Election [I libro, Rose Evolu...

By Esterk21

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Primo libro della Rose Evolution Saga 2# nel contest Miglior Libri 2016 Sponsor Links & WIAIta "L... More

Diritti d'autore - Election
Revisione Conclusa!
Capitolo I (R)
Capitolo II (R)
Capitolo III (R)
Capitolo IV (R)
Capitolo V (R)
Capitolo VI (R)
Capitolo VII (R)
Capitolo IX (R)
Capitolo X (R)
Capitolo XI (R)
Capitolo XII (R)
Capitolo XIII (R)
Capitolo XIV (R)
Capitolo XV (R)
Capitolo XVI (R)
Capitolo XVII (R)
Capitolo XVIII (R)
Capitolo XIX (R)
Capitolo XX (R)
Capitolo XXI (R)
Capitolo XXII (R)
Capitolo XXIII (R)
Capitolo XXIV (R)
Capitolo XXV (R)
Capitolo - XXVI (R)
Capitolo XXVII (R)
Capitolo XXVIII (R)
Capitolo XXIX (R)
Capitolo XXX (R)
Capitolo XXXI (R)
Capitolo XXXII (R)
Epilogo | Capitolo XXXIII (R)
Isola di Phērœs
Base Militare Alpha
Special!
LinkS
Genuine Goals

Capitolo VIII (R)

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By Esterk21

Freddo. La percepivo distintamente, la sensazione del metallo gelido a contatto con la pelle, mentre l'acre odore di medicinali si espandeva nelle mie narici.

Il ritmo lento di alcuni passi, così era iniziata. Dopo le scosse serali, ormai immancabili da quando l'Elezione aveva avuto inizio, il presentimento che qualcuno ciondolasse attorno a me non mi aveva abbandonata. Brividi mi percorrevano sulla schiena, smossi dallo sguardo di qualcuno che sperai solo di immaginare. L'oscurità annebbiava la mia vista, le palpebre incapaci di sollevarsi, il corpo disteso e paralizzato. Era come in uno di quegl'incubi terrificanti in cui la sensazione di cadere ti toglieva il fiato. Solo che per me, era l'incapacità di scappare a terrorizzarmi: gli arti intorpiditi, la fredda morsa nella notte che incombeva su di me, alternata alla dormiveglia così surreale.
Certamente, il mio, non somigliava a un sogno. Eppure era così incerto da sembrare tale.

Nulla parve più vero di quella melodica voce che, nel mezzo dei miei incubi, sussurrò, ancora una volta, parole dal significato incerto.

«Ehvena».

Un tono soave impreziosito dalla gentilezza in esso incastonato, come gemme pregiate che risplendevano per me nel buio incerto della notte. Una voce che mai in vita mia avevo avuto il piacere di udire, inventata forse dal mio subconscio, tentava di rasserenarmi. Patetico sotto ogni punto di vista, ma incredibilmente efficace.

«Questi tuoi dubbi...» sussurrò ancora. Un alito caldo e delicato solleticò il mio orecchio sinistro. «Mi rendono inquieto».

• • • • • •

«Candidati» vociò il Comandante Benedikt.

Arricciai il naso, sdegnata. Ci avevano fatti riunire nuovamente nell'hangar Lotus per impartire le ultime direttive riguardo agli allenamenti. Questa volta c'eravamo tutti, anche se molto assonnati. Dopo la nottata travagliata e la voce sussurrante dei miei sogni avevo faticato ad alzarmi dal letto, e quando Asia era piombata nella stanza, tentando di svegliarmi, per poco non si era vista costretta a buttarmi da questo. Mi sentivo spossata, svuotata delle energie come se non avessi affatto dormito. Tra tutti, perlomeno non ero io quella ridotta peggio: molti stavano sonnecchiando ad occhi aperti, questi ancora appiccicati per la stanchezza e l'aria di chi si sarebbe addormentato al suolo da un momento all'altro.
Sarà colpa delle scosse, pensai.

«Oggi inizierete gli allenamenti in vista della Seconda Prova. Per tutto il tempo sarete divisi a seconda classifiche, a cui verranno assegnati degli istruttori che, fino alla fine dell'Elezione, rimarranno immutati. Tutti gli allenamenti saranno uguali, così da favorire il principio dell'equità, alla base della competizione. I risultati delle classifiche saranno valutate singolarmente facendo capo a quanto svolto negli argini della prova, tuttavia la scelta dei canditati che passeranno alla seconda fase, sarà dettata da una valutazione in toto di cosa farete, e come la farete, all'interno di questa struttura».

Si fece da parte, mostrando quattro individui dall'aspetto rude e la postura ingessata. Due uomini e due donne, privi di onorificenze e addobbi superflui. Tutto ciò che portavano con loro era una divisa anonima, autorità e il loro sapere.

William, al mio fianco, stordito ma capace di immagazzinare ed elaborare le informazioni, emise un versaccio in segno di protesta. Di certo non temeva di nascondere il suo odio per la vita militare e tutto ciò che comportava fatica, sforzi e persone dalla fronte corrugata che ti impartivano ordini urlando. Decisamente non era posto per lui. Per me, eccetto che per i vezzi militareschi, era un po' come frequentare le lezioni di cucina: lì le urla, la fatica e il sudore erano all'ordine del giorno. Alla fine dei conti, però, odiavo stare lì quanto lui.

«L'istruttrice Maguerez si occuperà della Quarto Gruppo» spiegò indicandola. Era una donna alta dalla muscolatura marcata, resa più evidente dagli abiti attillati, il viso dai tratti mascolini. «L'istruttore Lumsa è stato assegnato ai Qualificati, mentre l'allenatrice Petris al gruppo degli Effettivi».

L'istruttore Lumsa, uomo rapato sulla sommità del capo ma con una lungo pizzetto nero arricciato che gli scivolava dal mento, era al pari al modello di Latori che avevo incontrato fino a quel giorno; l'istruttrice Petris era forse la più delicata e, rispetto a Maguerez, aveva dei tratti anche più femminile e non di meno intimidatori: i capelli corti, rasati quasi all'osso dalle tempie in giù, la muscolatura presente anche se non accentuata quanto la sua collega, lo sguardo imperturbabile. Accanto a lei, un uomo dall'espressione arcigna, la stazza grande il doppio di Lumsa e una zazzera biondo avorio così chiara da vedersi appena. Tra tutti, il suo atteggiamento indifferente era quello che mi ispirami minor sicurezza.

«All'istruttore Osborne sarà affidato il gruppo dei Positivi. Ne abbia cura». Il Comandante concluse così le presentazioni. «Vi auguro un buon lavoro» aggiunse, facendosi del tutto da parte.

Dei quattro, Osborne fu il primo a farsi avanti.

«Tutti i Positivi mi seguano!» sentenziò, scendendo dal palco. I ragazzi si mossero subito, creando del fermento. Le facce disorientate, gli occhi che scrutavano le tessere, crearono disordine all'interno del gruppo.
Cercai di capire con chi avrei dovuto aver a che fare: eccetto Shawn, Adele e Paterson, uno dei miei compagni di corsi, gli altri mi erano sconosciuti.

«Buona fortuna» disse William, sbadigliando assonnato alle mie spalle. Lui era tra gli Effettivi.

«Vedi di non addormentati» motteggiai io.

Con il bianchissimo sorriso del biondino a incoraggiarmi, mi unii alla coda formatasi al seguito dell'allenatore. Mentre lasciavamo l'hangar per dirigerci, probabilmente, verso un altro stabile esattamente identico, la voce mascolina di Maguerez tuonò. «Rammolliti del Quarto Gruppo, con me!»

Provai pena per loro, ma soprattutto per me. Ero portata per attività che richiedevano insistenza, dedizione e fatica, ma che si fermavano all'utilizzo delle braccia e la cui attrezzatura prevedeva pentole e padelle. Dubitavo che in una base militare gli allenamenti per i candidati si distinguessero da quelli dei cadetti, anche se ci speravo.

Mentre il gruppo degli Effettivi alle nostre spalle, noi ci dirigemmo nel lato opposto, fiancheggiando gli hangar in senso antiorario. Dalla porte basculanti semiaperte potevo distinguere le lettere che formavano i nomi dei vari stabili: H-Silene, H-Gomesia, H-Atlas. Una successione di rimesse colme di militari, piloti e cadetti alle prese con la loro quotidianità. Faticosa, morbosa e sfiancante solo a guardarla, ma ero la vita che si erano scelti. E noi? Costretti a viverla controvoglia per colpa dell'Elezione.

Dopo una lunga e faticosa camminata ci spostammo nell'hangar opposto al Lotus, Stellario, così si chiamava. Al suo interno non trovai nulla di diverso: lo spazio era colmato dai numerosi Scriblet in deposito e, a meno che non avessero intenzione di farci fare una sessione di volo con quei trabiccoli, non c'era abbastanza spazio per allenarci. Era impensabile anche solo spostarsi camminando tra quei bestioni di ferro; uno dei ragazzi, notevolmente più alto, dovette chinare il capo sotto l'ala circolare per risparmiarsi una dolorosa craniata. Gli hangar non ero luoghi adatti agli allenamenti e nessuno si era preso la briga di svuotarlo come per il Lotus: gli allenamenti svolti dai cadetti che io e William avevamo spiato facevano parte del Terzo Settore, residenza dei militari e della polizia in addestramento. Molto distante dalla nostra attuale posizione.

Senza proferir alcunché, Osborne si diresse verso il canale connettivo dell'H-Stellario, e noi con lui. Secondo le spiegazioni di Asia, oltre quel lungo corridoio c'era solo il Quarto Settore, proprietà dei Latori, zona inaccessibile per quel che ne sapevamo. L'istruttore invece avanzava senza esitare e noi facevamo altrettanto a qualche passo di distanza da lui. Quando sbucammo ufficialmente nel territorio dei Latori, l'aspettò della Base Alpha mutò drasticamente.

La forma dei locai e la loro grandezza erano sempre identici, eppure, spogliata dei suoi areo-velivoli e riempita di attrezzatura già in uso dal personale, quella stanza era parte di un altro mondo. Ogni angolo veniva sfruttato, persino le pareti, ricoperte di pioli da scalare e cinghie di sicurezza, e il pavimento guarnito di imbottiture su ogni centimetro. Tutto, eccetto una striscia che conduceva ad un altro corridoio. Una specie di sentiero, un confine tra la zona di allenamento e il resto della base, che Osborne imboccò subito.

Ci spostammo così per molto tempo, passando da una palestra a un'altra senza fermarci. Tutte simili e già impegnate, il silenzio scandito dai gemiti di fatica del personale in addestramento e i nostri passi sempre più svelti. Osborne passeggiava in totale tranquillità, come fosse a casa sua, ma per noi era diverso. Avevamo coperto un'enorme distanza a piedi, passando dal Primo Settore al Quarto attraverso i canali connettivi: corridoi che sembravano infiniti, privi di finestre e illuminati artificialmente. Le bocchette d'aria irradiavano quegli ampi spazi di ossigeno sempre nuovo, ma il continui sbalzi dai canali alle palestre mi stavano facendo venire il mal di testa. Senza accorgercene avevamo rallentato, e per tener testa al nostro istruttore dovemmo accelerare in continuazione.

Un ultimo tragitto canale-palestra ci portò finalmente alla nostra destinazione: dalla grandezza poteva essere un accorpamento di due hangar, provvista di tutti i confort delle altre sale e, oltre ad un nuovo canale, anche di uno spogliatoio.

Osborne si mise al centro della stanza, facendoci cenno di restare lungo la striscia priva dell'imbottitura. «Qui è dove si alleneranno i Positivi, nel cuore del Quarto Settore. I Positivi, ho detto», un ghigno divertito gli spuntò in volto, «non voi. Se vi allenerete ancora qui, con me, dipenderà tutto dalle vostre abilità. Una volta scesi in classifica, finendo nel secondo, terzo, persino quarto gruppo, vi unirete alle attività del vostro nuovo istruttore.

