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Alzo un braccio: avrei fatto qualsiasi cosa pur di interrompere il bianco monotono del soffitto sopra la mia testa. Non ho idea di quanti giorni fossero trascorsi da quando ho deciso di lasciarli indietro. Forse non avrei dovuto, ma d'altra parte è meglio che tocchi a me.

Se è egoista? Forse.

Volto lo sguardo non appena sento voci sconosciute: non conosco la lingua, le parole che mi arrivano suonano... strane? È ovvio che parlino di me. Stringo inconsciamente le mani sulla coperta, un bip più forte proveniente dal monitor annuncia a tutti che il mio battito è accelerato.

Il più anziano dei due uomini entrati si avvicina a passo veloce, sistemandosi lo stetoscopio intorno al collo, forse è un medico; l'altro rimane fuori dal mio campo visivo, ma da quel che ho intravisto indossa una divisa miliare.

Sento i loro sguardi spostarsi da me al monitor.

Ho paura?

Mi sembra di rivivere sempre le stesse scene: quando mi risvegliai pur dovendo esser morta, quando mi hanno catturato la prima volta e quando l'hanno fatto poche settimane fa.

Vorrei chiedere, vorrei sapere cos'è successo davvero in tutti questi secoli, ma sento la lingua incollata al palato. Non riesco a parlare, ma il desiderio di urlare è forte.

Mi mordo un labbro non appena percepisco la pelle tirare mentre un elettrodo viene staccato. Uno dopo l'altro lasciano solo cerchi rossi sulla pelle e un vago ricordo di colla. Si scambiano fra loro qualche altra frase, poi il medico si allontana, l'altro no. Scrive qualcosa su

Ma ciò non fa che ricordami i tempi che furono, quei momenti di terrore passati in trincea quando eravamo umani. Mortali. Carne da macello.

Non dicono niente, ma mi stanno fissando.

Non ho idea di quel che possa succedere da qui in poi, ma ho paura: non poter morire non significa non poter soffrire. Non esiste un punto di rottura, un limite in cui il confine tra vita e morte scompare.

Dopotutto, Elrin aveva ragione.

Uno si avvicina; abbasso lo sguardo quando si ferma vicino a me.

Senza dire una parola, afferra il mio braccio, alzando la manica con un gesto secco, quanto basta per scoprire la scritta.

Si volta verso il collega, fa un cenno della testa. «S0002. È lei».

Non ho mai saputo come considerare gli Immortali: al fronte erano i nemici, nelle Zone erano la minaccia e ora sono l'incerto. Sono nelle loro mani, niente di quel che succederà da qui in poi sarò mia responsabilità

Cerco di non tremare, ma il mio corpo va contro ogni volontà: potrei dare la colpa al freddo, ma so che non è così. Ho paura.

E ora mi ritrovo di nuovo inerme nelle loro mani, a dover subire tutto ciò che hanno intenzione di fare. E se le intenzioni sono le stesse del gruppo della Città 48, ho messo in pericolo tutti.

Non morire è una maledizione più grande del nascere in tempi bui c'era scritto in una delle pagine del diario. Aveva dannatamente ragione chiunque abbia scritto quella frase. L'ho capito ora che mi ritrovo in questa situazione.

Ho fatto un passo falso e l'inferno è tornato ad abbracciarmi da ogni parte, a togliermi la possibilità di fuggire. La presenza spettrale degli Immortali non mi ha mai lasciato: erano dietro l'angolo, pronti a colpire al momento opportuno, erano nascosti, consapevoli che alla fine l'umanità sarebbe stata distrutta con o senza il loro aiuto.

Quando si allontana di pochi passi mi tiro a sedere: il cerotto che tiene la flebo tira contro la pelle.

Mi guardo intorno per qualche istante, vorrei avere almeno una minima idea di dove mi trovo. Sembra lo studio di un medico: un lettino coperto da un telo, vicino a cui si trova un mobiletto su ruote pieno di strumenti medici; accanto alla porta c'è un tavolo bianco come ogni oggetto che arreda la stanza, su cui spiccano solo i due portapenne stracolmi. Uno dei due Immortali si è seduto, scrive qualcosa su un foglio e il rumore della penna che viene spostata è l'unico che si sente nella stanza. L'odore di medicinali è persistente, così come quello di un disinfettante – l'odore di arancia sintetica pizzica il naso.

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