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Val è morta.

È successo, alla fine. È successo davvero.

Faccio un passo indietro, senza riuscire a staccare gli occhi da lei.

Per realizzare ciò che è successo mi basta un secondo, uno dei tanti che per noi fino a poco fa non contavano niente: è bastato davvero così poco a portarla via. Un niente.

È rimasto solo il suo corpo, così vicino a me eppure così distante. Quell'informare che ho beccato prima non mentiva.

«Qui non c'è nessuno, eh? Siamo da soli, vero?»

Mi passo il dorso della mano sugli occhi: contro qualsiasi mio volere, le lacrime hanno iniziato a scendere. Non riesco più a vedere quei pochi dipinti che ancora dominano la navata dall'alto o i disegni geometrici sul pavimento: tutto mi appare coperto da una nebbia, anche lei, immobile a terra, dal viso così chiaro che risalta sul colore scuro della divisa.

Le mie parole risuonano nel silenzio, so che non mi potrà più dare ascolto, ma da una parte sono convinto lo possa fare e che questa sia tutta una farsa.

Lei sta dormendo, vero?

Stringo istintivamente una mano sull'elsa dei coltelli: gli Immortali me la pagheranno. Per lei, soprattutto: se non fosse stato per qualsiasi cosa le abbiano fatto davvero, non avrei mai dovuto portare a termine quella promessa.

È come se ci fosse una barriera tra noi: il pavimento è intatto, è soltanto la mia immaginazione a vederci un baratro senza fine tra me e lei. L'ho vista fare quegli ultimi passi, l'ho sentita urlare e ogni suo verso è stata una coltellata al cuore.

Alzo lo sguardo verso l'alto quando sento la terra tremare: la polvere si stacca dall'alto, mi finisce addosso, andandosi a confondere tra i miei capelli.

Loro avevano ragione. Se tutto ciò che mi hanno detto gli Immortali si dovesse rilevare la verità, è impensabile che ora sia l'unico qui, nella Città 26.

Le lancio un'ultima occhiata: lei sta solo dormendo, vero?

Non è così, lo so: illudersi è solo una scusa per non ammettere la verità.

La terra trema di nuovo, più forte di prima: un attimo dopo, un puntino nero sfreccia nel cielo. Mi precipito fuori, stringendo la mano sull'elsa di uno dei due coltelli.

I rumori della battaglia sono distinti: provengono dalla mia sinistra. Non è la stessa strada da cui sono venuto ed è un bene perché non voglio tornare sui miei passi: significherebbe solo legarsi ancora di più al passato che non può e non deve contare niente.

Lascio la cattedrale ferita alla mie spalle, stringendo al petto il diario, l'ultima cosa che mi lega a lei, consegnatami in un gesto impulsivo.

Le macerie invadono tutte le strade e la polvere rende l'aria irrespirabile. Mi fermo, tossisco più volte piegandomi in due, con una mano appoggiata a un cumulo di macerie.

Non è polvere: è gas.

C'è ancora vita qui. E se c'è vita, la guerra continua.

Imbocco una via laterale di corsa e dall'alto la cupola sembra prendersi gioco di me: per quanto cerchi di raggiungerla, mi sto allontanando da lei.

Non avrei dovuto lasciarla sola.

Ho sbagliato di nuovo, per l'ennesima volta.

Tornare indietro significa dover affrontare la nube tossica che sembra seguirmi: non ho niente con cui ripararmi e per quanto non possa portarmi alla morte, non mi impedirebbe certo di soffrire per chissà quanto tempo, bruciando la pelle e gli organi.

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