Lo spazioporto

By CactusdiFuoco

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Questa è la storia di Paula, una giovane donna come tante che lavora per il DRICE (Dipartimento per la Regola... More

Intro + copertina
Prologo: Vorrei qualcosa di sorprendente
⊕ VISITA LA TERRA! ⊕
2. Io normale, lui speciale
3. Questa lettera è stata scritta da una stella o da un fungo
♦ ALLERTA PORTALI! ♦
4. Prescrizione medica
◊ Sali a bordo della Titanika™ ◊
5. Un dolcissimo chiodo fisso
6. Tanto vado in vacanza
◊ SCOPRI IRAM DALLE MILLE COLONNE! ◊
7. La città della luce (e dei leoni)
8. Lasciarsi la Terra alle spalle
- Etica e conformità -
9. Godersi un filmetto durante il viaggio
◊ FILM IN EVIDENZA ◊
10. Sola sulla Titanika
Garfield, la grande opera terrestre (spiegata da Paula Datsyuk)
11. Al ristorante con il mantide
Dal Re in Giallo
12. Quello che vedi guardando nel cosmo
13. Bestie a piede libero

1. Routine

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By CactusdiFuoco

La verità, ragazzi, è che ormai non mi sorprendo più di niente.

Lavoravo allo spazioporto da ormai sette anni e potevo dirvi con una certezza del'89% di aver visto di tutto. Capiamoci, all'inizio era pure bello: c'erano tutte quelle creature nuove, quelle astronavi scintillanti, e tutto sembrava lì per essere esplorato. Poi il tempo passa e scopri che non importa con quale specie tu ti stia relazionando, perché tutto quello che devi fare è:

a. Imparare il loro saluto tradizionale (altrimenti si offendono);

b. Imparare qual'è la forma delle loro navicelle (così sai quando sono arrivati e puoi salutarli in modo tradizionale. Altrimenti si offendono);

c. Offrire loro depliant e tariffe vantaggiose;

d. Rispondere a tutte le loro domande cretine sul pianeta Terra (cose come "ma gli umani hanno tutti due occhi? E potrebbero averne tre, per favore, perché mi mette a disagio che ne abbiano due?");

e. Sperare che i visitatori a questo punto se ne vadano per la loro strada senza avvelenare nessuno, sputare negli occhi ai passanti, mordermi i piedi o altre azioni similmente insensate.

La routine ammazza l'avventura e non c'è gioia nei saluti preconfezionati.

Alcuni miei colleghi, nonostante gli anni passati in questo inferno di relazioni interpersonali al limite del ridicolo, erano ancora pieni di entusiasmo e affrontavano ogni giornata come se fosse una festa. Io non li capivo: cosa c'era di tanto bello nell'essere continuamente oberati di lavoro e trattati come pezze da piedi da alieni spocchiosi?

Il peggio è che io amo le sorprese, o almeno, le amavo quando mi capitava ancora di averne qualcuna. Se non riesco a provarne qui, credo di non poter più sperare che mi ricapiti.

A questo punto, quello che mi rimane è cercare di fare bene il mio lavoro.

Perciò, da brava, quando il telefono della mia postazione squillò, io risposi e attesi che fosse il cliente a parlare per primo, in modo da capire quale lingua e maniere era appropriato usare.

Perdonate se suona poco serio ad un umano non abituato, ma, in tono estremamente cortese per la sua specie, il mio interlocutore mi salutò così:

«UaaAAAaaaUAaaUAaaa».

Sospirai, passandomi una mano sugli occhi. Era uno Scala.

Allo Spazioporto li chiamavamo "Scala", perché il nome che danno a sé stessi è uno strano vocalizzo ascendente. "Scala" viene dal nome della Scala Shepard, una particolare illusione auditiva che, come la mia vita, sembra variare costantemente, ma che in realtà non va da nessuna parte.

La loro voce somigliava proprio a quell'illusione, inumana, finto-ascendente ed elettronica.

Per quella specie era incredibilmente inquietante sentire qualcuno che parlava in maniera "piatta", senza salire e scendere continuamente di tono, perciò mi trovai mio malgrado a cercare di adattarmi alla sua parlata per comunicare con lui. Dovevo comunque suonare meccanica e innaturale al mio interlocutore, ma almeno non gli provocai un attacco di panico.

«Salve» Gli dissi, vocalizzando come un gibbone ubriaco «Sta chiamando Lo Spazioporto, gestione DRICE. Grazie per averci contattati. Come posso aiutarla?»

«PaTAte»

«Cosa?»

«PAtatE».

Non conoscevo quella parola nella sua lingua, perciò gli chiesi di evitare slang moderni e spiegarmi in qualche altro modo cosa volesse.

Lo Scala aveva visto i nuovi volantini che lo Spazioporto aveva fatto stampare e voleva farmi delle domande sulla Terra prima di prenotare.

"Questo mi rompe le scatole e finisce pure che neanche compra il viaggio" Pensai.

Avevo ragione, ovviamente.

Dopo aver appreso che gli umani tengono animali domestici, era stato colto da paura tale di essere addomesticato che aveva voluto annullare qualunque prenotazione.

«Essere addomesticati non è così male» Gli dissi «Chi lo fa si prende cura di te, ti protegge e ti dà da mangiare. Comunque, le assicuro che, se non è ciò che vuole, non sarà addomesticato».

Lui mi chiese se ero un essere umano, io riposi di sì.

Dovevo aver modulato la voce in modo poco convincente – oppure lo Scala si era convinto che io volessi tenerlo in una cuccia in giardino – perché non ci fu verso di convincerlo, così salutai e lasciai che chiudesse la chiamata.

Da lì in poi, mi sembrò che il resto della giornata lavorativa mi scivolasse addosso. Un battito di palpebre ed era già ora di staccare.

Avevo fatto le stesse cose di sempre.

Avevo risposto alle domande, schedulato viaggi, comunicato ai piloti gli orari corretti di partenza ed arrivo, ascoltato le lamentele dell'ennesimo alieno che non capiva che sorridere era un atto di gioia ed amicizia sulla Terra, e voleva denunciare il capo burocrate per averlo "minacciato pesantemente" mostrando i denti.

Non potevo neanche biasimare il mio cervello, se queste cose non le registrava più. Era sempre la stessa roba, in fondo, no?

«Benissimo» Sbuffai «Fine di un altro giorno».

Iniziai a raccogliere le mie cose dalla scrivania. Non tutte: ero certa che l'indomani avrei comunque ritrovato al suo posto la tazza. Ci pensate? Alieni di tutto l'universo e nessuno abbastanza coraggioso (o desideroso di un brivido di illegalità) da prendere una mug di ceramica da sopra una scrivania. Forse perché c'era scritto sopra un grande "NO" bianco su sfondo nero e tanto bastava come deterrente.

Misi le penne nell'astuccio e l'astuccio nella mia cartella di pelle, poi mi alzai, sentendo migliaia di punture ai piedi addormentati, che finalmente si riempivano di nuovo di sangue.

Non era necessario che salutassi nessuno, erano tutti estremamente occupati e non volevo far perdere loro del tempo prezioso, perciò mi limitai a usare il mio badge per registrare che avevo concluso la mia giornata lavorativa, infilandolo nell'apposito marchingegno color argento.

Aggirai la scrivania e feci per andarmene, ma ecco che comparve lui: Falco.

Falco, nonostante il nome un po' esotico da guerriero o da arciere, era un tizio che indossava sempre suit colorate e fuori luogo, di quelle che spesso spaventavano gli alieni; quella sera ne aveva una rosa pepto-bismol (avete mai visto il flacone di questo medicinale per la diarrea? Rosa in un modo irritante), con una cravatta a scacchiera rossa e bianca decorata da un fermacravatta dorato a forma di occhio. Tutta la sua persona sembrava fatta per essere notata: asciutto e scattante, ciglia scurissime intorno agli occhi grandi e ridenti, i capelli bruni, ricci, rasati ai lati, ma lunghi dietro abbastanza da essere raccolti in un codino, la faccia sempre cosparsa dai peletti cortissimi di una barba sfatta (la mia teoria era che non sapesse tagliarla più corta di così, quindi ormai era parte del look) e le mani che non stavano mai ferme. Come se non bastasse, aveva sempre un prisma apparentemente di vetro, in realtà un rarissimo organismo ultra-dimensionale, che gli fluttuava intorno.