«Giusto a scopo informativo, i vostri compagni verranno allenati nel Terzo Settore. Effettivi e Qualificati nelle palestre chiuse, Quarto Gruppo nella zona aperta e, conoscendo Maguerez, anche nelle aree di atterraggio. Ogni allenatore ha il suo metodo, ma come già spiegato gli esercizi saranno gli stessi».

Avevo il sentore che nessuno dei loro metodi mi sarebbe andato a genio, ma chi ero io per contraddirli? Di quelle cose non sapevo assolutamente nulla.

«Come vi sentire?» chiese poco dopo, incrociando le braccia al petto.

Mi accorsi allora di stare ansimando e con me gli altri. Quel ritmico segnale di stanchezza stava parlando da solo, ma Osborne volle infierire. «Una passeggiata e avete già il fiato corto. Che delusione».

Sciolse le braccia, annuendo e sorridendo, come se stesse lodando la sua stessa sgarbata affermazione. Poi batté i palmi delle mani, lanciando uno schiocco che echeggiò ripetitivo nel silenzio, facendoci scattare tutti sull'attenti. «Ora che avete fatto riscaldamento, voglio tre sessioni da venti flessioni per i ragazzi e tre di addominali per le ragazze. Una volta finito, invertitevi, e continuate a ripetere gli esercizi fino all'ora di pranzo».

Sbuffai rumorosamente e apertamente, coperta dai lamenti del resto del gruppo. Non solo ero stata trattata come un inutile sacco di patate da quando l'Elezione era iniziata, ora dovevo anche fare anche tre sessioni suicide.

Quando tentammo di risalire il gradino per avviarci verso la nostra rovina, l'uomo gridò severo: «Niente scarpe in palestra!»

I pochi già saliti sul bordo scesero con un balzo felino.

«Andate nello spogliatoio, depositate scarpe e ninnoli superflui e tornate qui a eseguire l'esercizio. Gli armadietti sono numerati a seconda della classifica, quindi non potrete sbagliarvi. Se ci metterete più di venti secondi, le sessioni diventeranno quattro. Ora andate!» sbraitò, indicandocelo. Poi batté ancora le mani con veemenza.

In un attimo ci ammasso all'entrata dello spogliatoio, cercando ognuno il proprio armadietto. Erano alti quanto una persona, occupavano tutte le pareti laterali e una zona centrale. Quindici in totale, perfetti per la classifica. Mi precipitai al numero 7, sulla fiancata sinistra, chiuso con una serratura particolare. La esaminai attentamente: aveva la stessa rifinitura zigzagata della porta del dormitorio. Evidentemente la tessera non era la chiave solo della stanza. Estrassi subito la tessera dalla tasca e feci scattare la serratura. Sorrisi soddisfatta, iniziando a curiosare al suo interno.
Era pieno.

«E brava Vèna» bisbigliò Shawn, facendomi sobbalzare.

Come una sciocca mi ero dimenticata che in classifica lui era un posto dopo di me, dunque il suo armadietto era accanto al mio.

«Ora mi parli?» ribattei brusca.

«Non dovrei?» chiese indifferente, armeggiando con il contenuto del suo. Naturalmente aveva capito da un pezzo il trucco e lo aveva già aperto.

«Se non è per spiegarmi cosa ti è successo in questi ultimi nove anni, allora risparmia le parole» controbattei, sempre più al limite. Parlare con lui era così snervante, e almeno quello – cosa di cui avrei fatto volentieri a meno – non era cambiato.

Mi sfilai le scarpe, mettendo in mostra i miei morbidi calzini neri, riponendole sul fondo, dietro i tre omonimi completi militareschi e magliette grigio disperazione che pendevano da delle stampelle. Dovevano essere dei cambi offerti gentilmente dalla Base Alpha, che mai avrei toccato. Nella mia valigia c'erano abbastanza vestiti – comodi come quelli che avevo addosso –, e anche in caso contrario non volevo proprio indossare qualcosa del genere. Con me non avevo portato altro che la tessera, il mio cambio terminò lì.

«Quindi?» insistetti. Shawn fece finta di non aver capito. «Perché ti sei fatto vivo se non hai intenzione di dirmi la verità? Potevi tranquillamente fare finta di non conoscermi fino alla fine dell'Elezione».
Smisi di sussurrare.

«E risparmiarmi questa tua esilarante espressione?» sogghignò divertito.

«Ahh!» esalai, sbattendo la chiusura dell'armadietto. Feci talmente tanto baccano che gli altri non poterono non interessarsi, puntando i loro occhi curiosi su di noi. Shawn si mostrò disinvolto, sfilò le scarpe come se quella conversazione non stesse nemmeno avvenendo.

Per un attimo fui grata ad Adele per la sua schizzinosità e a Paterson che, togliendosi le scarpe, l'aveva stimolata.

«Che puzza di piedi!» piagnucolò lei.

«Odore di uomo, dolcezza» rispose lui, disinvolto.

Adele emise versi di disgusto mentre il ragazzo tentava di avvicinare le scarpe al suo volto. Gli sguardi curiosi passarono in un istante da noi alla scenetta di quei due, guadagnandomi una risposta inconcludente di Shawn.

«Piuttosto di annoiare me, cerca di non stirarti un muscolo durante l'allenamento».
Chiuse l'armadietto e si avviò fuori.

• • • • • •

«Siete delle mammolette!» gridava Osborne implacabile. Il suo vero carattere era venuto fuori dieci minuti dopo aver iniziato l'allenamento. «Piccoli ragazzini che credono di poter diventare i Rappresentanti di Phērœs perché le loro mammine glielo hanno assicurato poco prima di partire. Be', vi dirò una cosa: le vostre mamme sono costrette a mentirvi tutti i giorni».

Ero troppo affaticata per dare retta alle sue grida, ma la sua voce parve insinuarsi nel mio cervello e non voleva davvero saperne di tacere. Mi ero messa il più lontano possibile da Shawn, ero ancora alla metà del primo esercizio e avevo gli addominali in fiamme, stavo sudando e avevo il fiato corto. Per un po' era stata la rabbia nei confronti di pel di carota a darmi forza, ma sbollita quella avevo iniziato a vacillare Perlomeno io qualcosa la stava facendo, le altre ragazze – eccetto Alexa, una dei pochi ad avere un ritmo costante – e alcuni ragazzi più rammolliti di loro, faticavano a compiere un esercizio ogni venti minuti.

«Forza con quelle braccia!» sbraitò a un poveretto, ormai pallido in volto. Le braccia gli tremavano per lo sforzo, ancora poco e sarebbe crollato. Cosa che avvenne solo qualche istante dopo. «E questa me la chiami resistenza? Come ci sei finito in classifica?» proseguì l'istruttore.

Il ragazzo era sdraiato a terra, sfinito. Non aveva l'aria di uno che si sarebbe rialzato molto in fretta, nonostante Osborne continuasse a "incitarlo" a distanza ravvicinata.

«Come avete fatto tutti quanti a finire in questa classifica? Mammolette» asserì nuovamente.

Il mio mal di testa aumentò, insieme al dolore, inizialmente appena accennato, ai muscoli. Il giorno dopo sarebbe stata una fortuna se fossi riuscita ad alzarmi. Sempre che fossi sopravvissuta a quella mattinata e, dopo, all'allenamento pomeridiano.

«E voi avreste superato la prova di resistenza con il punteggio più alto?» continuò il suo monologo, incredulo. «Immagino che quelli della Quarta classifica abbiano uno zero!»

Mi venne da ridere, e dovetti trattenermi per via del dolore soffocante all'addome. Alla fine lo feci sommessamente e tossii, scossa da fitte. Già, era comico come fossi sopravvissuta a tante scosse e avessi guadagnato il settimo posto in una prova di resistenza, mentre invece mi trovavo sul punto di svenire per colpa di un po' di addominali.
Osborne, in fin dei conti, aveva davvero ragione.

• • • • • •

Vedere che anche quelli degli altri gruppi erano messi male tanto quanto noi, mi rincuorò. William era talmente atterrito che per la maggior parte del pasto rimase in silenzio, emettendo di tanto in tanto qualche lamento nel portarsi i bocconi alla bocca.

