Capitolo 12

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Capelli come il sole d'estate, lunghi fino alle spalle. Occhi gialli, come quelli di un gatto. Viso da Dio greco, ma di morte.

La mia mano tremò cosí tanto che rovesciai un pò d'acqua dal bicchiere. Per cercare di contrastare i tremori strinsi la mano attorno al vetro con forza ed avrei giurato che da un momento all'altro l'avrei rotto in mille pezzi.
"Rebeca, lui è Miguel de Herrera".
L'uomo si avvicinò a passi decisi, guardandomi dritto negli occhi.
Dovevo porgergli la mano, ma non riuscivo. Lui se ne accorse.
Lentamente prese la mia mano, che era abbandonata sul fianco e vi appoggiò appena le labbra. La sua mano aveva delle piccole vene azzurre come le venature del marmo e del marmo aveva lo stesso colore e la freddezza. Le labbra erano morbide e vellutate come petali di un fiore, ma fredde come il ghiaccio. Un brivido mi attraversó la pelle. Lui tenne lo sguardo fisso su di me. Ero spaurita.
"È un piacere Señor..." dissi sommessamente.
"Prego, prego Señor Herrera, si accomodi" disse Ruben, facendomi segno di sedermi sulla poltroncina in velluto rosso, alla destra di Miguel. Lo feci a dire il vero volentieri, poiché le mie gambe tramavano e avevo paura avrebbero ceduto da un momento all'altro.

Cercai di calmarmi, respirando profondamente, gonfiando il petto. Quando lo feci notai che il Señor mi stava fissando il seno. Il mio cuore iniziò a battere all'impazzata e per un istante mi parve che i suoi occhi fossero diventati rossi. Mi ficcai le dita nella pelle della mano, cosí che procurandomi dolore, potessi concentrami su quello e distogliere la mia attenzione dalla situazione paradossale nella quale mi trovavo. I due uomini iniziarono a parlare di commercio,cifre,navi, piantagioni. Ogni tanto Ruben mi nominava o chiamava o interpellava e io rispondevo con cenni o monosillabi.

"Devo dedurre che questa giovane fanciulla sia vostra figlia" disse l'uomo approfittando di un momento di silenzio. Quelle parole mi destarono dallo stato confusionale in cui mi trovavo. "Vedete Señor, Rebeca non è mia figlia biologica, ma è trattata dalla nostra famiglia come tale, ci siamo affezionati tutti a lei".
Sorrisi debolmente.
"Capisco... da dove venite Rebeca?" chiese Miguel, girandosi verso di me. Presi coraggio e risposi.
"Da un paesino Señor, a nord di qui"
"E cosa vi ha portato qui, se posso?"
"La sfortuna" risposi fredda. L'uomo mi guardò incuriosito.
"Purtroppo Rebeca è rimasta orfana" rispose Ruben al posto mio.
"Capisco" disse Miguel.
Sentivo i suoi occhi su di me, ma non riuscivo mai a capire il momento esatto in cui mi stesse effettivamente guardando. Il suo sguardo era come una presenza all'interno della stanza, come se ci fosse un terzo partecipante in quello scambio di cortesie e convenevoli che stavamo avendo.

L'uomo se ne andò di li a poco.

Quando vidi il portone chiudersi, rilasciai tutta la tensione. Mi salii un grande mal di testa e sentivo il corpo molle. Avvisai Ruben che sarei andata in camera mia.
Mi tolsi l'abito e appoggiai la collana sulla toeletta, in un piccolo scrigno. Mi sdraiai sul letto. Chiusi gli occhi. Di li a poco mi addormentai.

Quando mi svegliai il sole era già calato. Sbadigliai e mi stiracchiai un poco. Mi alzai lentamente dal letto, appoggiando un piede alla volta sul pavimento ed aprii la finestra. Inspirai. L'aria era fresca, frizzantina. Mi stinsi nella sottoveste per difendermi dall'aria della sera che mi colse all'improvviso. Volevo scendere nel cortile per godermi meglio la brezza serale. Misi un lungo scialle intorno alla spalle e aprii la porta della stanza. Appena la aprii vidi che ai miei piedi, sull'uscio, era appoggiato un vassoio con un piatto. Gli altri dovevano già aver mangiato e Dolores, vedendo che non ero scesa a cena,mi aveva portato un vassoio con della minestra. Lo presi e portai in camera. Non avevo fame al momento, ma pensai mi sarebbe venuta piú tardi. Scesi le scale.

Quando fui fuori nel cortile alzai lo sguardo. Il cielo era terso e le stelle lo costellavano come dei diamanti su un abito scuso. La serata era luminosa. Iniziai a camminare nel cortile, sotto i portici, respirando profondamente. Ripensai allo strano e spiacevole incontro di oggi. Un demone. Qui. Il cuore incominciò a battermi in petto con foga.