«Paula, te ne vai?» Domandò, tutto allegro, con la sua voce squillante e quasi melodiosa, con uno di quegli accenti buffi che non si capivano bene da dove saltassero fuori

«Ho finito il turno» risposi, sperando che questo bastasse e che lui non mi rivolgesse mai più la parola. Ovviamente sapevo che l'avrebbe fatto, perché lui era così.

«Fra poco stacco, vuoi che ti accompagno a casa?» Continuò Falco, trotterellandomi dietro e ignorando il fatto che non lo stavo neppure guardando

«No, grazie, prendo la navetta standard»

«Ma la mia è più veloce!».

Certo che la sua era più veloce: il molesto burocrate era ricco sfondato, e non perché era un burocrate, ma per una serie di attività collaterali, nonché per via dei suoi coniugi (sì, due coniugi, perché lui aveva tutto di più di noi poveri, capite?) famosi e importanti e bla bla bla.

«Non voglio disturbare» Dissi fra i denti

«Non disturbi, se te lo propongo io».

Nella sua voce si poteva sentire praticamente il sorriso. Lui sorrideva sempre, come un quadro inquietante. Io non avevo mai capito una cosa: se aveva anche un altro lavoro, se era abbiente da far schifo, se poteva stare a casa sua, perché faceva il burocrate in uno dei posti più infernali per la burocrazia di tutto l'universo? Era masochista? Era pazzo? E soprattutto, perché lo faceva sempre sorridendo, come se fosse la cosa più bella del mondo?

«Signor S-»

«Falco, per favore. Solo Falco»

«Signor Falco»

«Falco».

Lui mi guardava sorridente, quasi speranzoso, per nulla offeso, con il prisma ultra-dimensionale che fluttuava dietro di lui, sulla sinistra, emettendo una soffice luce arcobaleno. Gli avrei tirato un cazzotto sugli incisivi (i due centrali erano anche un po' più grandi degli altri denti, e sembravano urlare "colpiscici!"), ma poi mi avrebbero licenziata. E sua moglie (c'era da avere paura di sua moglie) mi avrebbe spellata viva e bollita nel gianduiotto, probabilmente.

«E se preferissi andare a casa con la navetta standard?» Domandai, sperando che capisse il messaggio.

Ero sicura, sicurissima che non l'avrebbe recepito.

«Oh, d'accordo» Mi disse invece, poi mi salutò con la mano aperta «A domani, Paula»

«A domani, Falco».

Il prisma ultra-dimensionale brillò brevemente di giallo, poi seguì il suo umano nell'allontanarsi da me, sparendo insieme a lui dietro un enorme cartellone pubblicitario ("Alberi! Vieni a scoprire la vita verde della Terra: alcuni hanno dimensioni sorprendenti!").

Questa cosa che Falco mi aveva lasciata in pace, ecco, era una sorpresa. Una sorpresa, minuscola, insignificante, ma a suo modo gradita.

Presi la navetta standard, un mezzo che sembrava un fagiolo bianco fluttuante senza finestre, ma che era programmata per lasciarmi proprio sul terrazzo. Se vi chiedete come mai i miei vicini non si accorgessero che ogni sera tornavo a casa a bordo di un fagiolo bianco fluttuante lungo due metri e mezzo, è perché la navetta standard, una volta lasciato il perimetro dello spazioporto, diventa completamente invisibile.

Quindi è corretto dire che i miei vicini di casa non mi hanno mai vista tornare dal lavoro. O andarci.

Il portellone della navetta si aprì proprio di fronte alla porta e mi permise di scendere senza che nessuno mi vedesse, aprire ed entrare direttamente in casa.

La navetta sarebbe dunque ritornata alla rastrelliera di navette standard, capaci di riconoscere il DNA del lavoratore che saliva a bordo e di portarlo solo ed unicamente all'indirizzo che era stato registrato nel sistema informatico dello spazioporto.

Non si poteva scappare via con una navetta standard e non si poteva convincerla a fare una deviazione: era come un piccione viaggiatore, andava solo a casa. Beh, non alla propria casa, ma ci siamo intesi.

