Capitolo 3: Rosso come il sangue

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Sedevo all'ombra di un salice piangente, un albero alto e maestoso, di fronte ad un laghetto verde. Quello era il panorama più bello su cui si fossero mai posati i miei occhi.

Al mio fianco mia madre, giovane e bella, intrecciava fili d'erba e fiori a mo' di corona che, una volta terminata, poggiò sulla mia testa di bambina.

Quello era un po' il nostro luogo. L'unico spazio incontaminato. Pareva che la sua bellezza neutralizzasse le ormai debolissime radiazioni, la desolazione.

Sorrisi alla donna, la quale mi restituì una smorfia divertita vedendomi con a dosso quella corona troppo grande che mi era scivolata fino al collo.

Mi alzai, felice, per toccare l'acqua con la punta dei piedi. Appena mi avvicinai questa si tinse di rosso scarlatto. Urlai il nome di mia madre ma non riuscii a muovermi, qualcosa mi teneva bloccata. Girai il volto il più possibile ed eccola lì. Stesa in terra. Un foro proprio in mezzo agli occhi privi di espressione. Urlai.

Mi svegliai all'improvviso in un bagno di sudore. Le membra intorpidite e appiccicate alle lenzuola umide mi dolevano. Era solo un sogno.

Quando aprii gli occhi la prima cosa che notai fu una luce antisettica bianca illuminare la stanza vuota nella quale mi trovavo; li socchiusi infastidita.

I ricordi mi tornarono alla mente come un vortice inarrestabile: l'attacco, Bastian, mia madre, lo sparo. Rabbrividii e respinsi indietro un conato di vomito. Ero nella loro base, nella tana del lupo.

Indossavo abiti puliti, simili a quelli di un paziente d'ospedale, in più, notai, alla caviglia sinistra portavo legato un braccialetto dall'aspetto tecnologico. Per quanta forza cercassi di usare per staccarlo non ci riuscii. Un tubicino di plastica trasparente mi legava ad una flebo. Senza pensarci due volte staccai l'ago dal braccio stringendo i denti per l'acuta fitta di dolore.

Quando i miei piedi nudi toccarono il pavimento freddo, un brivido mi percorse il corpo partendo dalla spina dorsale.

Sono nel loro QG, stai calma e pensa.

Ogni angolo della stanza era vuoto, pulito e bianco. Non sembrava esserci alcuna una uscita o entrata. Mi chiesi se ci fossero delle telecamere e se sì, se Bastian e i suoi si stessero divertendo a guardami vagare a vuoto come un topo in trappola.

Morirò qui. No. Stai calma!

Dopo alcuni minuti – o ore, per quanto mi rendessi conto dello scorrere del tempo – avevo contato tutte le mattonelle, osservato tutti i minimi difetti delle pareti, non trovai nessun punto debole. Nessuna crepa, niente di niente.

Iniziavo a spazientirmi davvero, preda di tutte quelle che sarebbero potute divertare la mia atroce fine.

Forse mi avevano messo dentro una di quelle navicelle chiuse che si usavano per le esecuzioni. Lanciata chissà dove nelle più vaste profondità dello spazio per fare compagnia a tutti i Dimenticati il cui sangue lorda le mani di ogni membro dell'Alleanza.

– Aprite! – urlai battendo il pugno su una delle pareti a caso fino ad arrossarmi le nocche.

Qualche istante dopo, dove prima avrei giurato ci fosse stata solo una liscia parete, capitolò un'apertura. Dietro quella, Bastian, seduto su una sedia, reggeva con la mano sinistra un piccolo telecomandino, con la destra teneva il segno di un libro semichiuso: "Il ritratto di Dorian Gray".

Non indossava la tenuta militare ma solo dei pantaloni grigi da tuta e una maglia nera a maniche corte, i piedi erano scalzi. I capelli non erano lisciati all'indietro come al solito ma scompigliati.

StarlenaWhere stories live. Discover now