Tu non sai la vita che mi ha fatto

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Lauro inizia ad ordinare con cattiveria e nervoso, agitando le braccia e guardando attorno tutti iniziare ad preoccuparsi e a muoversi, per ubbidirgli:

"Oh il mio fratellino è tornato il bastardello che ho cresciuto?"

Domanda, divertito, Federico, ammirandolo da un angolo con una canna tra le dita, mentre il biondo gli riserva uno sguardo freddo, riprendendo a dare indicazioni, con pugni sui tavoli e voce alta per far paura e farsi rispettare:

"Le tue preoccupazioni sono infondate, vedi anche te: Lauro è sempre la solita bestia che hai cresciuto da anni.
Non è una ragazza a rovinare ciò che è diventato."

Commenta Daniele, guardando Federico che non leva gli occhi di dosso dal fratello:

"Ci ho impiegato anni a renderlo così, non permetterò a nessuna di farmelo tornare un deboluccio, piagnone e lamentoso."

"Non lo è mai stato in fin dei conti, lo sai bene."

Gli fa notare il maggiore, mentre Federico scrolla le spalle:

"Non voglio rischiare che ci sia un'involuzione, da lui voglio solo evoluzioni."

"Vuoi ciò che non sei mai riuscito a diventare?"

Federico lo fulmina con lo sguardo, per poi alzarsi, dopo avergli riservato non pochi insulti, e uscire dal palazzone senza venire considerato da Lauro, non accortosi di nulla che continua con le direttive.

Daniele analizza un attimo quest'ultimo, ricordandolo ben più giovane, innocente e debole davanti ad ogni evento. Se lo ricorda chiaramente il Lauro frignone di cui parlava prima Federico. Non lo potevi toccare e piangeva, cercando il supporto della mamma.

Poi era cambiato qualcosa in lui - e Daniele era convinto c'entrasse il fratello - e quel caratterino infantile aveva abbandonato completamente un Lauro maturo e consapevole che, alla giovane età di tredici anni, già decideva come un uomo, freddo e calcolatore, capitano di adolescenti più grandi di lui.

Quante botte si era preso quando tentava di farsi valere (a volte riuscendoci). Ma mai voleva che qualcuno lo aiutasse, doveva imparare da solo. Preferiva venire sbattuto con la faccia al muro e trascinato per qualche centimetro, con il rischio di rovinare irreversibilmente la vista, piuttosto che chiamare il fratello.
Imparava a sopportare il dolore, le umiliazioni, le prese in giro e le botte da solo, nessuno doveva mai intervenire.
Si sentiva un peso quando chiamava qualcuno in suo soccorso o qualcuno interveniva:

"Non dovevi intervenire!
Quante volte te lo devo dire
Federico? Io non ho bisogno
di nessuno!"

Lo sentiva ancora nelle orecchie a urlare contro Federico in piedi davanti a loro, mentre lui, paziente, gli medicava un braccio grondante di sangue e schifo:

"Che cazzo ti vai a mettere
contro dei ventenni? Sei
un demente. Deficiente."

Gli urlava continuamente Federico.

A quindici anni faceva paura quel biondino: gli occhi vuoti, ma rabbiosi lo distinguevano da tutti. Federico era incontrollabile, Lauro era molto peggio di lui.
E volavano schiaffi e botte da parte del più grande, contro il piccolo che incassava, ma non dimenticava e negli anni era diventato la sua fotocopia, solo più violenta e nervosa e non c'era modo di farlo tornare indietro, ormai era intrattabile, libero da ogni redine e limite.

Federico aveva imparato ad accettarlo, non sentendosi responsabile di questa drammatica vita in cui gravava il biondo:

"Quindi Dan?"

Di Nuovo Maggio | Achille LauroWaar verhalen tot leven komen. Ontdek het nu