Ero stanchissima e perciò mi diressi immediatamente verso la camera da letto, sperando davvero di non trovarci nessun alieno (era capitato, una volta o due) e di potermi buttare in pace sul materasso, dove avrei aperto le braccia e le gambe a stella e sarei, in maniera del tutto prevedibile, sprofondata in un sonno fatto di buio e sogni che al risveglio non avrei ricordato.

Era da quando avevo venticinque anni che avevo smesso di ricordare i sogni che facevo. A volte, al risveglio, avevo il lampo di un'impressione: un colore, una parola. Ma mentre mi svegliavo scivolava via, ed era da tempo che avevo smesso di cercare di farli restare.

Il materasso era fresco e sentii i muscoli della schiena che si distendevano come una pallina di carta srotolata quando mi ci buttai sopra. Chiusi gli occhi.

Dicono che a venticinque anni si finisce di crescere davvero, che quella è l'età in cui raggiungiamo la maturità fisica. Poi, dopo solo cinque anni, un essere umano inizia molto, molto, molto lentamente ad invecchiare. E diversi decenni dopo, una percentuale esasperante di umani diventa una persona anziana che crede di sapere tutto del mondo e cerca di insegnare a vivere alle nuove generazioni che hanno perso, a loro avviso, il contatto con la realtà, trasmettendo concetti che erano già vecchi vent'anni prima in un infinito ciclo di vecchi che infastidiscono i giovani che infastidiscono i vecchi.

Io non ero vecchia. Non ero neanche arrivata alla mezz'età e tutte le mie informazioni erano aggiornate e corrette, calcolo variabili compreso.

Però c'ero vicina, concettualmente. Ero una persona che credeva di sapere quasi tutto quello che serviva del mondo e anche di più, anche se cercavo di ricordarlo ai miei colleghi ed ai clienti rompiscatole anziché vessare ragazzine e ragazzini, e quando non facevo quello dormivo, mangiavo o andavo a trovare una persona che non mi era amica. Come sarei diventata tra sessant'anni, se già adesso ero sul periglioso, stanco orlo dell'anziana saccenza?

Avrei giocato a carte o a bocce, se avessi avuto qualcuno con cui era divertente giocare a carte o a bocce. E invece non avevo nessuno, quindi se mi trovavo soldi addosso e del tempo libero andavo a trovare l'unica persona che mi vedesse regolarmente al di fuori del lavoro: la mia tatuatrice.

Un'umana gradevole e apparentemente ignara di tutto quello che era il mio pane quotidiano allo spazioporto, che aveva la squisita capacità di farsi gli affari suoi.

La gradevole tatuatrice Daryna non mi chiedeva cosa volessero dire le sei Punte di Ferro che avevo richiesto venissero tracciate rivolte minacciosamente alla mia gola, o cosa significassero le scritte nell'antica lingua quasi-perduta dei Raxèreshi che avevo richiesto come radici del fior-di-plasma che avevo sull'interno dell'avambraccio, poco distante dallo schema del sistema solare a colori.

Non sapevo se lei pensasse che mi ero tatuata un fior di loto fantasy con delle scritte in cirillico sbagliate, o persino se si fosse fatta un'opinione di me. Io chiedevo, lei eseguiva, con maestria che apprezzavo genuinamente, io pagavo e andavo. Tutto con la massima cortesia.

Avevo le braccia e le spalle completamente coperte, stavo finendo lo spazio anche sul petto e sarei passata presto alle gambe.

Mi voltai su un fianco, rannicchiandomi sul letto.

Per un attimo mi sentii sull'orlo di fare una pazzia. Avrei potuto cercare un cerchio di funghi in cui mettere piede durante una notte di luna piena nella campagna irlandese, per farmi rapire dalle fate, o avrei potuto farmi mordere da un licantropo, o gettare lo scompiglio parlando come un robot sul pianeta degli Scala. Ma mi avrebbe deluso, tutto quanto. Tutto quello che varia dalla routine è una rogna se non ti sorprende; sapevo esattamente cosa aspettarmi e non c'era alcun divertimento in questo.

Il mio momento di ribellione scivolò via, come il ricordo di uno dei miei sogni, e senza neanche mettere il pigiama mi lasciai andare al mio ennesimo, buio sonno.


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