2.

106 12 37
                                    

Per comprendere appieno la mia azione e le ragioni che mi hanno portato a compierla, bisogna tornare indietro nel tempo, a quando ero una bambina nella piccola città di ***.

Sono cresciuta in un appartamento, in un palazzo condominiale edificato su un terreno appartenuto alla mia famiglia. In quel condominio eravamo per lo più amici e parenti; in particolare io, mio padre e mia madre abitavamo al secondo piano, mentre mia zia e mio cugino abitavano il terzo.

Siamo sempre stati una famiglia molto unita: mia madre e sua sorella avevano poca distanza d'età, perciò erano cresciute come due sorelle molto affiatate. Inoltre, io e mio cugino eravamo figli unici, quindi spinti a legarci dall'alternativa della solitudine. Solitudine che sarebbe inevitabilmente sopraggiunta, perché oltre al sangue, io e mio cugino condividevamo un'attitudine per l'orrore, il tormento e la sofferenza poco comune nei nostri coetanei.

A differenza degli altri giovani, mi piaceva inventare leggende e arcani misteri nei quali galleggiava, come in un nero mare in tempesta, il nome della nostra famiglia.

Mi sarebbe piaciuto che un qualche tormentato giungesse dal passato, avrei vissuto il suo arrivo come un tesoro che mi rendeva speciale e dava alla quotidianità quel pizzico di avventura che ogni bambino e adolescente - in particolare io con la mia peculiare indole - desiderava.

Eppure, se la mia innocenza avesse avuto modo di conoscere l'avvenire, di tradurre quella lingua primitiva, dimenticata, che narra le nostre storie prima che di fatto si compiano, non avrei mai gioito nell'immaginare quali segreti si potessero celare dietro il velo del tempo.

Dita di nebbia scrissero il mio orrendo fato, in quel pomeriggio di Novembre.

Dita di un'impassibile ombra, avvolta in un mantello altrettanto scuro che si desta solo allo scoccare di un orologio d'oro e d'osso.

Quando l'ora è giunta scivola lentamente, inumanamente, silenziosamente in una perpetua bruma per scrivere in una lingua a noi sconosciuta, ma che si tramuta presto in azioni.

Era il giorno dei morti, e molti membri della famiglia erano riuniti in casa. Io e mio cugino eravamo lieti di aver aggiunto - anche se per un solo giorno - alla nostra compagnia due membri: due cugini di secondo grado che vedevamo di rado. Non ricordo esattamente con che gioco ci stessimo intrattenendo, ma ricordo come ridevamo e ci rincorrevamo su per le scale.

A un certo punto della rincorsa io, affiatata ma incapace di smettere di ridere, mi ritrovai in enorme vantaggio rispetto agli altri, così mi fermai un momento per prendere fiato.

Ero arrivata in cima all'edificio, dinnanzi alla porta che conduceva al terrazzo.

Ricordo molto bene il silenzio che regnava lassù, come se una barriera invisibile attenuasse le risa e le voci dei miei compagni di gioco fino ad estinguerle. Ebbi un fremito di paura, che aumentò la mia eccitazione e curiosità. Fino a quel momento provavo un certo gusto nel sentir crescere la paura: mi sarei ricreduta a breve.

Suggestionata dal momento, aprii la porta di fronte a me, diradai le tenebre spingendo l'interruttore della luce, e salii la stretta scalinata che portava alla terrazza.

La scalinata finiva su un'altra porta di un legno rossastro.

La tonalità vermiglia del legno era esaltata dalla calda luce proveniente dalla lampadina appesa al basso soffitto.

Salivamo di rado su nel terrazzo, ma una chiave era sempre incastrata nella toppa perché non si perdesse e venisse dimenticata altrove.

Attesi qualche minuto prima di aprire la porta, lasciando che le mie fantasie e i miei timori si concretizzassero al di là di essa.

Alla fine, girai la chiave, spinsi il cigolante battente e attraversai la soglia con trepidazione, pronta ad immergermi in chissà quale storia di avventura e coraggio, senza però immaginare minimamente cosa in realtà il destino nascondesse dietro il suo torbido mantello.


La RisataWhere stories live. Discover now