Quattro passi in più verso di te

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E stavo bene quando stavo con te


Curiosità su di me: in realtà, avevo la patente.
Per quanto mi muovessi il 90% delle volte con i mezzi, avevo superato quel maledetto esame qualche tempo prima.
Il problema era che entrambi i miei genitori andavano al lavoro in auto, e, avendone solo due, ovviamente mi rimanevano pochissime occasioni per sfruttare la mia guida. Comunque, papà quella sera si era fatto dare un passaggio, così sgattaiolai in camera dai miei per rubare le chiavi dal portaoggetti sopra al comodino. Ovviamente, gli mandai un messaggio, oppure si sarebbe preso un infarto se fosse rientrato e non avesse trovato la macchina parcheggiata al suo posto. Forse si sarebbe arrabbiato, o forse no, ma meglio affrontare un problema alla volta.

Mentre impostavo il navigatore tramite la posizione inviatami da Diego, mi chiesi perché avessero questo impellente bisogno di me. Insomma, chissà quante volte si erano ubriacati insieme, ma quella sera, improvvisamente, solo Luce poteva rimettere a posto la drunk version di Tancredi.
E poi, io non ne ero capace, non ero tagliata per il ruolo della mammina.

La localizzazione mi fece finire in una vietta sperduta vicino allʼAlcatraz, come diavolo ci eravano arrivati fino a lì restava un mistero. Ma poi, perché?
Non cʼera praticamente nulla, in quella zona.
Forse dovevo smetterla di pormi domande e rassegnarmi al fatto che fossero irrecuperabili, tutti e quattro. Accostai, capendo che da lì in poi, sarebbe stato meglio cercarli a piedi, o, più semplicente aprire la portiera e sentire se ci fossero voci e seguire quelle.

Già, appunto.

“Non voglio vomitare, non mi piace vomitare! E non voglio le tue manacce in bocca, hai capito? Vai via! Andate tutti via!”
 
Affrettai il passo, strizzando gli occhi per vedere al buio.

“Mi soffocate, mi manca lʼaria!”

Non lo vedevo, perchè, effettivamente lo stavano accerchiando. Da un lato era anche comprensibile che si sentisse soffocato. Comunque, non riuscivo nemmeno a dinguerli, forse giusto Diego perché era un gigante.

Presi un respiro, affondando le mani nelle tasche della felpa. “Tancredi?”

Silenzio. Si zittirono tutti, voltandosi.
Lessi sul volto di Lele unʼespressione nel mezzo tra il felice di vedermi e il rassegnato, perché sapeva come avevo passato gli ultimi giorni, ed era ovvio che non gli andasse a genio il fatto che fossi andata lì.
Gian avevo lo sguardo perso, non doveva essere molto sobrio nemmeno lui, mentre Diego quasi rideva. Sto un poʼ storto. Giusto un poʼ.

“Alla fine, stai qua.” Lele sembrava essere quello messo meglio, tra tutti. Mi venne in contro e mi dette un bacio sulla fronte, dopodiché io annuii.

“Sto qua.”

Avanzai ancora un poʼ, salutando con un gesto anche gli altri due, fino ad arrivare a un paio di metri da lui. Era vestito tutto di nero, col cappuccio della felpa alzato, che quasi lo faceva scomparire, nel buio della notte. Sembrava reggersi in piedi per miracolo, e i suoi piccoli occhietti erano arrossati.

“Allora, il gatto ti ha mangiato la lingua, adesso?” Gli chiesi, mostrando una sicurezza inesistente. La realtà era che non avevo la più pallida idea di cosa cazzo fare. “Possiamo andare a casa, o hai intenzione di picchiare anche me?”

“Non ti toccherei mai nemmeno con un fiore.”

“Commovente.” Alzai un sopracciglio. Era proprio andato. “Non mʼincanti, con queste cazzate. Andiamo a casa, cerca di non vomitarmi in macchina. Anzi, non farlo assolutamente, oppure ti prendo a calci, altro che fiore.”

“N-n-aspetta.” Biascicò, venendomi in contro. Io, dʼistinto, indietreggiai. “Cosa? Hai paura di me, adesso?”

Ovviamente, no. Però, per qualche motivo, avevo avuto lʼimpulso di allontanarmi, per proteggermi. Non a livello fisico, ma... mentale? Non mi andava di averlo troppo vicino. Ma, ovviamente, testarda e orgogliosa comʼero, piuttosto che ammetterlo preferivo scottarmi. Così, feci quattro passi contati nella sua direzione.

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