Capitolo XI (R)

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Non riuscii a capacitarmi di ciò che stava accadendo. L'unica cosa a cui potevo pensare era: "Perché io?". Ma non era quella la domanda giusta da porsi. "Perché lo sta facendo?". Quello poteva essere un giusto quesito, anche se poco mi importava. Ciò che veramente meritava attenzione era come mai in una Base Militare, piena di soldati e Latori, nessuno fosse ancora passato di lì.

Era impossibile che tutti si trovassero alla mensa, così distante da dove Paterson mi aveva immobilizzata. No, era proprio ridicolo. Per quanto sperassi nell'arrivo di qualcuno, anche di William, preoccupato per non avermi vista arrivare, dovetti presto fare i conti con la realtà: ero sola.

«Dimmi subito cosa vi ha detto» sibilò infuriato, scuotendomi fino a farmi battere ancora contro lo stipite.

«Non ha detto niente» dissi. Venne fuori tutto il risentimento covato per lui da quando mi aveva accusata la prima volta. Ero soddisfatta di come il mio tono lo avesse scalfino, alimentando il suo malumore, anche se fu comunque la paura prevalere, lasciando che il resto delle parole uscissero con più moderazione. «Tremblay non ha mai parlato delle prove» aggiunsi invano.

«Non ti credo!» vociò.

Aveva la mascella, le vene del collo ingrossate per la rabbia. La stretta introno alle spalle si fece paralizzante, il dolore cauterizzato nei punti in cui le dita premevano meschine. Avevo il suo alito addosso, ansimante come una bestia pronta ad attaccare.

«Sei una bugiarda, vipera e calunniatrice» disse. «Lo sei sempre stata. Credi di essere superiore perché a scuola gli insegnanti ti elogiano durante le lezioni. Io lo so cosa hai fatto: li hai raggirati fin dal primo giorno, ecco perché non hanno mai apprezzato il mio lavoro! "Fai come Johns!". "Guarda la sua tecnica". "Fattelo spiegare dalla nostra Ehvena"» disse imitando le voci dei nostri insegnanti. Prese a ridere, sembrava uscito di senno; una risata grottesca e inquietante che non sarei mai riuscita a dimenticare.

Tentai di divincolarmi, spostandomi sulla sinistra dove la presa era più molle. Paterson reagì all'istante: mi compresse di nuovo al muro, assicurando di tenermi ferma afferrandomi per il collo. La stretta non era affatto soffocante, ma avevo il terrore che ci provasse davvero. Bastava quello a togliermi il respiro, proprio come se lo stesse facendo.

«Sta succedendo la stessa cosa con il Rappresentante. Lo hai soggiogato con quella storia del piatto. Era davvero una scusa patetica!» rise ancora, più forte e più contorto. «Ma non so come, ci è cascato. Nello stesso modo ti sarai fatta dire cosa ci sarà nelle prossime prove per arrivare sempre prima. Ora voglio che tu lo dica a me».

«Non ho fatto niente. Non abbiamo mai parlato delle prove. Ho visto il rappresentante solo una volta, per sbaglio. Si è avvicinato lui...» tentai di spiegare.

Fu inutile provare a ragionare con lui. Era certo di ciò che diceva, niente lo avrebbe dissuaso. Prese il mio tentativo come un insulto alla sua intelligenza, ed ebbe uno scatto d'ira tremendo: mi afferrò con entrambe le mani all'altezza delle spalle e mi scaraventò a terra. Caddi di fianco, il dolore per la botta sopportabile. Indietreggiai subito, cercando di rimettermi in piedi per scappare a gambe levate, ma lui mi riafferrò e ributtò contro la porta di una stanza. Colpii la serratura con la schiena; quel colpo non fu così sopportabile.

«Voglio saperlo!» grugnì. Io ripetei le stesse cose ancora una volta, senza risultati. «Sei davvero così egoista?» chiese, quasi sul punto di riafferrarmi per la gola.

«Lasciami!» gridai senza risparmi di voce. «Ho detto lasciami! Non so niente!»

Mi dimenai, finché non arrivai a colpirlo. Ero come un ramoscello che tentava di abbattere un tronco. Anche con gli allenamenti di Osborne, restavo comunque debole. Quando gli assestai un colpo casuale che lo sorprese al punto di lasciarmi andare, corsi lungo il corridoio. Potevo percepirlo spostarsi alle mie spalle, come un'ombra spaventosa sul punto di inghiottirne: mi agguantò la maglietta, tirandomi indietro, tappandomi la bocca con una mano e spingendomi verso il muro con l'altra. Stava per rimettermi all'angolo, quando riuscii a calciare con violenza la porta più vicina.
Ingenuamente, speravo che ci fosse qualcuno. Le porte in metallo erano spesse, e nonostante avessi gridato nessuno si era ancora fatto vivo.

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