Poi il sangue mi si raggelò nelle vene.

Mi girai di scatto, ma non feci in tempo e lui mi sbatté contro la colonna del portico.

Lo scialle mi cadde dalle spalle e non fece in tempo a toccare terra che mi trovai con una mano alla gola, mentre la mia schiena era a contatto con il freddo intonaco della colonna.

"Cosa ci fai qui cacciatrice?".

L'uomo, anzi il demone di questo pomeriggio era li, di fronte a me. I suoi occhi erano rossi, iniettati di sangue. Non ebbi tempo di avere paura, il mio istinto arrivó per primo.
Gli afferrai il braccio, cercando di allontanarlo da me o almeno fargli allentare la presa sul mio collo. Ero piú forte di una normale ragazza, ma non abbastanza per un demone.
Velocemente alzai le gambe, rimanendo sospesa, tenuta per il collo e provai a calciarlo, ma non riuscii nel mio intento e subito mi mancò il respiro, perciò riappoggiai  velocemente i piedi a terra.
Inspirai profondamente e freneticamente. Lui si mise a ridere.
"Sei come una mosca che si dimena nella ragnatela. Sono un demone. Non è così facile farmi dal male". Lo guardai dritto negli occhi. Lui ricambiò il mio sguardo ed allentó la mano sulla mia gola, per poi toglierla definitivamente.

Caddi a terra sulle ginocchia e mi toccai la gola nel punto in cui la sua mano l'aveva cinta. Iniziai a tossire e respirai velocemente perché ero rimasta senza aria per troppo tempo. Sapeva che non ero un pericolo per lui e me lo aveva dimostrato.
"Perchè siete venuto?" chiesi. "Cosa volete da me?".
"Domanda sciocca piccola mortale" disse avvicinandosi. "Quando oggi ho sentito il tuo odore mi sono contenuto per poco. Ero tentato di prosciugare ogni più piccola goccia del tuo sangue li sul momento. Mi ci è voluta molta forza di volontà".
"E cosa vi trattiene adesso?"
"Curiosità. Cosa ci fa una ragazzina appartenente al clan del León qui?".
Lo guardai interrogativa. Lui si inginocchiò di fronte a me e col dito mi toccó il petto.
"La collana che indossavi oggi" disse a voce bassa, come fosse un segreto.
"La collana di mio padre..." dissi si sibilando.
Lui si rialzò con un sorriso malizioso.
"Lo ripeterò una seconda volta. Cosa ci fa una ragazza del clan dei León qui?" disse incisivo.
"Sono ospite di questa famiglia"
"Si... orfana ha detto Ruben. È davvero cosí Rebeca?" chiese, soffermandosi sul mio nome.
"Si" dissi a denti stretti, con rabbia. Lui si giró verso di me. Era fermo e mi fissava.
"E ora che avete appagato la vostra curiosità Miguel" dissi appoggiando le mani a terra e facendo forza sulle braccia per alzarmi "cosa vi trattiene dal prosciugarmi ogni singola, goccia di sangue?" dissi con aria di sfida e disprezzo.
Mi avvicinai a lui a tal punto da averlo a pochi centimetri dal mio viso.
Lui sorrise divertito.
Mi appoggiò una mano sul viso. Una mano fredda, ma morbida. Si avvicinò al mio orecchio lentamente, poi sussurrò calmo "Noia, Rebeca. Ora che ho trovato un giocattolino così divertente, non lo romperò subito".

Mi teneva stretta per un fianco e con l'altra mano mi spostò i capelli dal collo. Provai a spostarmi, ma una sua mano bastava a tenermi immobilizzata. Posò la sua bocca sul mio collo.
Io mio corpo diventò rigido come il marmo.
"Deduco dalla reazione che questa é la tua prima volta. Non ti preoccupare, non ti farà troppo male".
Il mio sangue raggelò.
Poi li sentii. Due canini freddi e duri mi perforarono la pelle. Inconsciamente mi aggrappai alla giacca di lui, stringendola con le mani. Lo tiravo, come per scaricare il mio dolore su di lui. Miguel serró la presa sul mio fianco e con l'altra mano inizò ad accarezzarmi la testa, come se il gesto mi potesse sollevare dal dolore che stavo provando. Un urlo sommesso uscí dalla mie labbra. Quando lui lo sentí si staccò lentamente dal mio collo. Un rivolo di sangue scese dalla ferita sul collo, ma lui era avido e non se la fece scappare. Con la lingua, lentamente, leccò via il sangue, partendo dalla ferita e scendendo verso il basso.
Un brivido mi percorse la schiena.
Strinsi ancora di più la giacca di lui nelle mie mani, non per il dolore questa volta, ma perché le mie gambe avevano ceduto.

Mi sentivo debole.

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