«Aspettate» se ne esce Sahara. «Io ne ho una. Nella Niendorfer Gehege c'è quel vecchio ristorante distrutto che da bambina usavo come rifugio. L'ho attrezzato con un po' di roba e credo che potrebbe fare al caso nostro. Possiamo stare lì finché i soldati non saranno passati. Poi, dato che è vicino alla periferia, ce ne andremo indisturbati.»

«Geniale» commenta Alban. «Siamo proprio una bella squadra.»

«Sì, certo» mi intrometto. «Ma ascoltate. Io non so quanto sia lontana questa Niendorfer Gehege, ma se lo è, come la raggiungiamo prima dell'arrivo delle truppe di terra?»

Jena indica l'intrico di alberi. «Per arrivare qua siamo passati da un'ampia strada provinciale, no? Ora deve essere sommersa dalle macchine. Noi siamo armati... Ci basterà individuarne una, magari la più bella e veloce, e rubarla. Non credo che alla polizia importerà più di tanto di alcuni ladri d'auto, mentre attaccano la città.»

«Allora andiamocene» ripete frenetica Sahara.

Nessuno la contraddice e quindi lei, Jena e Alban iniziano a risalire la foresta. Io li guardo andarsene e, prima di farlo a mia volta, prendo l'asciugamano di Nile e glielo adagio sul volto. «Non so se hai avuto quello che meritavi» dico. «Ma lo scoprirò.»

Parto. Mantengo la direzione che hanno preso gli altri e in poco sbuco su una larga strada oltre cui ci sono dei campi coltivati. Il rumore di clacson causato dal traffico è atroce. Le automobili sono ferme nella corsia per uscire da Amburgo. Ogni dieci secondi avanzano di qualche metro, ma si arrestano subito, e allora i conducenti strombazzano come degli ossessi, costringendomi a tapparmi le orecchie. Jena, Alban e Sahara sono alla mia destra. Hanno spianato le armi contro le macchine soltanto adesso, e infatti il baccano diminuisce considerevolmente.

Li affianco. «Ne avete vista una?»

Jena addita la vettura gialla verso cui si sta dirigendo Sahara. «Ti piace?»

Ammiro i propulsori antigravitazionali a basso getto rifiniti con un metallo argenteo, il profilo longilineo e slanciato. «Con quella ci mettiamo un attimo.»

«Abbiamo avuto fortuna.»

Non appena Jena pronuncia l'ultima parola, Sahara scaraventa a terra un ragazzo magro e pallido. Poi ci fa segno di raggiungerla. Noi corriamo verso di lei. Ci disponiamo senza dare troppa importanza ai posti. Il suo possessore – o meglio, ex possessore, – prima di scappare, ha impostato la Niendorfer Gehege come meta, ma il guidatore automatico non riesce a liberarsi dell'automobile che ci precede e di quella che ci segue, e allora Sahara si improvvisa pilota e fa una manovra strettissima. Quando siamo nell'altra corsia, non riusciamo nemmeno a metterci comodi, che ripartiamo a razzo.

Siamo velocissimi: mentre guardo il paesaggio ridursi a una serie di immagini indistinte, riesco solo a pensare che mi immagino così viaggiare all'interno di un acceleratore di particelle. I campi coltivati capitolano presto di fronte alla metropoli. Gli edifici diventano sempre più frequenti e alla fine entriamo in città. I marciapiedi sono gremiti, le vie intasate. Siamo gli unici a percorrere la strada in questo verso.

Ci fermiamo nei pressi di una curva a gomito. La frenata è improvvisa, drastica, e veniamo proiettati in avanti. Ma ci riprendiamo immediatamente e, usciti dalla macchina, risaliamo un sentiero il cui lato destro è occupato da alberi in gran parte spogli e ricoperti di neve. L'ennesima foresta. Dovevo aspettarmelo. In effetti, però, è un buon posto: se il vecchio rifugio di Sahara è abbastanza imboscato, l'aspetto sinistro degli alberi potrebbe farlo passare inosservato.

Facciamo trecento metri e arriviamo a una struttura in legno abbandonata da molti anni e la cui copertura consiste in una specie di manto erboso ora imbiancato. Le panche a contornare i tavolini, l'insegna spaccata su cui si legge ancora "WAL", si tratta decisamente di un ristorante. Chissà a che sorte sono andati incontro i gestori...

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