4. The edge of Paradise

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"On the edge of Paradise, poison burning in my veins ..."

Ariel è sdraiato scompostamente su un grosso cuscino ricamato, ci sta sprofondando dentro e tutto intorno a lui volute di fumo bianco gli solleticano il viso.
Quando era iniziato tutto questo?
In un barlume di lucidità non richiesta, fa la sua apparizione questa domanda, infrangendo per un attimo le barriere del limbo inaccessibile che si è creato.
Quando era iniziato tutto questo?
Non riesce a ricordarsi il perché sia lì, abbandonato a se stesso in una fumeria d'oppio nella periferia di Pechino.
A malapena ricorda qualche particolare dei viaggi precedenti, nelle Americhe e in India. Ma del suo soggiorno attuale in Cina riesce a ricordare quasi nulla.
I suoi obiettivi ... quali obiettivi? Quale scopo aveva il suo viaggio che si è ora interrotto in questo limbo di fumo e incertezze?
Chiude gli occhi, cerca di respirare più lentamente, ignorando le allucinazioni pronte ad assalirlo come ogni giorno da qualche settimana ... o forse da qualche mese? Ha perso il conto dei giorni, non riesce più a riallacciarsi ai fili del tempo, fluttua in una dimensione parallela vuota eppure così accogliente, ma terrificante.
Che cosa stava cercando? Perché è proprio a Pechino? Da dove era partito?
Per un attimo il panico gli afferra lo stomaco, congelando ogni suo movimento.
Il suo nome.
La sua terra natia.
...
Nella sua mente il vuoto lo minaccia con le sue fauci fameliche e gli occhi iniettati di sangue e ghiaccio.
Brividi gli attraversano ripetutamente la schiena, scuotendo il suo corpo catalettico nel tentativo di svegliarlo dal suo coma allucinogeno.
I suoi respiri si fanno affannosi, il panico lo stringe in una morsa ferrea per non lasciarlo andare, i brividi salgono e scendono lungo i suoi arti, stuzzicando ogni nervo del suo corpo.
È senza fiato, terrorizzato.
Non sa più chi sia, non sa il perché delle poche azioni che ricorda e ha paura dell'oblio incombente su di lui.
Vorrebbe gridare aiuto, ma spalanca la bocca senza emettere suono, mentre le voci innumerevoli nella sua testa strepitano disperate.
Che sia giunta la fine?
Che senso avrebbe andare avanti senza ricordare più nulla di sé?
Procedere come un cieco nel buio dei propri pensieri lo porterebbe da qualche parte?
È paura quella che serpeggia nel suo cuore, otturandogli le arterie fino a farle scoppiare?
Inutili i tentativi di calmarsi, il suo cuore schizza sangue come fosse impazzito, impregnando il pavimento su cui l'alchimista è scivolato dopo lunghi contorcimenti spasmodici.
È la fine, è la fine, è la fine ...
Gli occhi vuoti fissano il soffitto, nascosto da una nebbia densa di mostri pronti ad affilare i loro artigli sul suo corpo.
Niente. Non vede più niente, non sente più niente, nessun rumore, né caldo né freddo.
Vuoto.
Silenzio.
Desolazione.
Pace?
Che sia finalmente giunta, la sua sventurata pace? L'ha fatto attendere a lungo, la maledetta.
Un sorriso incerto si fa strada sul suo viso stanco, le labbra pallide e secche si piegano incuranti delle ferite che si procurano con questo gesto.
Sta per abbandonarsi alla pace.
Quanto ha aspettato ... ma perché lo ha aspettato? Il non ricordo dei suoi trascorsi non gli permette di godere appieno di questo momento di quasi beatitudine in Terra.
«Ariel.»
È il suo nome, dunque. Si sente quasi sollevato per la riscoperta. Ma chi lo ha chiamato?
Si tira su, incurante del lago di sangue in cui ha sguazzato semi incosciente fino a quel momento.
Quel nome sembra tirare i fili di tutta la sua storia, seppur a pezzi e bocconi.
Ariel.
Alchimista e studioso.
Dal regno di Baviera.
Cercava ... cercava, sì ... cosa cercava? Troppi pezzi mancano per rispondere ... Troppi buchi da riempire.
Ah, la testa ... fa male, quanto fa male ...
Piena e vuota, piena delle cose sbagliate e vuota di quelle importanti.
«Ariel.»
Una voce lo chiama di nuovo. Si volta.
