Fase IV: Depressione. (Terza parte)

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«Eis?» ripetè Nikoleta, come se assurdamente il nome del biondino fosse ciò che più l'aveva colpita di quella rivelazione «sarebbe il suo nome?»

«Così l'ho sentito chiamare»
Sbottò Ivan, sottolineando la propria intolleranza con una tallonata ben piazzata al divano. Persino in quel frangente il ragazzetto odioso riusciva a sottrargli tutte le attenzioni!
«Ce la fai a concentrati su di me almeno durante la terapia?»

«Non fare il drammatico, Vanja. È solo che...» diede un colpetto affettuoso al volume del padre della psicanalisi con il quale si stava intrattenendo prima che lui suonasse il campanello «non credo si chiami sul serio così. Eis, in tedesco, significa ghiaccio.»

«E come si dice stronzo in tedesco? Perché sarebbe più indicato.»

Nikoleta fece un sospiro di resa, scegliendo saggiamente di lasciare cadere il discorso.

«Torniamo al tuo sogno... cosa ti ha sconvolto di più? L'aver avuto un amplesso con un uomo o il fatto che l'uomo fosse lui?»

«Fa differenza?»
Bofonchiò Ivan da dietro la tazza di tea con i fiorellini, a cui aveva dato uno strategico sorso giusto appunto per nascondersi.

«Parecchia, sì.»

Intuendo di aver posto una domanda troppo diretta e che lo avrebbe fatto inevitabilmente chiudere in difesa, tentò di rimediare arrivandoci tramite un percorso secondario «hai mai provato attrazione verso una persona del tuo stesso sesso, Ivan?»

Altro sorso di tea, e quando staccò le labbra dal bordo di ceramica temporeggiò ancora un poco giocherellando con il cucchiaio.

«... qualche volta, da ragazzino.»
Ammise infine.

Non era stata una cosa semplice da dire. Nikoleta si sentì quasi fiera di lui per non aver cercato di negarlo, ma sapeva che quello che sul serio lo tormentava era ben altro.

Dando prova di un pessimo tempismo, l'organismo di Ivan iniziò a fremere ricordandogli che era passato fin troppo dall'ultima dose di nicotina. Si sforzò d'ignorarlo, concentrandosi invece sul groppo allo stomaco che doveva tradurre in parole. C'era una domanda che lo angustiava, sgradita e fastidiosa come una spina nel dito, che aveva timore di porre ma che, allo stesso tempo, altro non desiderava che librarsene. Nikoleta l'aveva probabilmente già intuita, infatti fino all'ultimo sperò che fosse lei ad introdurre l'argomento, ma vedendola ostinata a tacere raccolse tutto il proprio coraggio e chiese:
«È per ciò che mi è successo da piccolo? Per quello mi...» esitò, cercando una parola che non gli risultasse troppo ostica «... interessano anche i maschi?»

Mai, prima di allora, aveva nominato quella vicenda di sua decisione, senza nessuno che lo incalzasse.
Era un tasto ancora dolente. Un frammento della sua complicata infanzia che neppure lo scorrere del tempo era riuscito a levigare.

Aveva nove anni, Ivan, quando era finito a vivere per strada. Un paio di scarpe consumate di cui una con la suola bucata, una giacchina blu e un ginocchio sbucciato per cui non aveva pianto neanche un pochino (andava molto fiero di questo). Aveva nove anni e la sua mamma era morta di overdose, lasciando da soli lui e Iljusha*, suo fratello maggiore, in quella città dal cuore di ghiaccio.
Mangiavano quello che riuscivano a procurarsi, dormivano dove capitava, vivevano tentando di passare inosservati. Non sempre funzionava.
Due bambini così belli e così indifesi, in un pessimo quartiere... finirono per attirare anche quel genere di attenzione che nessun adulto dovrebbe mai rivolgere a un bambino.
Fu solo questione di tempo.
L'uomo del vicolo sembrava gentile: gli chiedeva sempre se aveva fame e gli comprava dei vatrushka** quando lui, immancabilmente, rispondeva di sì. Suo fratello diceva di non fidarsi, di non accettarli, ma lui con la scusa di dover mangiare di più perché più grande gli lasciava sempre la porzione piccola di tutto, che a malapena bastava alla pancia per smettere di brontolare. Che avrebbe dovuto dargli ascolto lo capì la notte in cui l'uomo si presentò senza l'incarto con i dolci, dicendo di avere "altro" per lui.
Iljusha lo aveva ritrovato diverse ore dopo, nudo e tremante, rannicchiato dietro ad un cassone dell'immondizia.

«No. Non credo ci sia un nesso.»

Assecondando un moto di tenerezza nei suoi riguardi, Nikoleta abbandonò il suo posto sulla poltrona per andare a rannicchiarsi accanto a lui. Gli si appoggiò con la testa all'ampia spalla «e credo che non dovresti torturarti così. Non sei attratto da quel ragazzo per quello che ti hanno fatto, lo sei perché... beh... perché è bellissimo!»

«Questo sarebbe il tuo parere professionale? E poi...»

«Sì, sì, lo so: anche tu sei bellissimo»
Fece lei, alzando gli occhi al cielo «dovremmo lavorare un po' sul tuo ego esagerato.»

«In realtà stavo per chiederti secondo te cosa dovrei fare»

Non era vero, ma a Ivan non andava che lo credesse così prevedibile. E comunque un consiglio lo voleva sul serio.

«Non respingere l'impulso»
Disse senza esitare, come se si fosse già preparata la risposta.

«Mi stai suggerendo di andarci a letto?»

«Perché devi pensare subito a quello? No, Ivan. Ti sto suggerendo di andare a parlarci. Scopri se vale tutto questo interesse»

«Parlarci? E di cosa?»

«Che diavolo ne so! Del tempo, o del perché indossa gli occhiali da sole al chiuso, o magari del suo nome strano. Parlaci e basta.»

Ivan si grattò la nuca, a disagio. Le sue parole tuttavia avevano senso.

«Va bene»

«Cosa va bene?»

«Lo farò.» 

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*Iljusha: soprannome russo del nome Ilja.
**Vatrushka: tipico dolce della cucina russa, è una sorta di ciambella farcita di ricotta.

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