Capitolo 1: Il Destino

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CAPITOLO 1: IL DESTINO

Prefettura di Gunma, 1829 d.C - Il sole splende sulle verdi montagne del Villaggio di Takayama. I falchi volano indisturbati nel cielo terso della Regione dei sette Laghi, e il fiume Takaragawa sgorga dalle sfavillanti sorgenti sul Monte Hotaka.

Haru si allena. Lo fa ogni giorno, dal primo canto del gallo al mattino, all'ultimo della civetta quando cala la notte. «È il tuo Destino», così gli aveva detto suo padre in quel giorno di pioggia di quattordici anni fa. Il giorno in cui, insieme a un pezzo del proprio cuore, lo aveva affidato agli emissari del Sacro .

Il Jindai Zakura, l'imponente albero di ciliegio leggendario che l'ha visto crescere, è ormai il suo più fidato compagno di allenamento.

I petali rosati scivolano sul suo corpo sudato, modellato nel tempo dalle immani fatiche cui l'aveva sottoposto, i rami ne odono il respiro affannoso ma mai domo e lo abbracciano nel loro amichevole tepore, le ridenti farfalle dalle ali arcobaleno ascoltano il vento tagliato dai suoi pugni ritmati.

Quattordici anni sono trascorsi da quel momento. Quattordici anni passati ad allenarsi perseguendo un unico obbiettivo. È giunto per Haru il tempo di andare e lasciarsi alle spalle i monaci Shaolin che l'hanno accudito e cresciuto. È giunto il tempo di diventare finalmente ciò per cui è nato: il più grande guerriero del Giappone.

***

«Haru!» la voce del vecchio Maestro lo raggiunse nel pieno della meditazione. Cadde a terra rovinosamente.

«Ti sei lasciato distrarre di nuovo. Quante volte devo dirtelo ancora?» tuonò il Maestro Shin con sguardo severo.

«Ma Sensei...» cercò di giustificarsi il ragazzo.

«Niente scuse. Se non imparerai ad estraniarti dal mondo esterno, il tuo viaggio sarà finito ancor prima di esser cominciato».

Era sempre stato così, da quando Haru aveva memoria. Il tempo e le molte battaglie combattute non avevano minimamente intaccato lo spirito e gli occhi del Maestro. Occhi vivi, profondi, custodi di una verità ancestrale, infossati nel viso segnato come la corteccia di un albero secolare. Ogni ruga esprimeva saggezza, testimone perenne della profonda conoscenza dei misteri del cosmo che quell'uomo possedeva. Solo il suo corpo mostrava i primi segni degli anni, pronto forse a passare il testimone a quel giovane apprendista testardo.

Rialzandosi – Haru era rimasto appeso a testa in giù all'albero menando fendenti all'aria per oltre un'ora –, i ricordi cominciano a scorrergli davanti agli occhi. Presto, lo sapeva, avrebbe dovuto rinunciarvi.

Era arrivato al Tempio molto piccolo, aveva circa 3 anni. Terzo figlio di una famiglia di contadini, il padre era stato costretto ad affidarlo ai Monaci in una delle poche visite che essi compivano in città.

Questo gli aveva raccontato il vecchio Sensei: lui era ovviamente troppo giovane per poterselo ricordare. Da quel momento, il Monastero, con la sua vita scandita dall'allenamento e dalla preghiera, era diventato la sua vita, e i Monaci la sua famiglia.

Lo avevano accolto e lo avevano cresciuto, unico piccolo apprendista tra vecchi saggi.

Come si sa, la vita di un Monaco Shaolin è votata al sacrificio e al raggiungimento della perfezione nell'arte del combattimento.

Una vita cui il giovane Haru, gioviale, curioso... e iperattivo, aveva faticato ad abituarsi.

Fortunatamente Sensei Shin l'aveva preso con sé e l'aveva cresciuto come fosse suo figlio.

