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~ Arcade ~

Fissai l'insegna con i neon accesi chiedendomi da quando in Downtown ci fosse ancora un Arcade aperto a quell'ora del mattino.
Erano anni che non andavo in una sala giochi, probabilmente dagli anni dell'adolescenza. Negli ultimi sette anni avevo usato tutte le mie forze e risorse per crearmi una vita in grado di riuscire a compiacere i miei genitori.
Il rapporto tre me e i miei non era mai stato dei migliori: erano quei genitori che organizzavano la vita del figlio nei più minimi dettagli dalla nascita alla morte. Quando a diciotto anni avevo deciso di studiare economia invece di medicina, come volevano loro, erano andati ad un passo dal diseredarmi.
Si erano contenuti solo dopo aver visto i miei voti: nessuno al di sotto dell'eccellente.
Quando finalmente avevo trovato lavoro alle Wayne Enterprises e un ragazzo approvato da entrambi, ero riuscita in qualche modo a sotterrare il loro odio per me.
Non che in quel momento importasse qualcosa: mio padre mi aveva già promesso di diseredarmi appena il comune gli avesse dato tutti i moduli necessari.
In poco tempo sarei rimasta completamente senza famiglia.
«Un arcade?» Chiesi a Jason senza distogliere lo sguardo dalle lettere luminose. Mi ero scordata quanto fossero belle.
Probabilmente il mio tono fu frainteso poiché Jason andò nel panico.
«Oh, no! Non dirmi che sei una di quelle donne con l'idea per cui solo i ragazzi possono essere nerd». Disse con tono disgustato.
In un attimo mi voltai verso di lui con uno sguardo di fuoco, il mio orgoglio geek ferito nel profondo.
«Se mi accusi di certe cose un'altra volta ti prendo a joystick nei denti». Lo minacciai e potei giurare di averlo visto fare un passo indietro, come spaventato dalla mia veemenza.
«Scusa», disse lui con una risata tirata, «ho frainteso il tuo tono».
Ruotai gli occhi al cielo.
«Ero persa nei miei pensieri», spiegai, «sembra essere passato un secolo dall'ultima volta in cui sono entrata in una sala giochi».
Il volto di Jason si aprì in un sorriso a trentadue denti. Una parte di me si sciolse a quella visione, un'altra, quella più razionale e terra-terra, si mise sull'attenti; non fidandosi per nulla dell'espressione dell'uomo.
«Allora è meglio sbrigarsi!» Esclamò prima di prendermi per il polso e partire a razzo verso la porta dello stabile. Dietro di lui inciampai nei miei stessi piedi più di due volte.
«Jason!» Protestai. «Calmati un attimo, deficiente! Se mi trascini ancora un po' mi ritrovo faccia a terra! Un tuo passo sono dieci miei!» Gli feci notare ma fu come se lui non mi avesse sentito.
In quel momento odiai all'inverosimile i venti centimetri in più dell'uomo.
«No, no». Scosse la testa lui senza fermarsi o rallentare. «Abbiamo un secolo da recuperare. Prima si inizia, meglio è!»
«Ugh...» Mi lamentai.
Non volevo entrare nella sala giochi trascinata da Jason, soprattutto non volevo rischiare il collo perché il moro non si rendeva conto quanto una sua falcata fosse il triplo della mia. Guardando la schiena muscolosa dell'uomo decisi che non c'erano altre soluzioni.
Presi tutto lo slancio possibile e balzai addosso all'emergumeno di fronte a me. Jason perse un attimo l'equilibrio, vacillando in avanti, ma io ero un koala testardo. In pochi attimi le mie braccia furono strette attorno al suo collo e le mie gambe erano una tenaglia attorno alla sua vita.
Appena Jason riprese l'equilibrio e si fermò per comprendere cosa stessi facendo, il mio cervello impazzì. Il tatto e l'olfatto avevano preso il sopravvento sugli altri sensi e mi stavano per far sanguinare il naso come capitava al Genio delle Tartarughe.
Il corpo di Jason non era solo muscoloso, era compatto e tonico. Ad ogni suo movimento sentivo i suoi muscoli tendersi e contrarsi meglio di una fisarmonica; la mia mente non potè che chiedersi cosa quell'uomo mi avrebbe potuto fare in un letto con tutto quella forza.
Con la testa nascosta nell'incavo del suo collo non potei non respirare il suo profumo. Sapeva di sigarette, polvere da sparo - se vivevi a Gotham tutta la tua vita imparavi quale odore avesse la polvere da sparo e la sapevi ben distinguere da quella di un esplosivo - e lavanda. Era una combinazione strana ma elegante, soprattutto eccitante.
«Cosa stai facendo?» Mi chiese lui e notai come si fosse irrigidito comprendendo cosa avevo fatto. Era arrabbiato? Dovevo scendere?
«Non volevo entrare in un arcade trascinata da te», gli risposi decidendo di rimanere dov'ero, « e visto come non mi stavi ascoltando ho deciso di fare di testa mia».
Jason si rilassò e la sua risata fece iniziare una cucaracha al mio basso ventre mentre sentii le guance diventare scarlatte. Fortunatamente l'uomo non poteva vedermi.
«Sei fantastica, te l'hanno mai detto?» Mi chiese tornando a camminare verso l'arcade. Le sue mane callose e delicate allo stesso tempo, si appoggiarono sotto le mie cosce per sostenermi e quasi lasciai andare un gemito di piacere quando un suo pollice iniziò a creare dei piccoli cerchi sulla mia pelle.
Prima di rispondere inghiottì a vuoto, la gola d'un tratto totalmente secca.
«Non quanto mi piacerebbe». Confessai.
A pochi passi dalle porte però mi venne in mente un'altra cosa importante.
«Emh.. Jason?»
«Sì, Laila».
«Non ho soldi». Pigolai tristemente, ricordandomi di aver speso tutto per la colazione.
«Non ti preoccupare», mi disse lui, «sarà la carta del mio vecchio a offrirci questo giro».
Corrugai la fronte a quelle parole.
«Non andate d'accordo e ti ha offerto una carta di credito?» Chiesi, totalmente non convinta.
«Diciamo più che l'ho presa in prestito dal suo portafoglio». Ridacchiò lui e le mie sopracciglia volarono all'attaccatura dei capelli.
«Gliel'hai rubata?!»
«Presa in prestito», corresse lui. «Ne ha sei nel portafoglio, Laila, non se ne accorgerà. Tranquilla».
A quelle parole credetti di svenire.
Sei carte di credito? Chi cazzo era il padre di Jason? Bruce Wayne?

12 Hours Of Unkown || A Jason Todd's Fan Fiction #wattys2019Where stories live. Discover now