Capitolo ventiquattro

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Dopo due anni dall'ultima volta che ci eravamo guardati negli occhi, io e mia madre,ritrovati di nuovo uno di fronte all'altra,eravamo comprensibilmente stupiti e disorientati.

Lei era poco diversa dall'ultima volta e
sempre bella.
Lo so, avrei dovuto dare ragione alla parte più malsana di me: avrei dovuto odiarla reciprocamente ai suoi sentimenti,ma non ci riuscivo.
Avevo gli stessi suoi occhi e i capelli color mogano, ci assomigliavamo troppo per dimenticarci di essere madre e figlio.

In quel momento, la sua bocca fine e dalle labbra un po' screpolate si aprì e rimase bloccata in quella posizione. Non trovava le parole, oppure non voleva parlare.
"Ciao mamma" dissi mordendomi il labbro,con voce tentennante.
Mi aveva proibito di chiamarla in quel modo l'ultima volta.
"E-Ethan" sussurró di rimando lei.
Sentire la sua voce mi smosse un sentimento di infantile impotenza dentro. Volevo un suo abbraccio. Dato di slancio e con forza,la solita stretta decisa di mamma, quella che io adoravo.
Una voce fece capolino nell'ingresso della casa:"Morgan? Chi è?"
Mio padre.
Era per forza lui. Si riconosceva da come pronunciava "Morgan", riconoscevo il tono in cui lo faceva, piuttosto.
Mia madre si appoggió alla porta e mio padre mi vide: le guance rosse, il collo leggermente bagnato di sudore dopo il viaggio in auto, i capelli sparati in aria.
Vide Noah e la sua mano ancora sul mio fianco, il calore che mi procurava e la calma che si era impadronita di nuovo di me. Penso che vide anche i miei due migliori amici che,più in là, si affrettavano ad avvicinarsi un po'.

"Ethan?" mi riconobbe e lo guardai,notando come anche lui in due anni era cambiato solo in piccoli particolari.
Annuii.
"Ethan" ripetè ma era un affermazione, un qualcosa che confermasse la mia presenza. Ebbi quasi l'istinto di alzare la mano e dire "eccomi".
Mia madre si giró verso di lui con pura confusione in volto e con un solo sguardo decisero un qualcosa che io invece non compresi.
"Entra" disse mio padre.
Mi girai a guardare Noah che scrutava dubbioso i miei genitori e con estrema calma incastrai le nostre mani in una presa che voleva essere confortevole non solo per lui ma anche per me. Ero un ammasso di carne e paura. Fili rossi e blu.
"Entrate" si coresse allora mio padre guardando le nostre mani unite e lentamente seguimmo i miei genitori.
Renè mi fece segno di aspettare fuori e,anche se li volevo con me, mi bloccarono solo con gli occhi dal pensarlo.
Dentro, respirai il profumo di casa,modificato dal cambiamento di abitazione e dagli anni.
Ci sedemmo tutti e quattro nel soggiorno, su due divani blu scuro, noi di fronte ai miei genitori.

"Come stai?" disse mia madre, con evidente difficoltà.
Iniziare una conversazione con il tuo unico figlio che non vedi da due anni dovrebbe avere tante argomentazioni. Eppure, se il figlio lo hai cacciato tu personalmente di casa credo non esistano argomentazioni giuste. Tanto vale dire "come stai" e fargli credere che seriamente ti interessi.
"Sto bene" risposi.
"Come sapevi dove trovarci?" chiese mio padre d'improvviso.
"Un mio amico ha fatto qualche ricerca"
"Per conto tuo?" Insistette mia madre
"Si,certo"
"Come puoi tornare..." inizió mio padre.
Noah mi strinse la mano e respirai a fatica.

Ecco il momento, la paura di essere rifiutato un'altra volta, che si stava avverando.
"Dopo tutto quello che ti abbiamo fatto" finì mia madre e restai ammutolito.

"Voi...non mi odiate?"
Abbassarono entrambi lo sguardo.
"Speravamo che..."
"Cosa" insistetti iniziando ad innervosirmi. Ero sempre stato il
passivo della situazione, che faceva parlare gli altri e aspettava.
Si, ho sempre aspettato. Ma ora volevo questa risposta ed entrambi me l'avrebbero data. Potevamo essere una famiglia?
Mi bastava un si o un no. Avevo Noah adesso,anche se non sapevo per quanto, e potevo dire che stavo provando a non avere rimpianti.
Avevo capito che se qualcuno avesse voluto uscire dalla mia vita, avrebbe potuto farlo, non avrei fermato nessuno. Potevo perdere tutti.
Tutti tranne Noah.

Lui non avrebbe mai dovuto andarsene, per nessuna ragione, perchè lui era la ragione di tutto, un senso ritrovato alla mia vita e speravo, io alla sua.
Anche se mi aveva detto ti amo, mi aveva dimostrato affetto con baci e abbracci, si era messo maggiormente contro la sua famiglia per me, ancora non sapevo i suoi veri sentimenti. Era una forma di incredulità che io, ragazzo invisibile al mondo, avessi vinto l'amore.
Un amore iniziato con uno sguardo.
Chissá cosa aveva pensato quando mi aveva visto per la prima volta. Doveva essere importante, senó che senso avrebbe avuto poi difendermi da Derek?

Ritornai al presente quando i miei genitori iniziarono a spiegare.
"Speravamo che saresti comparso fuori da quella porta un giorno, per chiederti perdono"confessò mio padre.
"E in due anni non potevate venire voi da me o era troppo difficile? Aspettavate il mio ritorno demoralizzato, pentito? Sono uscito da quella casa per come sono e sono entrato in questa per come ancora sono. E non cambierò mai"
"Non intendevamo questo. Ethan facci spiegare"
"Si, spiegami, Morgan"
"Ti abbiamo lasciato diciasettenne e dopo abbiamo cambiato all'istante casa... eravamo furiosi, stupidi.. stupidi perchè sarai sempre nostro figlio, in qualunque tua scelta. Ma lo abbiamo capito troppo tardi, quando era il tuo diciottesimo compleanno e noi non eravamo con te, avevamo perso le tue tracce."
"Inoltre eravamo convinti che ci odiassi, che ormai avevamo perso la nostra occasione di accettarti. E lo abbiamo fatto Ethan, subito dopo la tua insistente mancanza ci siamo pentiti anche a proposito di quei pensieri" continuò mio padre.
"E io dovrei credere che non vi faccia ancora schifo? Dovrei vivere sempre con il dubbio di essere o no, abbastanza?"
Mia madre si alzò :"Tesoro per noi sei abbastanza, sei anche troppo per noi. Non chiediamo perdono ma pena. Pena che siamo consapevoli di fare" gli tremava la voce.
"Non mi fate pena" sospirai.
"E tu non ci fai schifo. Ti amiamo figliolo con tutto il cuore" si alzò mio padre.
Noah mi accarezzò la mano e alla fine decisi di alzarmi anche io, circondato subito dopo dalle braccia di mia madre. Ricambiai la stretta tanto mancata e nascosi la faccia nell'incavo del suo collo.
La sentii singhiozzare e lì scoppiai anche io ma in silenzio. Alzai lo sguardo su mio padre, un uomo serio e preciso, mio padre. Venne verso di noi e ci abbracciò in silenzio. Non piangeva mai, ma gli vidi in faccia la vera voglia di farlo.

Il mio incubo si era disintegrato in mille pezzi. Un macigno che mi portavo nel cuore si era finalmente levato di mezzo, lasciandomi con la sicurezza dell'amore di una famiglia. Certo non avremmo mai avuto lo stesso rapporto di prima e, affinchè dimenticassi quella maledetta giornata di 2 anni fa e le brevi notti in strada, doveva passare altro tempo.
Ci staccammo e sorrisi distrutto. Mi girai verso Noah, rimasto immobile ma sollevato.
"E lui chi è?" sorrise mia madre. Arrosii.
"Il mio ragazzo, Noah.
Noah, loro sono i miei genitori"
"Piacere di conoscerti giovanotto" sorrise mio padre.
"Piacere mio signor Carson" rispose lui e gli sentii uno strano motivetto nella voce. Forse era così abituato a ripetere a machinetta quelle prime tre parole nelle serate organizzate dai suoi genitori.
Forse invece non si fidava ancora dei miei genitori, persone che per tanto tempo gli avevo descritto come portatori di tutte le sofferenze nella mia vita. I dubbi e le insicurezze che Noah tuttora cercava di curare, erano originati dalla paura di un secondo rifiuto.
"Chiamami Scott" rispose allora mio padre e si sorrisero dandosi la mano. Cosa che poi fece anche mia madre.

Facemmo entrare Alex e Renè e si presentarono. Iniziai a raccontare come gli avevo conosciuti e, mentre mia madre mi accarezzava la spalla, sorridevo.
Mi chiesero di raccontarmi tutti i due anni passati e lo feci. Raccontai di Noah anche, tralasciando tante cose ma facendo capire il significato fondamentale: io lo amavo, più di qualsiasi altra cosa.

Alla fine si fece brutto tempo, arrivarono le nuvole portatrici di un grosso temporale e decidemmo di andarcene prima che scoppiasse. Mi promisero di venirmi a trovare, di sentirci tutti i giorni. Infatti non volevano che andassi via:
"Almeno restate per cena" ma convenemmo tutti per andarcene. Abbracciai entrambi e gli altri gli strinsero di nuovo a turno la mano.

Risaltai in macchina e mi buttai a capofitto sul petto di Noah per stringerlo.
"Zuccherino così mi uccidi" ridacchiò trattenendo il fiato.
"Grazie"
"Per cosa?"
"Per sapere quando è il momento di stringermi la mano"sorrisi e lo baciai.

Ricambiò e poi mi accoccolò di più a lui tanto che finii per addormentarmi. Dormii con i ricordi dell'ansia che mi aveva torturato per ore, ora sgretolata al vento e nascosta nel dipartimento "dubbi e rimpianti sotto zero" del mio cervello.

Rain of feelings  -Tematica GayDove le storie prendono vita. Scoprilo ora