«Un giorno capirai l'importanza della concentrazione, Haru-Shōnen.» Il Maestro usava quell'appellativo, abbassando il capo sconsolato, ogni qualvolta il ragazzo faceva qualcosa che lo deludeva. «Avvicinarci alla Natura e ai nostri Dei ci permette di avvicinarci a noi stessi. Ciò è possibile solo attraverso la meditazione e la forgiatura perfetta del nostro corpo. Mente e corpo devono saper affrontare le difficoltà che la vita ci pone davanti. Sei un predestinato Haru, e presto o tardi il destino chiederà il proprio compenso. Devi essere pronto» lo rimproverò con una nota di amarezza.

Haru si alzò, si spolverò i pantaloni e si incamminò mesto verso il vecchio Maestro.

«Ha ragione Sensei, Le chiedo perdono», disse abbassando lo sguardo con finto fare colpevole dietro cui si celava in realtà un sorriso.

«Ora vai a riposare. Domani dovrai sostenere la tua prova finale».

***

Il più grande guerriero del Giappone. Il suo Destino. Parole grandi, troppo. Parole che Haru aveva sempre considerato poco più di un ritornello che il Maestro Shin gli ripeteva costantemente per spingerlo a dare sempre il meglio e per tenere a bada la sua naturale predisposizione a creare guai. Si ritrovò a domandarsi per l'ennesima volta se le parole del saggio Maestro avessero un fondo di verità. Il giorno seguente avrebbe dovuto scoprirlo nel modo peggiore.

Il sole era ormai tramontato a ovest. Haru decise di lasciarsi il Tempio alle spalle e di salire la vicina collina di Shogunzuka per trovare un po' di sollievo dai pensieri che affollavano la sua giovane mente.

Si narrava che proprio lì, agli albori del tempo, il leggendario filosofo Kanmu fosse giunto in pellegrinaggio e, illuminato da ciò che vi aveva scorto, avesse deciso di fondare la prima Scuola di Pensiero dell'intero Giappone.

I suoi insegnamenti erano stati raccolti dai suoi primi discepoli nel misterioso Libro Sacro Kojiki e poi seppelliti sotto l'albero di cedro più alto che tuttora dominava la sommità della collina.

Haru giunse al giardino di Kirishima e iniziò la dolce salita che in breve tempo l'avrebbe portato alla cima del colle. Quel luogo aveva sempre esercitato in lui un fascino magnetico e, con esso, il potere di calmare il tumulto del suo cuore.

Il ragazzo si lasciò cullare dal dolce profumo delle azalee, dalle eleganti gardenie e dalle sempreverdi andromeda giapponesi mentre attraversava il piccolo stagno posto al centro del giardino grazie alla lunga serie di passerelle di legno che collegavano gli isolotti di pietra lì presenti.

Si fermò poi per qualche secondo ad ammirare le statue dei due che aprivano la salita. I loro volti leonini trasmettevano severità, ed erano simbolo dell'origine e della fine del tutto. Si addentrò poi nell'infinita schiera di tōrō di pietra che illuminavano il percorso - si narrava che le luci di quelle lampade custodissero lo spirito degli antenati – e , giunto in cima senza neanche essersene accorto tanto era assorto nei suoi pensieri, si fermò sulle rive del laghetto artificiale al cui centro sorgeva Ōnamuji, il leggendario albero di cedro.

I saggi gli avevano raccontato che la roccia su cui poggiava l'albero fosse il dorso di un drago sopito. Il ragazzo attraversò il ponte di pietra semicircolare che collegava la sponda del lago al masso centrale e si sedette sotto le fronde dell'albero, osservando le stelle e cercandovi le risposte.

Dopo poco si assopì, dimentico delle sue tribolazioni. Non si accorse della volpe che, candida e silenziosa come la neve, lo osservava celata alla sua vista.

 Non si accorse della volpe che, candida e silenziosa come la neve, lo osservava celata alla sua vista

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Le sette vie del dragoKde žijí příběhy. Začni objevovat