In generale, tutti i candidati guaivano come cuccioli per una ragione o per un'altra, soprattutto quelli del Quarto Gruppo. La maggioranza era stata affidata all'istruttore Maguerez, che doveva ver urlato più di Osborne visto il volto ancora arrossato. Tutti e quattro si erano messi in fondo alla sala, parlottando ed escogitando nuove torture, mentre i cadetti ridevano di noi.

Grazie ai loro esercizi il vassoio era diventato pesante come un macigno, e le posate sembravano fatte di piombo. Avevo lo stomaco chiuso per la fatica, così tirato e dolorante da permettermi di mandar giù solo qualche piccolo boccone, tanto per far tacere i lamenti dello stomaco. Il cibo era delizioso e io morivo di fame, ma non potevo gustarmelo.
Trovavo tutto così insipido.

«Possibile che persino ingoiare sia faticoso?». Aveva esclamato William.

Era come avere uncini incandescenti che ci stuzzicavano i muscoli, agganciandosi dolorosamente ad essi appena tentavamo di muoverci. Gli istruttori controllavano i fili legati ai ganci e, a vedere i loro sguardi, erano sul punto di tirare ancora più forte.

Quando i Rappresentanti comparirono di nuovo, tentammo tutti di darci un contegno. Non fingemmo di stare bene, risparmiammo solo i mugolii e le lamentele. Ci ronzarono nuovamente intorno, questa volta senza apri bocca. Persino Tremblay si mostrò più serio, senza però risparmiarsi un sorriso e un cenno quando incrociò il mio guardo e quello di Shawn.

Shawn. Quel fastidioso pel di carota. Si era seduto a qualche tavolo di distanza, l'aria vagamente stravolta dagli allenamenti. Mi chiesi come fosse possibile che qualcuno stato su una sedia a rotelle potesse riuscire a muoversi con tanta facilità dopo una mattina del genere. Un po' come pensare di vederlo raggiungere l'ottavo posto in una prova di resistenza, ricordando tutti i suoi problemi di salute. All'epoca era più fragile di una piuma, ora diceva a me di fare attenzione agli strappi muscolari.

• • • • • •

Nell'istante in cui mettemmo nuovamente piede in quell'infernale palestra, certi di dover faticare ancora su quei tappetoni, Osborne decise di sorprenderci.

«Allenamento all'esterno» disse, allentando i perni di grossa porta nascosta. Non che lo fosse realmente, ma per come era stata pensata passava estremamente inosservata, soprattutto con gli sbocchi dei canali e lo spogliatoio.

Uscimmo e ci ritrovammo in un campo asfaltato che si perdeva a vista d'occhio. Strisce rosse delimitavano una "piccola" zona – grande abbastanza da ospitare due scriblet –, seguita da un altro quadrante associato a un colore diverso.

«Correte lungo tutto il perimetro rosso» sentenziò, schioccando i palmi delle mani come suo solito.

Le gambe divennero improvvisamente molli, avevo l'istinto di correre, sì, ma nella direzione opposta.

«Avanti mammolette!» incitò Osborne.

Mi avviai semplicemente per smettere di sentirlo urlare. Dopo il primo lungo giro, cercai un ritmo che fosse a mia misura e continuai a seguire quelle linee rosse, consapevole che nell'istante in cui mi sarei fermata, sarebbe stata per l'ora di cena.

I primi cinque giri non mi pesarono granché, cercai di mantenere il ritmo ritrovato per non collassare come molti dopo appena i primi due.
Tutto pur di non sentire Osborne urlale come un forsennato.

Durante uno dei giri, però, Shawn rallentò di molto. Si era sempre tenuto in testa, insieme a un'altra manciata di candidati, ne dedussi che lo stesse facendo di proposito. Mi si accostò, fingendo di stare rallentando per la stanchezza. A così breve distanza mi fu ancora più chiaro il suo stato: non aveva di certo il fiatone, ed eccetto un velo di sudore che gli bagnava la maglietta, era carico e pronto a continuare per un bel po'.

