Ⅲ. Un'idea geniale in un pessimo momento

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Dopo che Mlle Levesque finì di rimproverarli, venti minuti più tardi, per il poco rispetto dimostrato nei suoi confronti e per la sua materia, la lezione finalmente cominciò. O, per meglio dire, la tirata infinita contro il romanzo più conosciuto di Flaubert, Madame Bovary.

Il vero problema dell'insegnante di francese era la sua incapacità di separare il pubblico dal privato. Così, anche senza volerlo, l'intera classe era a conoscenza di tutte le sue faccende personali. Poi, da quando l'ex fidanzato l'aveva tradita con la professoressa d'inglese, la donna aveva deciso di scaricarsi sui suoi studenti, rendendo la loro vita un inferno con test a sorpresa e valanghe di compiti che non finivano più.

Somigliava in tutto e per tutto ad una dittatrice, anche nell'aspetto: portava sempre dei tailleur dai colori smorti, solo bianchi, neri o grigi, un filo di perle -come minimo vecchie anche al tempo della guerra di secessione- a decorarle il collo ed i capelli rossi acconciati in chignon talmente stretti da tirarle tutti i lineamenti del viso in un'espressione perennemente insofferente.

E uno si potrebbe chiedere, perché era fissata proprio Madame Bovary? Semplice, perchè era un personaggio disonesto, debole e senza spina dorsale, capace di tradire il marito alla più piccola difficoltà. Faceva praticamente imparare a memoria tutto il libro, tranne la parte finale dove lui, scoperti i tradimenti della moglie, si suicida.

Tutto ciò aveva generato nei ragazzi (Julian compreso) un odio cocente per la donna, tanto da essere disposti a tutto pur di levarsela dai piedi. E si dava il caso che in quel momento la stessa Mlle Levesque gli avesse offerto un'occasione da non sottovalutare.

I banchi della sua aula erano disposti in modo da formare un ferro di cavallo intorno alla cattedra, dalla quale l'insegnante si alzava assai di rado. Julian aveva preso posto ad una delle due estremità e, facendosi coprire dal ragazzo seduto accanto, tagliò le pagine finali del romanzo, per poi incollarle in un punto diverso. Intanto la professoressa leggeva con voce monotona, senza neanche prestare attenzione al resto della classe.

<Mlle Levesque, può venire un attimo?Non capisco questo passo.> Il ragazzo alzò una mano e rimase rispettoso ad attendere una risposta. Qualcuno, evidentemente resosi conto di quello che stava per accadere, cominciò a rimettere nella borsa il materiale scolastico, altri invece si abbandonarono alle risate. La donna, incurante di tutto ciò, si avvicinò al suo banco, sbuffando sonoramente.

<E' mai possibile che tu sia così duro di comprendonio, Campbell?> Chiese <Su dà qua!> Prese il libro dalle mani del ragazzo e cominciò a leggere per tutta la classe:

Alle sette, la piccola Berthe, che non l'aveva visto per tutto il giorno, venne a cercarlo per la cena. Aveva la testa arrovesciata contro il muro, gli occhi chiusi, la bocca aperta, e teneva fra le mani una lunga ciocca di capelli neri. «Papà, su, vieni!» disse la bambina. E, convinta che stesse scherzando, lo spinse adagio. Charles cadde a terra. Era morto.

A quel punto l'insegnante scoppiò in un pianto frenetico, con tanto di singhiozzi e ansiti pesanti.

<Mon Dieu, perchè Frankie, perchè?> Gemeva tra i singhiozzi. Una ragazza le aveva messo una mano sulla spalla, ma la donna se la scrollò di dosso. Si lasciò cadere pesantemente su una sedia, sempre continuando a piangere rumorosamente.

La classe la guardava con un misto di disagio, speranza e divertimento, fino a quando Mlle Levesque non pronunciò le fatidiche parole.

<Ragazzi, potete andare, per oggi abbiamo finito.> In tre secondi tutti erano spariti. Julian ricevette una marea di complimenti e di pacche sulle spalle dai ragazzi; le ragazze invece gli concessero qualche sorriso e, un paio di loro, addirittura un abbraccio.

Thomas gli si affiancò e gli dette un cinque.

<Quello che hai fatto è stato grande. Così come sarà grande il culo che ti faranno quando lo si verrà a sapere.> Affermò solennemente. Il biondo sorrise e alzò le spalle. Era un rischio che avrebbe accettato di correre.


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All'ora di pranzo, praticamente tutta la scuola era venuta a conoscenza dell'incredibile trovata di Julian Campbell. I suoi compagni di squadra intonarono un canto goliardico talmente stonato da non permettergli di cogliere neanche una parola e di certo non poteva negare che le attenzioni ricevute dalle cheerleaders non fossero di suo gradimento.

<Oh, questa sì che è vita! Esclamò allegramente. Allora era così che si sentivano i popolari. Solo che per loro quella situazione era più o meno eterna.

Si sarebbe dovuto sentire un minimo in colpa per aver fatto piangere la professoressa davanti a tutti gli altri ragazzi, ma tra la partenza della Johnson, gli allenamenti estenuanti e l'odio per quella donna, ciò che aveva fatto sembrava a malapena una bravata da asilo nido.

Lucie Holt, una cheerleader del terzo anno, gli aveva allungato un muffin al cioccolato e stava per afferrarlo, quando Thomas gli tirò una potente gomitata nelle costole.

<Ahi, deficiente, ma sei impazzito?!> Guardò in cagnesco il moro che, per tutta risposta, gli indicò con il mento qualcosa alla sua sinistra. Julian seguì con lo sguardo la direzione indicata e si sentì come se gli avessero appena rovesciato addosso un secchio d'acqua gelida.

In piedi, con il vassoio del pranzo in mano, c'era Margaret. Non era cambiata molto durante l'estate: i capelli castano scuro erano forse più lunghi, la pelle un pochino più ambrata, ma per il resto era praticamente identica.

Stava cercando un posto a sedere, guardandosi intorno per trovare il suo gruppo di amici. Prima ancora che se ne fosse reso conto, Julian balzò in piedi, spostò un paio di ragazzi sul suo cammino e le si parò davanti.

Quella si girò per guardarlo in faccia, ma i suoi occhi, di solito nocciola luminosi, erano diventati due rocce dure.

<Ciao, come va?> Chiese il ragazzo, improvvisamente pentito per la sua scelta.

<Davvero hai tempo per parlarmi ora che sei una celebrità? Non dovresti gongolarti con quel gruppo di scimmioni per aver provocato un crollo psicologico ad una persona?> Alzò un sopracciglio, scettica. Si girò e fece per allontanarsi, ma lui la trattenne per un braccio.

Margaret si fermò e Julian vide con un misto di stupore e gioia che portava ancora al polso quel braccialetto.

<Allora non l'avevi veramente buttato!> Sorrise leggermente, ma l'altra lo fulminò con lo sguardo.

<Julian, lasciami in pace.> E se ne andò, lasciandolo solo al centro della mensa. Stava per tornare al suo posto, ma all'improvviso le porte della mensa si spalancarono violentemente per far entrare una figura.

Dall'alto del suoi due metri, il preside Romans poteva dare l'impressione di un uomo autoritario, però per la maggior parte del tempo era un bonaccione. Ma non lo si doveva sottovalutare; all'ultima partita di football per poco non stese il coach dell'altra squadra con un cazzotto.

Il ragazzo credeva che quella volta fosse stato veramente infuriato. Si sbagliava di grosso.

Il preside guardava l'intera scolaresca con cipiglio minaccioso e, all'improvviso, si girò nella sua direzione e puntò dritto verso di lui.

<Campbell, ti stavo cercando. Che ne dici di una chiacchierata prima della fine delle lezioni? Nel mio ufficio?> Tuonò. Julian inghiottì a vuoto.

<C-certo, Mr. Romans...> Quello gli lanciò un'ultima occhiata, poi girò sui tacchi e sparì.

Appena la porta si chiuse alle sue spalle, Julian sentì come se fosse una marionetta a cui avessero tagliato i fili. Intorno a lui gli altri studenti ammutolirono. Sentiva addosso il peso di migliaia di occhi, tutti famelici di sapere quale sarebbe stata la sua prossima mossa.

<Lo sai che non mi piace fare l'uccellaccio del malaugurio...> Cominciò Thomas, dopo averlo raggiunto. <Ma te l'avevo detto.>





SPAZIO AUTRICE

Non ho nulla da dire. Causa forze maggiori ho dovuto anticipare la pubblicazione.

Passo e chiudo.

La Corona dei TeppistiWhere stories live. Discover now