07: Tatuaggio draki

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Cinque anni, tanto era passato da quando Gideon aveva visto Elhara l'ultima volta. In quel lasso di tempo non aveva fatto altro che inseguire le tracce da lei lasciate in ogni angolo del continente e, ora, nel posto più improbabile di tutti, la perduta principessa degli Ehorin era di fronte a lui.

Quanto aveva atteso, sperato, che quel giorno arrivasse?

E all'improvviso le parole, quelle che erano state sepolte a lungo nel suo cuore, gli mancavano come il giorno in cui le aveva detto addio.

Elhara era tra le sue braccia e lui la strinse a sé con più forza, bisognoso di sentirla viva e al suo fianco. Lei stava piangendo o forse, pensò più lucidamente, tremava di rabbia. Non poteva fargliene una colpa e tuttavia ne rimase ugualmente contrariato. Quando lei cominciò a calmarsi la accompagnò ad un tavolo e le mise davanti una ciotola di datteri.

"I tuoi preferiti" le disse, cogliendola di sorpresa. "Sembra che questa sia una delle poche cose a non essere cambiate" commentò con una punta di malinconia, osservandole i capelli gocciolanti. Il suo aspetto era così diverso, che gli sembrava ancora strano averla ritrovata.

Lei rimase in silenzio, timorosa, ma alla fine allungò la mano e diede un morso al primo frutto.

"Non dovrei parlare con te" confessò Elhara, sfidandolo con lo sguardo a ribattere. "Mi è stato suggerito di sgozzarti la gola non appena ti avessi rivisto."

"Sei sempre stata una persona schietta e sincera" replicò lui con una punta di ironia, tuttavia la sua attenzione era calamitata verso gli aloni scuri che lei aveva attorno agli occhi.

"Allora sai bene che non mento quando affermo di odiarti."

"È un bene che tu mi odi" asserì schietto, ma non si prese il disturbo di spiegarle il significato di quella frase. Ci sarebbe stato il tempo per le spiegazioni, però non in quel momento e in quel luogo.

"Quel che dici non ha senso, Gideon."

Elhara lo aveva quasi ringhiato quel nome, come se il solo pronunciarlo le costasse un'enorme fatica, eppure lui si concesse di chiudere un istante gli occhi per assaporare il momento.

"Mi sei mancata" le disse.

La reazione di lei non si fece attendere. "Mancata?!" strillò con voce acuta. "I malati sentono nostalgia per la vita prima che il morbo la consumi. Ciò che tu provi, ciò che io, malgrado tutto, ancora provo non è altro che il rimpianto per una vita mai vissuta. E ti detesto ancora di più." Allontanò da sé i datteri e lui tacque, stringendo così forte il bordo del tavolo che sentì il legno cedere sotto di sé.

Xen era intento a bere il latte da una ciotola e lo aspirava in modo tale da procurare volutamente fastidio alla loro conversazione. A volte, quel dannatissimo jiin era insopportabile.

Lo ignorò, per quanto gli fosse possibile, e tornò a Elhara che digrignava i denti quasi fosse sul punto di spezzarli.

"Cosa hai fatto ai capelli?" si costrinse a chiedere alla fine, per interrompere il silenzio teso che si era creato tra loro.

In risposta ricevette una risata fredda e acuta, quasi isterica, che lo irritò più di quanto fosse disposto ad ammettere.

"Tra tutte le domande..." sbottò lei, incredula. "Il mio nuovo aspetto ti ha tanto sconvolto? Tu, che spezzi vite come-"

"Rispondi e basta!" la zittì, sbattendo un pugno sul tavolo e facendola sobbalzare.

Il mobile stridette all'impatto e alcuni bicchieri caddero a terra, frantumandosi.

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