La sensazione della vescica piena è ciò che mi costringe ad aprire gli occhi. Mi passo le mani sul viso, cercando di scacciare gli ultimi rimasugli di sonno. Una coperta mi scivola sulle gambe: non ricordo di averla presa ieri, è sicuramente opera di Val. Lancio un'occhiata allo specchietto quando il silenzio viene spezzato dal suo respiro profondo. Sembra tranquilla, almeno per il momento.

Apro lentamente lo sportello, non voglio disturbarla. Appena fuori dalla macchina, allungo le braccia oltre la testa: ha accostato a lato della strada, vicino al bordo. C'è un balzo, poi un altro tratto pianeggiante. Gli scheletri degli alberi sono presenze spettrali nel grigiore persistente. Mi fermo sul brodo, facendo un respiro profondo: chissà dove siamo, quale sia la Città più vicina.

Mi volto verso la macchina: Val non sembra essersi svegliata.

Scendo lungo il balzo, imprecando sottovoce quando una zolla di terra scivola via da sotto la suola. Appoggio una mano sulla pistola: potrebbe esserci qualcosa di buono in questi posti.

Quando mi sembra di aver perso abbastanza tempo e di essere ancora a mani vuote, mi volto per tornare sui miei passi. Con la nebbia di prima mattina gli alberi sembrano ancora più spettrali di quel che lo fossero da lontano: i rami secchi si allontanano dai tronchi a cercare una luce che non esiste più, come se fossero mano di mendicanti. Nella ragnatela che compongono intersecandosi a distanza, la strada è una linea retta che taglia a metà l'orizzonte. Allungo una mano, staccando con un gesto secco il primo rametto su cui le mie dite si stringono. Scricchiola per un istante, poi rimane nella mia mano.

Risalgo la leggera pendenza, lanciandomi il rametto alle spalle e mi avvicino alla macchina.Appoggio una mano sul vetro: Val sta ancora dormendo, rannicchiata sul sedile in quella che è tutt'altro una posizione comoda. Stringe la mano sul bordo della coperta, è l'unica cosa chiara – insieme al volto – che esce fuori. Mi allontano di un passo, poi mi siedo per terra, con la schiena alla macchina.

Senza il sole, non c'è un momento che segna l'inizio del giorno: solo un chiarore diffuso che non diventa mai luce forte. La sensazione di umido, freddo e pioggia imminente non se va mai. Nemmeno ora, che stando al riflesso dell'orologio sul vetro, dovrebbe essere quasi primavera.

Istintivamente infilo una mano in tasca, estraendo l'accendino: la fiammella resiste un attimo davanti ai miei occhi, poi scompare. Prendo una sigaretta dalla tasca sul petto, inserendola tra le labbra.

Non voglio svegliarla. Non so a che ora si è fermata o per quanto tempo ha guidato.

Poco prima che la sigaretta finisca, un'ombra si allunga sul piccolo pezzo d'asfalto tra me e il bordo della strada, mangiato dal tempo.

«Buongiorno».

Alzo lo sguardo: Val rimane in piedi, con li occhi socchiusi e la coperta avvolta come un mantello intorno al corpo. Non l'ho sentita scendere.

Torno a guardare la distesa di alberi secchi di fronte a me, allungando il braccio con la sigaretta nella sua direzione. Me la sfila dalle dita e, sempre in silenzio, si siede per terra.

Piega le ginocchia, poi si stropiccia gli occhi.

«Sai dove siamo?»

«No» risponde secca dopo aver preso una boccata di fumo.

Tossisce all'improvviso, poi mi ripassa la sigaretta. Istintivamente le appoggio una mano sulla schiena, finché l'attacco non finisce e torna ad appoggiare la testa alla lamiera. Riprende la coperta che aveva lasciato cadere, stringendosi di nuovo nella stessa.

«Fanculo» mormora tra sé, passandosi poi il dorso della mano sugli occhi.

«Ehi, ehi».

Si volta lentamente. «Che cazzo di marca è?»

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