Cap. V - Giovanni

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V

Giovanni

Giovanni Rizzo era un bambino vivace e scherzoso. Quando i suoi genitori, poco più che ventenni, si unirono in matrimonio avevano già chiaro il loro progetto d'amore: era lui, Giovanni.
Nel gennaio dell'anno successivo, nei tempi stabiliti dalla natura, venne così alla luce quel pargolo fortemente voluto ed amato, incondizionatamente, per tutto il tempo in cui i suoi ebbero la fortuna di percorrere insieme a lui la loro strada. Forse fu proprio questo a fare di lui una persona in grado di provare sentimenti così assoluti, senza compromessi. Incapace di fare del male o di ferire qualcuno, quando ciò accadeva era sempre pronto a fare retromarcia e chiedere scusa. Non offendere le persone con cui entrava in contatto fu per lui il proponimento di una vita perché se da una parte non riusciva a fare a meno delle sue battute, dall'altra cercava anche di affinarle evitando riferimenti "cattivi". In lui spesso risuonavano in testa le parole del suo professore di latino al Liceo "Excusatio non petita, accusatio manifesta". Giovanni comprese che chiedere scusa era sì doveroso in certi casi, ma era anche sintomatico di un errore commesso da parte sua, e questo doveva assolutamente evitarlo. Pian piano cominciò a capire che le persone sono suscettibili e fragili, come lo era lui del resto, ma la sua "fragilità" era per gli altri, verso gli altri, mentre a se stesso riservava anche troppa durezza e rigore.
Nel tempo tarò così il suo comportamento in modo da dover rinunciare quasi completamente a quella confidenza spontanea che gli veniva naturale dare subito alla gente, spinto per sua stessa natura dal desiderio di conoscenza che aveva del mondo in genere e dell'animo umano in particolare. Lavorò su se stesso così da concedersi certi atteggiamenti solamente con gli amici più intimi.
Per lui fu all'inizio un grande sforzo perché si innamorava delle persone a prima vista. Era così, completamente disarmato con il prossimo, per amore e viveva in un continuo sforzo di crescita interiore, alla ricerca della sua verità.
Cercò quindi nel tempo di modulare anche il suo linguaggio, parlando sempre di meno a sproposito e provando invece sempre più ad ascoltare.
Ascoltare poi gli piaceva. Aveva imparato a sue spese che, al contrario, non tutti sono disposti ad ascoltare te e a prenderti in considerazione per ciò che sei; allora quando era in compagnia se ne stava semplicemente lì, in silenzio. Si poneva sempre, con chiunque incontrasse, in maniera mai irruenta o aggressiva. L'offesa ad una persona la sentiva come un'offesa a se stesso. In lui andò così maturando un sentimento romantico di amore che col tempo aveva però stemperato e che ora riusciva a gestire in maniera consapevole.
Ma dentro di lui, nel profondo, questo sentimento restava vivo e immutato come quando era bambino. Anche nel rapporto con la natura si poneva con rispetto. Non amò mai la caccia e la pesca. Vedere un animale ucciso, soprattutto per il proprio divertimento e non per necessità, lo faceva stare male fisicamente. Per lui il vero sport fu perciò quello di dare calci ad un pallone.
Nel calcio poteva sfogare la sua vitalità e nello stesso tempo stare insieme agli altri con gioia. Iniziò così a giocare nell'A.S.D. Acimuffoli Calcio, la squadra del suo paese. E qui si trovò bene perché, anche se non era quello che si definirebbe un fenomeno, era però un carismatico uomo "da spogliatoio". Trasmetteva ottimismo ed energia ai compagni.
Anche quando la sua squadra perdeva, aveva una parola di conforto per tutti ed era comunque in grado di far passare la delusione, più con il suo atteggiamento positivo che con le parole.
Quando l'Acimuffoli perse fuori casa per "2 - 0" contro il Corgasso a causa di due errori del portiere provocati dai 90 minuti filati di ingiurie e minacce strillate al suo indirizzo da un gruppetto di tifosi, Giovanni si era sentito oltraggiato di persona, ma più nel vedere il suo amico prostrato dall'umiliazione che per il contenuto di quelle parole scagliate come pietre.
Quelli del Corgasso avevano preso di mira il portiere e così lui, verso il finale della partita, li aveva tenuti d'occhio nel tentativo di capire se quei quattro o cinque facinorosi avessero intenzione di continuare ancora fuori dal campo a prendersela col suo amico.
Istintivamente ne aveva comunque soppesato la fisicità valutandone la forza in caso di un eventuale scontro.
Erano uomini fatti, dalle facce truci e vissute. Giovanni era solo un ragazzo ma più alto di loro e i suoi novantadue chili di peso distribuiti su un corpo di un metro e novantatre di altezza gli conferivano una corporeità d'atleta che lo faceva apparire senz'altro più grande della sua età.
Li osservò ridere e scherzare scompostamente mentre la squadra dell'Acimuffoli in silenzio cominciava a defluire verso gli spogliatoi.
Il primo ad uscire dal campo fu proprio il portiere, Nicolò.
«Eccolo, l'handicappato, ah ah ah» gli urlò dietro uno di questi, lanciandogli addosso la lattina di coca-cola mezza vuota che stava bevendo. La lattina lo colpì alle spalle schizzando il suo contenuto sulla maglietta bianca della divisa.
Consapevole dei sentimenti che in quel momento agitavano il suo compagno di squadra, lo raggiunse di corsa negli spogliatoi. Trovò Nicolò seduto in terra con la testa tra le ginocchia, la maglietta bagnata e sporca buttata lontano. Il portiere dell'Acimuffoli guardava il pavimento sconsolato e singhiozzava piano.
Gli si sedette a fianco, gli cinse le spalle con il braccio e lo tenne stretto a sé. Rimase così, in silenzio e con gli occhi chiusi, condividendo la sua amarezza fino a che non arrivarono gli altri giocatori. Allora si alzò, gli sollevò il mento con la mano e, guardandolo fisso negli occhi, gli disse con determinazione:
«Sai che penso Nico? Hai fatto bene a non rispondere alle provocazioni».
Nicolò alzò lo sguardo silenzioso, accennando a un piccolo sorriso.
«Occhio per occhio... e il mondo diventa cieco - aggiunse lui ridendo nel ripetere uno dei pensieri del maestro Gandhi che a lui tanto piaceva - e comunque stai tranquillo Nicolò che ci riprenderemo il pane alla partita di ritorno e se non ce lo riprenderemo sta minchia. L'importante è partecipare... in fondo stiamo giocando una partita tra Acimuffoli e Corgasso mica la finale di Coppa del mondo».
Lui era così, ma non tanto perché era un pavido e avesse paura di difendere il suo amico, quanto perché non poteva sopportare atti di violenza gratuita. Solo più tardi avrebbe avuto la consapevolezza che la violenza genera altra violenza in una spirale senza fine.
Non offendere le persone fu dunque per lui un lungo esercizio che giunse a limitargli la parola. Ma già ai tempi in cui iniziò a giocare al calcio, aveva ridotto al minimo il suo eloquio e la sua voglia di comunicare con gli altri la riversò perciò nella scrittura. Le parole scritte a differenza di quelle parlate, potevano essere meditate, valutate, ripulite, vagliate, in modo da esprimere emozioni senza fare del male a nessuno. E questo gli tornò utile in seguito quando, finite le scuole medie ad Acimuffoli, si iscrisse al liceo di Palermo.

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