Capitolo 2

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Capitolo 2.

Sonje aveva ragione: un ritardo mi avrebbe fatta apparire debole, un elemento da scartare ancora prima che tutto avesse inizio.

E poi il tempo di un'anteProgramma non aveva lo stesso valore di quello del medico che mi aspettava. Chiunque fosse associato al Programma veniva trattato con riguardo, anche da chi aveva ormai il Programma alle spalle.

Nessuno si lasciava davvero il Programma alle spalle, sussurravano a scuola, perché quello che vi accadeva al suo interno rimaneva indelebile nei ricordi.

Posai lo sguardo sulle mie mani. Tremavano, con l'incarnato olivastro che spiccava sul colore vivace della gonna.

Sonje allungò una mano verso la mia e la strinse, senza aggiungere altro. La guardai in viso, mi sorrise con quel sorriso che era solo suo, che profumava di primavera e di mistica superiorità. Profumava di primavera perché ogni volta sembrava rompere un tetro presente per portare il ricordo, o forse la speranza di qualcosa di migliore. Tante volte avevo provato a imitare quel sorriso, davanti allo specchio. Senza successo ovviamente.

Lasciai in tutta fretta la sua mano, prima che qualcuno potesse vederci e mi diressi a passi decisi verso la porta dalla quale era scappata la ragazza in lacrime. Non mi voltai a cercare un incoraggiamento: erano semplici esami dopotutto, perché mai avrei dovuto essere agitata?

Perché precedono qualcosa di molto peggiore.

Scacciai quel pensiero e mi addentrai nella stanza.

Era un inferno candido: bianco brillante che sembrava non avere confini se non la porta dalla quale ero entrata. Iniziavo a capire perché quella ragazza fosse in lacrime: nessuno poteva sopravvivere troppo a lungo in un mondo senza colore. Non era forse questo che ci era stato insegnato?

La stanza era deserta: non c'era nessun dottore ad attendermi, né un lettino né una qualunque delle apparecchiature che avrebbero dovuto essere lì a fare mostra di sé.

Il rumore dei miei passi era tutto ciò che riuscivo ad udire.

Quando mi ero immaginata le prigioni dei cittadini prima dell'Esclusione, ne era uscito qualcosa di spaventosamente simile.

Che scherzo era mai quello?

«C'è qualcuno?» sussurrai, continuando a guardarmi attorno. La mia voce tuonò in quell'assenza di rumore. Assenza di qualsiasi cosa.

Inaspettatamente qualcosa cambiò. «Prego si accomodi al centro della stanza» gracchiò una voce femminile che doveva aver dato quelle stesse istruzioni ai partecipanti al Programma di prima generazione.

Mi guardai attorno: mi sarei volentieri accomodata al centro se avessi avuto una mezza idea di quale fosse il perimetro di quell'inferno, ma non c'era nulla, neppure un'ombra, che ne delimitasse i confini. Passeggiai per qualche metro fino a quando la voce non mi interruppe con un: «La ringrazio». Si figuri, per così poco.

«Deponga i suoi abiti e le sue calzature al suo fianco e attenda ulteriori istruzioni» disse poco dopo.

Nessuno chiamava più gli stivali in carbonio "calzature" da quelli che dovevano essere secoli.

Mi spogliai, strato dopo strato, finché non mi rimasero che i capelli. Difficile che potessi sbarazzarmi anche di quelli. Il pavimento si aprì e i miei vestiti sparirono.

Rimasi nuda ad aspettare una voce che non arrivò.

All'improvviso il pavimento si aprì come se fosse liquido e un'enorme lastra in vetro si sollevò fino a superare i due metri. Rimase sospesa a qualche millimetro da terra, mentre il pavimento si richiudeva come due lembi di pelle.

Crisalide - VINCITORE WATTYS 2020Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora