Capitolo 9: Un universo più grande

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Le piaceva la schiuma delle onde. Le piaceva la sensazione dell'acqua di mare sul volto, quando si infrangeva, nebulizzava sugli scogli e la raggiungeva discreta. La teneva ancorata alla realtà mentre all'orizzonte lampi di luce anticipavano l'incubo.

"Voglio restare qui." Disse a Ryo, incurante della brezza che le gelava l'acqua sul volto: anche quella era una zavorra che le impediva di essere trascinata in pensieri sgradevoli. "Non voglio tornare a casa e aspettare la fine."

"Qui non siamo al riparo dalla fine..." le ricordò e si trattenne dall'aggiungere un "anzi" pericoloso, a sottolineare quanto fossero scoperti e indifesi lì, su quella spiaggia, a guardare quelle esplosioni all'orizzonte, verso... dove? La Sardegna? Cosa stava accadendo laggiù?

"Qui è un limbo." Gli spiegò. "Mi piace il limbo, perché è fuori dal tempo. Solo fuori dal tempo siamo salvi."

Non era d'accordo, non poteva esserlo, perché non vedeva salvezza. Né lì, né a Roma, né altrove. La guerra del ventunesimo secolo non ammette ripari né rifugi e la fine è fine.

"Su, torniamo." La incoraggiò con dolcezza, protettivo e comprensivo. "Restiamo insieme e aspettiamo."

"Cosa?" Gli disse, voltandosi a guardarlo, il volto lucido dall'umido del mare e lacrime. "Aspettiamo cosa? Che tutto sia finito? O una salvezza che non arriverà?" Non l'aveva mai vista così negativa e pessimista, lei che si era sempre rifugiata nei sogni e nella speranza. Forse anche per gli ottimisti arriva un punto di non ritorno.

"Aspettiamo di capire." Perché quello era l'aspetto che più lo distruggeva: il non capire. Lui doveva sempre capire per sapere come agire e in quella situazione gli mancavano le informazioni necessarie a compiere le sue scelte.

"Capire cosa? Perché ci autodistruggiamo?" Fece un ghigno sconsolato. "Perché siamo fatti sbagliati."

***

Gocce d'acqua sul volto. Fredde più del mondo morente che aveva affrontato negli ultimi giorni. Fredde ma dense, non come era abituato a sentire l'acqua di mare. Più dense della lacrima che scorreva guardando Epona che si muoveva agitato sulla banchina: un addio doloroso ma necessario, nella speranza che fosse solo un arrivederci.

"Un universo più grande..." mormorò tra sé Ryo, poi si voltò a guardare l'uomo che li aveva soccorsi. "Era una citazione?"

L'uomo rise. "Pensavo l'avessi capito!" Scosse la testa. "Scusami, mi piace citare film, sono un appassionato." Si strinse nelle spalle. "O almeno lo ero... prima di arrivare qua."

"Qua dove? Cos'è qua?" La domanda delle domande, quella da cui partire.

"Eravate al Lido di Venezia." Indicò in avanti con un cenno del capo. "Laggiù c'è Venezia, dove stiamo andando."

"Non è quel..."

"Lo so. Non è quello che mi hai chiesto." Lo interruppe serio. "Ma non ho una risposta precisa alla tua domanda." Si voltò verso Tara. "Non credo l'abbia nemmeno lei che salta da due anni."

"Salta?"

"Dov'eri prima di arrivare qua?"

"Napoli, credo. Poi una città inglese, credo Londra..."
"Credo. Credo. Due nella stessa risposta. L'incertezza è la chiave di tutto nella nostra situazione."

Rimasero in silenzio. Ryo si guardò intorno, alla banchina ed Epona che si muoveva lungo di essa per cercare di seguirli, alla schiuma che carezzava densa lo scavo, a Tara che guidava l'imbarcazione, sicura e fiera con i capelli al vento. A Attivo e Medio che se ne stavano sul fondo della barca, tranquilli e in pace apparente. Forse a loro quello sviluppo della situazione stava bene, dopo una settimana di smarrimento, ma a Ryo no.

"Dammi una certezza, qualcosa da cui partire." Chiese all'uomo che se ne stava in piedi al suo fianco.

"A breve saremo nella sede veneziana della Luna Rossa. Passeremo la notte e al mattino sarete ancora a Venezia. È una prima certezza che posso darti. Poi parleremo, vi spiegheremo quel poco che sappiamo e quel che possiamo fare. E poi salterete ancora."

Lo guardò fisso negli occhi, con calma rassicurante. "Perché non abbiamo molto altro da fare, siamo la gente della Luna Rossa."

La barca si infilò stanca in un canale spento e grigio, ammantato del non colore del crepuscolo di quel mondo fiacco e freddo. Aveva attraversato la laguna, muovendosi lenta e impacciata, pesante e affannata, aveva percorso svogliata un canale dopo l'altro mentre il sole basso ne spingeva l'ombra sull'acqua che si muoveva densa al suo passaggio. Aveva ondeggiato lenta, mentre avanzava a fatica lungo questo ennesimo stretto canale, e si accostò infine a una porta che dava sulla laguna, un antro cupo e minaccioso, e vi si fermò con placida calma.

"Siamo arrivati." Annunciò a sorpresa Ryo, fissando un cerchio rosso segnato sullo stipite della porta di legno chiaro, in netto contrasto con l'acqua scura dalla quale emergeva.

"Siamo arrivati." Confermò l'uomo che li aveva raccolti al Lido, mentre legava una fune all'ormeggio arrugginito che spezzava la continuità della soglia in marmo. "Benvenuti alla sede della Luna Rossa."
"Qualunque cosa sia..." Mormorò Medio alzandosi in piedi con la gambe larghe per trovare l'equilibrio. "Su, scendete che questa cosa mi dà i brividi."

Uno dopo l'altro passarono dalla barca al marmo, barcollando con le braccia larghe e il cuore in gola, e si infilarono nel buio dell'edificio. Fecero qualche passo e attesero una luce, un segnale o istruzioni che non tardarono ad arrivare.

"Seguiteci," esortò Tara emergendo dal buio: aveva acceso una candela che emanava una pallida luce fredda come il mondo che li circondava e le dipingeva strisce d'ombra sul viso dai lineamenti duri. "Qui siete al sicuro, approfitterete per riposare. Domani parleremo."

Si mossero in fila indiana, pacati e timorosi, avvolti da un buio che minacciava piuttosto che proteggere. La fioca luce della candela era un occhio di bue troppo fugace per poter costruire un'immagine mentale di quel luogo che li intimoriva relegandoli nel silenzio, tanto che persino Attivo teneva il passo del gruppo senza proferire parola o gesticolare fuori controllo.

Ryo aveva preso il comando del gruppo e seguiva Tara, con alle spalle i due compagni e l'altro uomo che li aveva tratti in salvo. Si muoveva guardandosi intorno, per cercare di cogliere qualche dettaglio di quel luogo, per sovrapporlo alle immagini inquietanti con cui la sua mente sopperiva al vuoto di informazioni. Ne colse poche e poco rassicuranti, mentre passavano da un ambiente all'altro in un labirinto di oscurità: una sagoma grossa, imponente, curva su un tavolone grezzo dall'alto della sua stazza e dello scarso supporto di una sedia piccola in modo ridicolo; un'altra esile, probabilmente una donna, raggomitolata su un materasso buttato a terra, tremante, con gli occhi sbarrati fissi su di loro; un mobile cadente, con gli scaffali sbiechi e colmi di vecchi libri segnati dal tempo; il pavimento, umido e scheggiato, le cui mattonelle sentiva muoversi a ogni passo.

Si fermarono infine, davanti a una porta che la luce della candela faceva apparire di legno chiaro e scrostato. "Starete qui." Disse Tara, aprendo la porta e facendo loro spazio per passare. A sorpresa, i cardini non cigolarono come nei migliori horror.

Entrarono, uno dopo l'altro e si voltarono verso i loro accompagnatori e la luce che ne tratteggiava le sagome sulla soglia. "Dormiamo." Disse Ryo, speranzoso più che accondiscendente. La stanchezza che provava era seconda solo alla sua preoccupazione.

"A domani." Disse l'uomo mentre Tara chiudeva la porta, lasciandoli al buio. Rimasero immobili, aspettando che gli occhi si abituassero a quel buio, ma poi fu Attivo a riprendere la propria vivacità e muoversi.

"Io di questi non mi fido, non mi fido manco per il cazzo!" Esclamò a bassa voce tastando la porta. "Non c'è serratura, ma questa fottuta porta la devo chiudere."

Ryo annuì e ne appoggiò l'intento, scovò una sedia in un angolo e gliela portò cercando di non far rumore.

Il ragazzo la prese in silenzio e la ficcò sotto la maniglia. "Entrate! Entrate, se ci riuscite, cazzo!"

E si prepararono ad aspettare l'alba. 

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