«Eccomi.» risponde, con la voce impastata e la lingua secca.
Un altro brivido lo assale per abbandonarlo in fretta.
Che sia la voce di Dio? Impossibile, Dio non è mai stato dalla sua parte.
Forse la voce del Diavolo? Che la sua anima sia dovuta a lui?
Cosa importa ormai?
Conosce il suo nome, ma non il suo scopo, che se la prenda pure la sua anima incompleta. Non ci si potrà divertire, ma pazienza, non gli importa.
Non riesce a vedere il suo interlocutore, che pure sente seduto al suo fianco.
Le sue labbra si muovono, chiedono "chi sei" al fantasma vicino e non ottengono risposta.
«Apri gli occhi, Ariel.» insiste la voce con dolcezza.
"Ma sono aperti." vorrebbe rispondere l'alchimista, ma non ne è così sicuro, quindi li chiude e li riapre, sbattendo le palpebre più volte.
Vede un uomo, splendente di luce dorata. Ha lunghi capelli d'oro, adagiati su una spalla. Gli occhi brillanti, due Soli, lo fissano con una strana malizia. Sorride con le sue labbra perfette.
«E voi ... sareste ...?» chiede Ariel a fatica, la sua bocca secca preferirebbe non articolare parola.
L'uomo, sempre che sia un uomo, gli sorride più apertamente, risultando ancora più bello di quanto già non sia.
Il cuore di Ariel ha un mancamento: ha intravisto qualcosa nel viso di costui, come un rapido flash. Ha intravisto il volto di una donna. Chi era?
La sua mente fa fatica a collegare i pezzi, non riesce a ricordare, eppure il suo cuore ha reagito in un modo decisamente rivelatore: la ama, ma non ne ricorda il nome.
«Sono Mephisto. Puoi darmi del tu, amico mio.» risponde l'uomo che uomo non è. Le ali sulla sua schiena, seppur chiuse, ne sono la prova.
«Sei venuto a portarmi via?» domanda Ariel, in un misto di speranza e paura.
La malizia nel suo sorriso si accentua, mentre le sue labbra si muovono lentamente, scandendo con voce suadente le parole "Non ancora".
Ariel sospira, sollevato e sconfortato.
«Che cosa ... vuoi da me?»
L'angelo sorride un'ultima volta, prima di smaterializzarsi lentamente davanti agli occhi dell'alchimista, scomparendo nel fumo bianco.
«Ne parleremo presto, Ariel. Non è questo il momento.»
La voce dell'angelo echeggia nella mente di Ariel a lungo, prima di disperdersi miseramente, insieme al volto di donna che per un attimo gli era parso di aver riconosciuto.
Deve svegliarsi da questo sogno, svegliarsi da questo torpore invalidante.
Il fumo va pian piano scemando insieme ai suoi mostri, lasciandogli intravedere di nuovo la stanzetta di legno tappezzata di stoffe della fumeria.
Gli occhi si riabituano alla luce fioca delle candele consumate poggiate sui tavolini bassi.
Non c'è sangue per terra, né uomini dorati né mostri dagli occhi insanguinati.
Solo altri uomini, collassati su cuscini ricamati d'oro come il suo e intenti a fumare e perdersi in mondi inesplorabili.
I perché senza risposta della sua vita tornavano a galla dalle oscure profondità della sua mente.
Cercava la Verità.
Era venuto in Cina per conoscerla e, per arrivarvi, aveva conosciuto anche l'occulto e i misteri più oscuri.
Per avvicinarsi ancora di qualche passo, si era rifugiato nell'oppio, sperando che gli aprisse le vie della conoscenza, ma senza risultato.
Era passato un altro anno.
Tre anni.
Aveva lasciato la Baviera da tre anni.
Americhe, India, Cina.
E ora? Cosa aveva trovato?
Ariel esce barcollante dal locale, i proprietari che non lo degnano di uno sguardo, talmente sono abituati allo spettacolo dei loro clienti.
L'aria fresca della notte gli frusta il viso senza pietà appena mette piede fuori dal locale.
Ha ancora addosso i brividi di prima, ma continua a camminare con passo sempre più deciso verso la sua casa.
Deve partire di nuovo, deve tornare in Europa, ma non ancora a casa.
Ha bisogno di rimettere ordine nella sua vita e nella sua testa. Deve ricollegare tutti i punti, ricucire gli strappi, riannodare i fili sciolti.
La sua ricerca non è ancora finita.

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