare del mio geco, in realtà, ma...»

«Liam, mi riferivo a Newt Cohen e a Zeus», gli faccio presente. «Mi dispiace per il tuo geco, comunque.»

Lui storce il naso. «Ah, giusto. Be', martedì si è tenuto il funerale. Haven sta male e gli altri fanno il possibile per aiutarla.»

«E Zeus come sta?»

Sento Liam irrigidirsi. Esita, poi fissa lo sguardo davanti a sé e diventa imperturbabile. «Non ne ho idea.»

D'accordo, è successo qualcosa di cui io non sono a conoscenza. E, a giudicare dalla reazione di Liam, è meglio che non faccia domande o insista. Sono affari loro.

Arrivati alla caffetteria, Liam mi tiene la porta aperta e mi fa cenno di entrare per prima. «In ogni caso, io mi riprenderò. Non preoccuparti per me, Hazel. Sono forte. La notte piango per MG, ma la mattina mostro al mondo il mio inscalfibile sorriso.»

Gli do una pacca sulla spalla. «Sono fiera di te.» Non saprei in quale altro modo replicare. Il problema di Liam è che dice sempre cose strane ed è difficile adattarsi al suo modo di dialogare e vivere.

«Tu vai a cercare un tavolo, mentre io ordino per entrambi», mi propone.
Gli lascio i soldi giusti. «Insalata con pollo, grazie.»

Mi guardo attorno. Trovo subito un tavolino all'angolo della sala e mi ci fiondo senza esitare. Osservo Liam fare la fila e comprare la cena per entrambi, con il mento poggiato sulla mano.

Liam è ancora alla cassa quando la sedia accanto alla mia striscia sul pavimento. Una chioma arancione intenso entra nella mia prospettiva. «Sono proprio buoni i milkshake che fanno qui.»

Hera Lively si è appena seduta a fianco a me, come se nulla fosse.

Arretro appena per inquadrarla meglio. Ha un frappè tra le mani, lo sorseggia da una cannuccia azzurra mentre studia Liam. «Ciao anche a te», le dico, sconvolta.

Hera mi punta i suoi occhietti chiari addosso, dopodiché sorride. «Scusami», beve altro frappè. «Tutto bene?»

«Dove... dove eravate finiti? Siete tornati tutti quanti?»

Punto lo sguardo al loro tavolo, quello centrale. È vuoto. Nessuno studente si permette di sedersi lì.

«Solo io. Ma gli altri arriveranno tra stanotte e domani mattina, non preoccuparti.»

Gli altri, chi? Ares è tra quelli di stanotte o della mattina? Non posso chiederglielo. Ne va del mio orgoglio. «Domani mattina Ares deve darmi ripetizioni di matematica, mi auguro che arrivi stanotte.»

Hera mi guarda con la coda dell'occhio e sorride, la cannuccia stretta tra le labbra. «Arriva stanotte, sì, stai tranquilla. Non riuscirebbe a starti lontano nemmeno per un'ora in più.»

Sussulto. La saliva quasi mi va di traverso. «Ah, no?»

Hera agita la confezione e risucchia ancora, producendo il tipico rumore di quanto non c'è più nulla da bere. Abbandona il bicchiere sul tavolo e si stiracchia. «Conosci Pavlov e il condizionamento classico in psicologia comportamentale?»

Frugo nella mia testa alla ricerca delle informazioni. «Mmh. Sì, credo. Era riuscito a far salivare il suo cane tramite stimolo sonoro.»

«Esatto. Spiegato in modo molto superficiale e veloce, all'inizio gli mostrava la carne, e il cane salivava come risposta allo stimolo del cibo. Poi, ha cominciato a presentargli la campanella, quindi un suono, associato alla carne. Alla fine, il cane salivava senza vedere la carne ma solo sentendo il rumore della campana, perché aveva capito che a quel suono seguiva il cibo.» Mi guarda. «Ha vinto il Nobel, quell'uomo, facendo sbavare il suo cane.»

