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Solo il tenue chiarore crepuscolare rapì il mio sguardo al di là della vecchia porta. Ma il mio animo era più che lieto di essere accolto dal fulgore rubato di Venere, che ci inganna nascondendosi tra le stelle. Per me, il preludio della notte rappresentava la promessa dell'arrivo dell'oscurità: l'intensa attesa che lascia il dominio all'inquietudine e all'agitazione, generate dalla sensazione che quella notte avrebbe portato con sé gli arcani, che aspettavano avidamente l'estinguersi dell'ultimo riflesso del giorno per mostrarsi.

E con quest'immagine nella mente mi mossi in perlustrazione della terrazza. Questa era uno spiazzo rettangolare piuttosto ampio. I lati più corti, che davano profondità all'area, erano cintati dalle mura delle costruzioni adiacenti. Osservavo quelle cime annerite dal vespro, pronta ad essere sorpresa dalla sagoma appollaiata di chissà quale demone alato.

La fredda aria della sera si addensava sulla mia pelle, reclamata dalla notte da sotto il fine strato di cotone, umido di sudore, della mia maglietta. Rabbrividivo, ma lo stridente squittio dei pipistrelli, che lentamente trascinava il velo delle tenebre, rimescolava il mio sangue. Come piccoli draghi sfuggiti alle catene, si muovevano in una frenetica e caotica danza, inneggiando alla morte del giorno. I loro bordi frastagliati guizzavano nel cielo, ancora abbastanza luminoso perché si vedessero le dense macchie nere dei loro corpi sbucare da dietro i tetti delle vicine abitazioni; in modo tale da lasciare all'immaginazione l'ubicazione delle loro tane. Le mitologiche ali coriacee di questi legittimi compagni della notte mi sfioravano la testa, sfidandomi a restare nel loro regno di tenebra.

Raggiunsi il limite della terrazza, appoggiai le mani sul muschioso muretto che fungeva da parapetto, e aguzzai la vista verso l'umido giardinetto autunnale sottostante. Niente di quell'incolto prato, appena distinguibile a quell'ora, catturò la mia attenzione; e per quanto la fantasia e l'immaginazione favorissero il buio per meglio tramare le loro visioni, il patimento fisico ebbe la meglio. Intirizzita, allora, dal primo freddo autunnale, mi avviai verso l'entrata, speranzosa di rinvigorire i miei muscoli tra le accoglienti mura domestiche, ancora colme del calore dei raggi del sole.

Mi muovevo verso la luce, eterno simbolo di virtù e beatitudine: come avrei potuto prevedere ciò che sarebbe successo di lì a poco? Quando fui sul punto di rientrare, un ultimo guizzo nero colse il mio sguardo e mi voltai con le spalle rivolte all'uscio, per lanciare un'ultima occhiata ai piccoli figli del crepuscolo.

Fu nell'istante successivo che si scrisse il mio fato, l'attimo in cui scoccò l'orologio; quando l'ombra si mosse.

Era già troppo tardi per fermare l'avvenire; per fermare la mia distruzione futura.

Alle mie spalle sentii il leggero suono soffocato di una risatina trattenuta.

Ero certa che fosse mio cugino, il mio scherzoso compagno di giochi, con una mano premuta sulle labbra. Lasciandomi vincere da un sorriso divertito mi voltai di scatto, ma ciò che trovai non era un volto umano, né animalesco, né di un'ombra.

Niente.

Non c'era nulla che mi attendeva alle spalle.

Niente se non la lunga rampa di scale illuminata dal caldo bagliore della lampada, diventato d'un tratto minaccioso e sinistro.

Fu in quel momento che sperimentai, per la prima volta, il vero terrore; quella nodosa mano che stringe il cuore in una morsa così stretta, da farlo spingere sempre più forte nel tentativo di liberarsi. 


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