𝐂𝐀𝐏𝐈𝐓𝐎𝐋𝐎 𝟏𝟎

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Parcheggia l'auto in modo impeccabile nonostante la poca grazia e toglie le chiavi dal quadro. Lotto un paio di secondi con la cintura di sicurezza, ma senza successo.

Perché non collabori almeno tu, macchinina?

«Fai fare a me.»

Prima che possa ribattere, lui mi ha già liberata. Non aspetto oltre e scendo. Giro intorno all'auto e gli restituisco la giacca, sbattendogliela contro il petto.

«Che sgarbata. È questo il tuo ringraziamento?» domanda noncurante, anzi è piuttosto divertito dal mio comportamento.

«Non ti ho chiesto io di accompagnarmi e perciò non ti devo alcun ringraziamento. Anzi, ringraziarti è l'ultima cosa che dovrei fare» rispondo corrucciata. Ostento rabbia da tutti i pori.

«La sua ostilità mi ferisce, Miss Anderson. Perché non seppelliamo l'ascia di guerra, una volta per tutte?». Non c'è più traccia di ilarità nel suo sguardo. È serio mentre si fa più vicino.

Mi altero. «Seppellire l'ascia di guerra? Mi hai rovinato la vita, Ian Miller. Non ti voglio nemmeno a dieci metri da me, hai capito?», le mie labbra sono strette in una linea sottile.

No, sembra non capire. Divora quei pochi metri che ci separano, costringendomi ad attaccarmi alla portiera, sbarrandomi la strada con entrambe le mani appoggiate al tettuccio dell'auto, ai lati del mio viso. Odio questo continuo contatto.

"No, tu odi il modo in cui ti fa sentire."

«Mettiamo in chiaro le cose: tu lavori per me adesso, e come tuo superiore decido io a quanti chilometri, metri o centimetri debba starti lontano. Chiaro, ragazzina?», ecco il tono di voce che tanto odio, quello che per quattro anni mi ha perseguitata.

Lo guardo fisso e torvo. «Non chiamarmi così», ringhio e sono tentata di trattenere il respiro per non dover annusare quel suo buon profumo.

«Chiamarti così mi ricorda i bei vecchi tempi.»

«Saranno stati belli per te» replico cercando di non pensare al suo corpo che pressa il mio. Il mio seno schiacciato contro il suo petto d'acciaio.

«Pensavo fosse lo stesso per te» risponde in tono mellifluo mentre distrattamente mi riporta una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Lo avrei trovato un gesto tenero se mi fosse stato fatto da qualsiasi altro uomo, ma qui è di Ian che stiamo parlando, e in lui non esiste alcunché di tenero. «Almeno nel periodo in cui hai ceduto al mio fascino», completa la sua frase sussurrandola lascivamente vicino al mio orecchio.

«Non toccarmi, stronzo» sibilo a denti stretti, cacciando via la sua mano dalla mia guancia.

«Haily, frena la lingua» ribatte seccato.

«Se no?» lo sfido e lo sguardo gli cade sulle mie labbra socchiuse. Passano minuti prima che lui mi risponda.

«Haily», pronuncia il mio nome con lentezza come a volerlo accarezzare con la sua voce. «Non ti voglio fare del male.»

Trasalisco, ma non tanto per le parole, piuttosto per il tono greve che ha utilizzato per esprimersi. Sembra quasi sincero.

"Non è mai stato sincero con te. Perché adesso dovrebbe essere diverso?"

«Io non ti credo.»

In risposta ricevo un'occhiata imperturbabile. Mi lascia andare e si rimette la giacca. Io intanto fermo la macchina.

Cautamente una berlina nera si accosta alle nostre figure. Frena e l'autista all'interno attende pazientemente Ian.

Mi volto e lo supero, sbattendo la spalla contro il suo braccio, provocandomi una miriade di brividi lungo la schiena. Infilo le chiavi nella serratura e giro, entrando nello stabile e chiudendomi la porta alle spalle senza indugio.

Salgo spedita le scale, raggiungendo il mio appartamento. Entro in casa e ancora adirata per prima poggio le chiavi con veemenza sopra al tavolino in salotto.

Luke spunta dalla cucina. «Allora, com'è andata...?»

Lo interrompo aspramente. «Non una sola parola a riguardo.»

Sfreccio in camera mia, sbatto la porta dietro di me e butto tacchi e vestito in un angolo del pavimento. Non mi strucco, ma mi infilo direttamente il pigiama per poi scaraventarmi a letto.

Mi mordo il labbro, in preda al nervoso. Guarda in che pasticcio mi sono cacciata per non essermi informata meglio sul posto di lavoro che avrei dovuto occupare per sei mesi. Credo di essermi sbagliata, io sei mesi sotto le grinfie di quell'avvoltoio non riesco a farli.

"Così gliela darai vinta."

Non mi interessa. Incontrarlo mi ha riportato tutto a galla, e da allora flashback mi svolazzano nella mente.

Mi sistemo una mano sopra la testa e fisso il soffitto mentre penso a ciò che posso fare. Quasi odo il click di una lampadina che si accende sopra la mia testa. Una soluzione c'è.

Lunedì prima di andare al lavoro mi recherò in università e chiederò di farmi spostare in un'altra azienda con una scusa.

"Haily, questo si chiama scappare."

Mentre valuto se questo sia un buon modo di agire, vengo inghiottita dal torpore e dal rumore delle pigre gocce di pioggia che si scontrano contro il vetro della finestra, finendo così per addormentarmi.

Colleghi Per CasoWhere stories live. Discover now