Introduzione

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New York, Domenica.

È difficile comprendere la natura delle cose.
È complicato vivere l'introduzione del mio diario come l'epilogo, oppure parlare di una certa filosofia che non ho mai imparato. Guardo fuori e vedo soltanto un insieme di grattacieli e palazzi che occupano il cielo, e chissà se mai vedrò qualche stella. Mi piace scrivere davanti al vetro appannato dai miei sospiri, sentire il respiro dell'aria rabbrividire sulla mia pelle nuda.
Voglio poter scrivere prima che l'euforia mi prenda e mi distrugga la mente, prima che questa penna diventi una freccia da scoccare contro qualcuno.
Per ora pastiglie e pagine ingiallite riescono a tenermi calmo, posso sentire la mia coscienza falsa sussurrarmi parole dolci e velenose. Odio tante cose, ma non la mia Helen.
Lei è forse l'unico nome che mi fa tremare lo sguardo senza iniettarlo di sangue, che affronta la mia euforia con la mano tesa e l'altra serrata attorno una spada. Abita nel mio palazzo, è giovane e studia psicologia in uno dei tanti licei di New York. La vedo come la sorella che non ho mai avuto, magari la mamma che non mi ha mai messo al mondo.
So soltanto che mi piace parlare di lei con semplicità, come la Lucia di un Renzo problematico.
Ora purtroppo è a scuola ed io devo resistere ai miei pensieri, a tutte le tracce di euforia suicida che rimangono come tifosi fedeli alla finalissima del proprio team. Non mi piace come scrivo, sembro noioso e arrogante, penso di essere pigro perché spesso dono voce a poche frasi sui libri.
Adesso devo uscire per incontrare il cielo, voglio vederlo mentre cerca di farsi spazio tra le nuvole e i tetti degli edifici.
Ora sono fuori, non so nemmeno se indosso una maglietta, francamente mi importa soltanto di vedere il cielo.
Quando il cielo è sopra Helen mi sento come una rondine tornata al nido, dove il viaggio finisce. Cammino distratto e raggiungo il parco di fianco a casa mia, alzo la testa ed il mio vecchio amore è ancora lì.
Helen spesso mi dice che il cielo se ne andrà solo quando smetterò di credere in lui, ed io mi arrabbio perché lo amo ed il mio cuore è sigillato tra le sue sfumature azzurre. Non capisco perché ad un certo punto egli si infuria e le sue gote diventano rosse, forse odia qualcuno o forse vuole soltanto abbandonarmi.
Non deve lasciarmi, non deve osare sparire tra le stelle perché altrimenti lo punirei con le mie stesse mani.
Perso in questi diverbi mi accorgo del troppo rumore che mi circonda, un dolore lancinante mi offusca la vista e la ragione viene ammaliata e incatenata dentro un'ampolla di sangue e acqua. Cado a terra tirato giù dalla sensazione dell'abisso nero; mi rende schiavo e leone della mia malattia mentale.
Calcio un cestino con rabbia e posso sentire la gente distaccarsi, iniziare a capire che c'è un pezzo del puzzle che non si incastra nella ruota che gira.
«Stai affogando Robert?» una voce spavalda e rauca mi raggiunge, così voltandomi posso vedere otto persone che mi guardano. Ha parlato un uomo anziano con il volto affilato e serpentino, non mi stupirei se la sua lingua fosse come quella di un boa. Mi sento inferiore, in ginocchio, impotente dinanzi a loro.
C'è un'aura strana attorno a questo ottetto, come se tra tutti i passanti cercassero proprio me. In un continuo declino penso che magari sono amici di Helen, forse professori, e sono qua perché lei non mi vuole più. Trema il mondo sotto le mie mani al solo pensarci, così mi alzo per correre alla sua scuola e pregarla di non abbandonarmi, ma il ragazzo più giovane tra il gruppo mi ferma.
Ci guardiamo, scopro i suoi tratti scolpiti e rigidi, gli zigomi alti e due occhi tentatori. Mi allontano da lui prima che fissi ancora le sue labbra, non so cosa stia succedendo ed ho il terrore nel sangue.
«Ci vediamo domani Robert, proprio qui».
La voce sibilante del vecchio mi fa ribollire il sangue nelle vene, vorrei mettergli le mani addosso, ma c'è una donna tra questi individui che sembra infondermi un calore confortante. Abbasso il capo per riprendere il mio diario, e appena alzo lo sguardo sono tutti spariti. Non so come spiegarmelo, meglio tornare chiuso in casa poiché sento l'euforia aumentare passo dopo passo.
Mi lancio contro al muro di camera mia e cerco di sbatterci contro la testa, ma la voce calda di Helen perpetra nei miei ricordi e riesco a non uccidermi. Basta che pensi a lei ed è un altro giorno da vivo.
Ripenso alle parole di quel bastardo, per minuti interi. Ancora e ancora.
Erano persone normali, eppure assomigliavano così tanto a delle strane rondini chiamate emozioni.

Robert Morgan Herriot

Portami il cielo in una stanza Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora