2. Io normale, lui speciale

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Il giorno dopo mi sentivo una persona leggermente diversa mentre prendevo la navetta standard.

Mi piacerebbe dire che il pericolo corso solo la sera prima mi avesse donato magicamente una prospettiva diversa sulla vita, facendomi sognare sorprese ed occasioni in ogni nuvola in cielo e briciola di polvere, ma... era più come avvertire le prime avvisaglie di un raffreddore, in qualche modo un raffreddore positivo, però. Una sensazione sfuggente.

Dato che era lontana dallo Spazioporto, la navetta e la sua forma di fagiolo bianco erano invisibili ai miei occhi. Quando la vettura si parcheggiava di fronte al mio terrazzo inviava un messaggio direttamente sul mio cellulare e apriva automaticamente la portiera, emettendo un leggerissimo ma inconfondibile soffio prolungato.

La prima volta ero stata accompagnata da un collega più anziano, pronto a guidarmi, e avevo comunque iniziato a ridacchiare e allungare le mani per trovare a tatto a cosa aggrapparmi; ormai ero così abituata a quella routine che dopo aver assestato due pacche alla superficie liscia della navetta, necessarie ad assicurarmi che fosse veramente lì come al solito, trovai con sicurezza la maniglia e camminai con calma fin dentro la stanzetta affacciata sul vuoto, rivelatasi all'aprirsi del portellone.

Le navette standard erano abbastanza paradossali. Il DRICE e il suo Spazioporto erano solo un organo del ben più grande, e decisamente abbiente, Ministero della Luce, il quale era perfettamente felice di ancorarsi alle vecchie tradizioni ed estetiche; una delle tante diramazioni di questo fatto era il contrasto tra l'esterno delle navette, lisce, bianche, minimali, un aspetto fantascientifico di tutto rispetto, e l'interno delle navette... che era quanto di più simile ad uno sfarzoso salottino rinascimentale fosse possibile in una navetta funzionale, decorato in oro e blu, le poltroncine magnetizzate attaccate al pavimento.

In quella in cui stavo viaggiando c'era ancora una stampa su metallo di un ritratto del re precedente appiccicata a parete. Avrei lasciato a qualcun altro l'incombenza di ricordare che avevamo cambiato Re della Luce da un pezzo.

La mia attenzione era concentrata su ben altro al momento: ero in uno stato d'animo preciso, quello che mio padre aveva chiamato "a caccia di guai". Mentre il team che avevo chiamato si occupava di chiudere il buco rosa a casa mia, io avrei cercato un'avventura tutta mia.

"Che scemenza" Mi dicevo "Ieri hai pensato che diventare un licantropo sarebbe stato noioso ormai e oggi vuoi trovare qualcosa di nuovo da fare in un posto di cui sai tutto e in cui hai lavorato per sette anni?".

Era un'ottima argomentazione.

Non avevo di che controbattere a me stessa, perciò, essendo comunque "a caccia di guai", mi dissi: "Mah". E proseguii per la mia strada.

Scesi dalla navetta (ormai nel perimetro dello Spazioporto e quindi visibile), mi guardai attorno e vidi ogni sorta di faccia, muso o area del corpo analoga familiare. Decisa a non intavolare una conversazione frivola con nessuno, se potevo evitarlo, mi diressi dritta dritta verso la mia postazione di lavoro.

Un alieno che mi arrivava alla vita con tutta la testa (ed era una testa piuttosto voluminosa) si avvicinò a me brandendo con aria minacciosa una fionda. Aveva una forma vagamente umanoide, con un cranio grosso e un'andatura bipede, ma il corpo fittamente coperto di peli e il viso schiacciato, quasi rettile. Indossava una maglietta con scritto "Il tuo logo qui" e dei jeans.

«Perché non hai la divisa?»

«Io sono di troppa piccola di taglia. Tu perché occupeggi la pista?»

«Che vuoi, Raparro?» Gli chiesi, già annoiata

«Come sei entrata nella conoscenza dello mio nominativo?».

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