«E cosa c'entra con Ares?» domando.

Ghigna. «Ares è come il cane di Pavlov. Sbava ogni volta che vieni nominata, anche se non sei presente.»

Aggrotto le sopracciglia, divertita dal paragone ma anche confusa. Non ha esattamente un collegamento poi così logico, ma non importa. «Ares sbava per ogni ragazza», correggo.

«Ares non ha mai sbavato per nessuna. È un cagnolino fedele solo con te.»

Tamburello le dita sul ripiano del tavolo. «Allora, perché sei qui? Solo per dirmi che tuo fratello sbava?»

«No, sono qui in anticipo per organizzare i miei giochi. Venerdì si avvicina, no?» Mi fa l'occhiolino.

Hera ha un viso così pulito e dolce, che non ce la vedo proprio a organizzare giochi cattivi per umiliare gli studenti di questo posto. «C'è da preoccuparsi?» indago.

«Assolutamente no. I miei giochi saranno volti solo a dare una spinta decisiva alle coppie che ancora non si decidono a diventare tali.» Nel dirlo, non lancia solo un'occhiata esplicita a me, ma ritorna su Liam.

Oh.
Mi piace. E mi spaventa pure. Questa famiglia sembra calamitare verso i disastri.

«Perché lo fai?» Perché vuoi aiutarli a mettersi insieme, quando tu potresti trarne vantaggio?

Lei capisce subito il dubbio sottinteso. «Perché amo Zeus, e amare qualcuno significa volerlo felice. Non lo è con me, ma con Liam. E questo mi basta a tifare per loro.»

Presa da un moto di coraggio, poggio la mia mano sopra la sua e stringo piano. «Sei una brava persona, Hera. Forse troppo brava per stare in questa famiglia.»

Ride, mostrandomi una schiera di denti bianchi e perfetti. Hera è bellissima, una delle donne più belle che abbia mai visto nella mia vita. Ha una bellezza che ti lascia incantata, sembra quasi eterea.

Forse dovrei lasciar stare Ares e provarci con sua sorella.

Hera si accorge della mia incertezza improvvisa e mi si avvicina con un'espressione maliziosa. «Cosa c'è, Hell, stai pensando che hai scelto il fratello sbagliato? Magari era meglio una sorella

Dio, le donne mi mettono in difficoltà. Gli uomini hanno modi di flirtare che, nella maggior parte dei casi, risultano patetici e fastidiosi. È facile rispondere loro a tono. Ma le donne sanno essere carismatiche e ammalianti. A Hera non riuscirei a dire nulla. Ancor meno ad Athena. Ho sempre trovato Athena tanto attraente quanto spaventosa.

Hera mi riporta alla realtà, e mi spettina i capelli in un gesto affettuoso. «Stai tranquilla, Hazel.»

«Lo sono, lo sono», bofonchio, ancora con le gote paonazze.

Hera si mette in piedi proprio quando Liam comincia a incamminarsi verso il tavolo, facendo slalom tra i gruppi di studenti. Raccatta il bicchiere di frappè e mi rivolge un saluto. «Ci vediamo per i miei giochi.»

🍒
Buongiorno raghy, come va? L'estate è finalmente quasi finita e spero che la vostra sia andata bene 🫶🏻
Questo autunno sarà meraviglioso

Non ho molto da dire sul capitolo, anzi, quasi nulla ☠️ i giochi di Hera sono gli unici che mancano all'appello, e saranno più nello stile di quelli di Aphrodite (li trovate in GoG, se volete un ripassino: capitolo 32) 🙌🏻

Aggiorno GoD, che è agli sgoccioli, e torno qui 🙏🏻
grazie di cuore per leggere goc
🥹💚

Tiktok: cucchiaiaa
Ig: cucchiaia
Have a nice life🍒

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