3: il salotto delle meraviglie

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3. una persona apparentemente tranquilla in una situazione non tranquilla 


Corin aveva passato molto tempo in casa di persone anziane: sua madre aveva lavorato per anni durante la sua infanzia e spesso lui aveva trascorso molti pomeriggi a casa della sua nonna paterna. Nonna Lacey profumava di sapone per il bucato, acqua di rose e biscotti al burro. Corin ricordava quei pomeriggi come i più felici della sua vita, perché nella sua cucina, mentre lei preparava la cena, entravano sottili e dorati raggi di luce dalla vetrata che dava sul tavolo dove lui faceva i compiti. C'erano magia e bellezza in quel piacevole silenzio, rotto solo dal tintinnio di mestoli e teglie e ogni tanto il leggero canticchiare della donna.

Tuttavia, mentre la porta di casa Fraser si chiudeva lentamente alle sue spalle e Corin avanzava nello stretto corridoio che conduceva al salotto, quella magia che aveva sempre legato alle persone di una certa età era totalmente scomparsa, forse non v'era neanche mai stata. Ciò che sentiva, camminando sul pavimento di legno che scricchiolava ogni volta che una delle sue sneakers lo sfiorava, era disagio, paura, leggera e serpeggiante inquietudine. Il corridoio era buio e vi era appeso solo uno specchio, sopra un minuscolo e stretto tavolino sul quale poggiava un piattino d'argento. Corin lanciò uno sguardo a se stesso nello specchio, si stupì di quanto sembrasse spaventato – cosa che non fece altro che nutrire ancora di più la sua preoccupazione – e poi abbassò gli occhi sul piattino. Si rese conto che era pieno di acqua trasparente. Aggrottò la fronte per un istante, poi si disse che doveva essere una sorta di acquasantiera. Nulla di cui preoccuparsi.

Riuscì a rimanere su questa posizione fino a quando il corridoio non finì e lui non mise piede nel salotto.

"Accomodati" gli disse la signora Fraser, che per tutto il tempo era rimasta alle sue spalle, muovendosi senza produrre il minimo rumore. Corin si bloccò, deglutì e per l'ennesima volta provò un profondo e viscerale impulso verso la fuga.

C'erano un divano a stampa di fiori di lavanda, una poltrona bordeaux, un tavolino di vetro e un tavolo da pranzo, nell'angolo più distante, vicino a una libreria in rovere. Nessuna televisione, solo uno strano aggeggio che faticò a riconoscere come un giradischi. Sarebbe stato un grazioso salotto, solo un po' antiquato, con splendide finestre che davano sulla piccola giungla tropicale che protendeva i suoi rami, fiori e foglie verso di esse, se non fosse stato per il numero davvero inquietante di suppellettili presenti sulle mensole che correvano esattamente sotto le finestre, sui tavoli e su piedistalli elaborati e sottili come gambi di fiori.

A Corin i musei di storia naturale piacevano, ma facevano venire gli incubi. Non ci andava mai solo perché era certo che avrebbe fatto brutti sogni la stessa notte come quando, due anni prima, erano andati in gita a New York e ne avevano visitato il museo. Si era fatto la pipì addosso durante la notte, a causa di un sogno in cui erano presenti tutti quegli animali impagliati che improvvisamente riprendevano vita e desideravano ardentemente mangiarlo, tutti i suoi compagni l'avevano saputo dal suo compagno di stanza dell'epoca, nonché ex migliore amico, e da allora non era più stato chiamato Corin ma Piscia-a-letto Dawson.

Ebbene, entrare in quel salotto era come rivivere un incubo, perché su ogni mensola, tavolo e altro spazio disponibile, c'erano oggetti. No, non solo oggetti: oggetti peculiari. In mezzo a comuni e piccoli vasi con cactus e altre minuscole piantine da appartamento, che sembravano però innaturalmente troppo cresciute lì dentro, riposavano teschi di animali, strane composizioni di ossa, mazzetti di sbiaditi fiori secchi e graziosi cristalli dai tenui colori pastello. C'erano anche alcune cornici d'argento ossidato che contenevano foto che avevano perso l'antico splendore e un paio di bizzarre campane di vetro che, ad un occhio più attento, avrebbero rivelato il loro contenuto di animali e piante, ovviamente morti, sistemati in pose naturali come immagini scattate e rese tridimensionali.

In tutto questo, si aggiungeva la presenza della genetta, che si era accoccolata sul davanzale di una delle finestre, a fianco di un grosso teschio di canide – forse una volpe? – e un cristallo di quarzo color vinaccia. La sua lunga coda a strisce pendeva dalla mensola e si muoveva lentamente, avanti e indietro, seguendo un segreto ritmo magico.