«In questi nove anni ti sei allenato» constatai. «Eri troppo occupato a mantenere i bicipiti allenati per farmi sapere che stavi bene?» aggiunsi, il tono profondamente risentito.

Non aveva l'aspetto di un palestrato, come invece si poteva notare in William, ma era chiaro che si tenesse in forma. L'accenno scolpito della muscolatura bastava a lasciarmi senza parole; non sembrava neanche lui.

«Sembri distrutta» disse, ignorando le mie parole.

In realtà, per i miei standard, non lo ero poi così tanto. Forse potevo continuare senza fermarmi o rallentare troppo, ancora per due giri.

«Ma mi stai a sentire?» scattai. Deglutii rumorosamente, parlare aumentava il mio affanno, facendomi sembrare ancora più stanca. «E poi, che ti importa?»

«Nulla più di quanto speri».

Rallentai un po' e lui fece altrettanto. Non sapevo cosa volesse di preciso, ma oltre a gongolare di certo voleva mettermi in difficoltà.

«Shawn, non so cosa ti frulli in quella testa da pel di carota, ma della tua nuova vita non mi interessa niente. Voglio solo sapere cosa ti è successo» esclamai tutto d'un fiato. «Me lo merito!»

«Pel di carota?» chiese stupito. «Dopo tutti questi anni hai ancora voglia di chiamarmi così?».
Il tono della sua voce era quasi nostalgico.

«L'ho detto senza volere» mugugnai. Era da quando lo avevo rivisto che lo chiamavo così, non era qualcosa di cui potevo sbarazzarmi facilmente.

«Quindi ogni tanto pensi ancora a me. Anche se al me debole e inerme che non riusciva nemmeno a sedersi sul suo letto senza bisogno che lo aiutassero».

A quelle parole sobbalzai. Fu uno shock, abbastanza improvviso da perdere il ritmo della corsa e farmi inciampare sui miei stessi piedi. Sul punto di accasciarmi a terra, Shawn mi afferrò per un braccio, mentre con l'altro mi cingeva la vita. In pochi istanti mi ritrovai raggomitolata sotto le sue braccia sudaticce, priva di respiro e totalmente impietrita.
Quelle braccia così forti e muscolose, non erano le sue.

«Cerca di fare attenzione, Vèna» bisbigliò, mentre mi aiutava a tirarmi su.

Inspirai profondamente, cercando di tenere a bada le lacrime che minacciavano di sgorgare come un fiume in piena. Lo spinsi via con uno strattone, così debole da far ridere persino un bambino, figuriamoci spostarlo. Tuttavia, vedendomi così patetica e sull'orlo di una crisi di pianto, fece qualche passo indietro.

Raccolsi i cocci della mia dignità, ormai in frantumi, e scaricai qualche peso. «Si, ho pensato a te. Ho pensato a te dal giorno in cui mi sono trasferita. Ho passato anni a pensarti, morto! E tu non hai avuto neanche la decenza di mandarmi una lettera per avvisarmi che stavi bene, che eri vivo!» gridai mettendomi una mano sulla fronte. Le lacrime iniziarono a scendere e non potei più fermarle. «Ti credevo morto, santo cielo. Stavi malissimo e io ti credevo morto! Ho passato mesi ad immaginarti da solo nella tua stanza mentre mi maledicevi per averti lasciato solo, e ora tu sei qui davanti a me, mi tratti come un'estranea e ostenti le tue capacità come fossero normali. Io mi sono sentita in colpa per anni, e tu non hai neanche la decenza di dirmi come sei guarito?». Stavo gridando con la voce rauca e quel poco fiato rimastomi a disposizione.

Quelle cose avrei dovute dirgliele il giorno stesso in cui lo avevo riconosciuto, in cui si era presentato a me come il nuovo Shawn O'belion.

Shawn mi fissava, per la prima volta preso alla sprovvista. Nei suoi occhi leggevo un turbinio di confusione, sentimenti che andavano ben oltre la rabbia repressa che mi aveva mostrato.

Alcuni candidati ci passarono accanto, osservandoci per qualche istante. Dovevo essere ridicola: così sfinita e in lacrime, mentre aspettavo una risposta che già in partenza sapevo di non ricevere.

«Vèna» disse dopo un lungo silenzio, ritrovando la parola. «Torna a casa, non ce la farai con questi ritmi».

Non so come, ma tutta la rabbia che avevo in corpo in quell'istante decise di trasformarsi in energia. Ingoiai gli insulti che stavo per sputargli addosso, limitandomi a poche parole intrise di risentimento.

«Sta a vedere O'belion, chi dei due non cela farà con questi ritmi!» sibilai, riprendendo la corsa senza più voltarmi. Non lo guardai, neppure quando mi superò, reclamando la sua posizione tra i primi in corsa.

Le gambe erano ancora di piombo ma il cuore, mille volte più leggero, riusciva a sostenerle. La mente impegnata su quella macchia rossa in lontananza non badava più alla corsa.
Ora aveva un bersaglio da raggiungere.

• • • • •

Dopo la cena, superata a fatica, piombai sul letto, pensando e ripensando a tutte le cose che erano successe. Non avevo sonno e l'idea di addormentarmi non mi aveva minimamente sfiorata: per quello c'erano le scosse, e almeno quella sera le trovai utili. Ero completamente scombussolata, sia dentro che fuori, fisicamente e mentalmente. Ripensando alla scenata fatta a Shawn, mi sarei voluta sotterrare. Oltre che liberatorio, il dar voce a tutti quei pensieri repressi aveva turbato pel di carota – probabilmente non avrei mai smesso di chiamarlo così – e la soddisfazione superava la vergogna per il quadretto patetico a cui alcuni candidati avevano assistito.

Questo bizzarro miscuglio di rabbia e compiacimento non era passato inosservato allo sguardo provato di William, il quale moriva dalla voglia di sapere cosa fosse successo. Il suo sesto senso da ficcanaso era insopportabile, ma se da un lato aveva tentato di impicciarsi dei fatti di miei con ogni mezzo, dall'altro aveva alleviato la mia stanchezza e messo a tacere le voci nella mia testa, più che lecite, sdrammatizzando e scherzando sugli allenamenti e gli istruttori. Pur di farmi parlare era arrivato al punto di usarsi come modello per le sue battute, una cosa stupida con un fondo di dolcezza che tenni bene a mente. Ma neppure tutto il suo impegno era riuscito a impedirmi di intercettare le occhiate che Shawn mi aveva lanciato quella sera, anche se ignorate. Il mio orgoglio era stato già abbastanza bersagliato quel giorno.

Quando l'ora del coprifuoco si avvicinò, ero immersa in un mare di ricordi in cui a stento riuscivo a galleggiare. C'era un vortice che tentava di trascinarmi sempre più in basso, fino ad affogarmi, e io davvero non riuscivo a riemergere; oppure non ero ancora pronta a farlo.

La scossa arrivò in orario, senza però spegnere l'interruttore. Era come un lieve pizzicore che si protraeva nelle zona del collo e dintorni. Mi intorpidiva, ma non al punto da paralizzarmi; la sensazione era la stessa di quando ti si addormenta un arto, solo su scala decisamente più vasta. Poi le distinsi: una serie di scosse crescenti.
Le contai nell'istante in cui me ne accorsi.

1

2

3

Mi sentivo stordita e il controllo del mio corpo mi era sfuggito di mano. Se non mi fossi già trovata sul letto, probabilmente non mi sarei retta in piedi.

4

Le palpebre si fecero pesanti, il respiro affannoso mentre tentavo di capire cosa stesse succedendo.

5

Il buio mi inghiottì in una fredda morsa, catene di silenzio strette intorno al corpo, che premevano e stridevano mute rendendomi inerme. Paralizzata. Isolata. Una sensazione che, pin piano, stava diventando spaventosamente familiare.
In quella gabbia onirica, una sottile linea tra immaginazione e realtà, dove le paure che da sveglia tacevano si dimenavano nella loro fossa, quella voce divenne un faro di speranza. Un tepore rassicurante a cui mi aggrappai disperata, che mi permise di riemergere da quel doloroso oceano.
E iniziava tutto con un nome sussurrato dolcemente.

«Ehvena».

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