C'era un caos calmo in quel salotto. Un caos che raccontava di magia. In effetti, fu questa la prima parola che sorse nella mente del giovane Dawson: magia. Magia nera, però. Magia da cui bisognava star lontano.

"Penso di dover tornare a casa" mormorò, senza rendersi conto che la sua voce appariva innaturalmente acuta.

La signora Fraser, che lo aveva appena superato entrando nel proprio salotto, si girò per guardarlo negli occhi. Corin rabbrividì sotto quelle iridi glaciali e il suo cuore prese a battere all'impazzata quando le sottili labbra di quell'anziana misteriosa signora si tirarono in un sorriso appena abbozzato.

"Non avrai cambiato idea per il mio salotto" disse, leggermente divertita, aprendo un braccio a indicare la moltitudine di oggetti contenuti al suo interno. Corin scosse la testa, troppo velocemente, per negare quello che lei aveva appena asserito.

"Devo tornare a casa".

"È maleducazione rifiutare l'ospitalità, piccolo Dawson. Non te l'ha insegnato la tua mamma?".

Corin deglutì, abbassò gli occhi, annuì.

"Bene, allora" rispose la signora, soddisfatta. "Allora siediti pure. Preparerò un tè per accompagnare quei pasticcini. Va bene?".

Il ragazzino annuì di nuovo e lanciò uno sguardo preoccupato alla genetta, che teneva gli occhi socchiusi ma sembrava sveglia. Lo stava di certo tenendo d'occhio.

"Oh, tranquillo. Sei mio ospite. Ananke è sempre gentile con gli ospiti. Se ti siedi sul divano, verrà da te" lo rassicurò la signora, prima di dirigersi a passi veloci – beh, quantomeno per una donna della sua età – verso una piccola porta scura situata sul lato destro del salotto. "Non tirarle la coda, però. Odia quando succede".

Corin non aveva alcuna intenzione di toccare l'animale, ma annuì per la terza volta. Quando la signora Fraser scomparve oltre la porta che sicuramente portava in cucina, si avvicinò lentamente al divano. Ananke si trovava proprio dietro il cuscino di sinistra e Corin si sedette sul lato opposto, anche se sulla mensola alle sue spalle una piccola civetta impagliata lo fissava dal suo trespolo di legno. Rabbrividì e prese posto, rendendosi conto di quanto quella situazione fosse assurda. Avrebbe potuto trascorrere un fantastico pomeriggio leggendo un fumetto o guardando un documentario in streaming, che ci faceva in casa della vecchia sciroccata della via? Perché aveva dato ascolto alla sua psicologa? Lei non abitava in Norman Ave, non sapeva quello che si diceva della vecchia Fraser! Nemmeno sua madre ne aveva idea!

Trasalì bruscamente e per poco non si mise ad urlare quando qualcosa di peloso gli sfiorò il braccio. Si voltò appena in tempo per vedere la genetta appoggiare entrambe le sue piccole zampe anteriori sul suo avambraccio, squadrandolo attentamente. Corin rimase a fissare la bestia trattenendo il fiato, fino a che questa non decise che aveva passato l'esame: con un agile movimento, gli balzò in grembo, accarezzandogli il mento con la morbida coda. Corin non osò muoversi per un tempo che parve infinito, ma Ananke si limitò a sederglisi sulla pancia, proprio come un gatto, tornando a sonnecchiare.

"Te l'avevo detto" disse la signora Fraser, facendolo spaventare una seconda volta, quando rientrò improvvisamente in salotto. "Non morde".

"Prima ha ringhiato" tentò di difendersi Corin.

"Tu non ringhieresti se uno sconosciuto venisse a casa tua, dopo che un certo qual numero di altri sconosciuti ha tentato di tirarti la coda, lanciarti le pietre o bruciarti con una sigaretta?".

Il ragazzino rimase in silenzio, sconcertato. Ananke socchiuse i suoi occhi ambrati dalla pupilla verticale, come a dare ragione alla sua padrona. Corin osò posarle una mano tremante sulla schiena e la bestiola abbassò il muso tra le zampe, rilassata.

Corin si ritrovò a sorridere e si accorse che la signora Fraser era tornata per un motivo solo quando si ritrovò in mano una bella tazza d'aspetto nobile e antico, fumante.

Alzò gli occhi su di lei, che si era accomodata sulla poltrona bordeaux con una tazza molto simile, ma prima che potesse anche solo ringraziarla, fu zittito da una domanda.

"Quindi, ragazzo: di preciso, cosa ci fai qui?".

Corin Dawson e la strega di Cabanyà RoadWhere stories live. Discover now