Capitolo 4

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Enormi pezzi di metallo precipitano al suolo come meteoriti e noi corriamo verso la foresta che occupa la collina. La superiamo il più velocemente possibile, tentando di non essere coinvolti nell'incendio che di certo causeranno i rottami. Io, Jena, Sahara e Gill siamo i primi ad arrivare alla zona residenziale più vicina, abbastanza isolata dalla natura da non essere in pericolo. Alban e Denver sbucano dalla fitta trama di alberi non appena mi giro a guardare. Denver ha salvato le due borse a tracolla che contengono i nostri documenti, ma dovrebbe essersi ferito, perché zoppica e si ostina a scappare solo grazie al supporto di Alban. Allora lascio il mio bagaglio e accorro in suo soccorso. Lui si aggrappa anche a me.

«Gli altri?» gli chiedo.

Scuote la testa.

«Arrostiti» soggiunge Alban. «Almeno mio cugino, Camden e gli altri due tizi. Uno potrebbe essere sopravvissuto, ma se ho ragione, è andato nell'altra direzione.» Sospira profondamente. «Credo che il tuo desiderio sia stato esaudito: niente più guardia personale. Contento?»

«Non così» sussurro. «Non così» ripeto a voce più alta.

Adagiamo Denver e le due borse accanto al gruppetto formato da Jena, Sahara e Gill, che si sono fermate accanto a un lampione poco luminoso. Gill si fionda su Denver e, china su di lui, inizia a mormorargli qualcosa, immagino un incoraggiamento. Allora si rivolge a me e ad Alban, entrambi appena prima del marciapiede, gli abitanti dei paraggi che scendono in strada per assistere allo spettacolo pirotecnico derivante dall'esplosione del velivolo.

«Cosa gli è successo?» ci domanda.

Io sollevo le braccia per discolparmi da qualsiasi eventuale responsabilità, mentre Alban corruga la fronte e sgrana gli occhi. «Non ne ho la più pallida idea» le dice. «Stavo pensando a mettermi in salvo quando l'ho visto strisciare via dal rogo in cui bruciavano Ryker e Camden...»

Forse avrebbe detto qualcos'altro se avesse proseguito, ma un forte schianto seguito dall'ennesimo scoppio rimbomba nell'aria e ci ammutolisce tutti. Mi volto. La foresta è in fiamme. Le strette conifere ardono come se qualcuno stesse per giustiziare una strega. Una corona rossastra le sovrasta, pare la parte superiore di fauci in procinto di inghiottirle. Ma in poco il fuoco si accende tanto da assomigliare a una fornace, quasi sommergendo il fioco rosso del calore, e altre esplosioni si avvicendano senza tregua. I passanti urlano, così come la gente sulle terrazze che è uscita per guardare cosa sta accadendo.

«Dobbiamo andarcene subito» afferma Sahara.

«Ma Denver è ferito! Non possiamo muoverci con lui in queste condizioni... e poi fra non molto ci saranno i pompieri» replica Gill.

Sahara trattiene un moto di disappunto. Lo so perché la sua espressione è la stessa che faccio io quando sento qualcuno pronunciare una cosa totalmente priva di senso. Di solito Jena me la descrive così bene che ormai la riconosco pure sui visi altrui.

«Prova a pensare con la tua testolina, scema!» esclama. Quando Gill sbuffa, Sahara si riappropria di un po' di contegno. «Se rimaniamo qui e aspettiamo l'arrivo di polizia e pompieri, dovremo dare una spiegazione per la nostra presenza. Soprattutto se tra di noi qualcuno si è ferito per via dell'incendio. Cosa vorrai dirgli a quel punto, eh? Magari che eravamo impegnati in qualche gioco perverso?»

«Be'...», Gill non sa come controbattere.

«Vi dico io cosa faremo» intervengo. Tutti mi appiccicano addosso le proprie pupille. «Noi possediamo un'abitazione, no? Allora adesso ci dirigiamo molto compostamente verso di essa e, quando l'avremo raggiunta, proveremo a medicare Denver.» Nessuno dice niente. «Spero solo che non sia troppo lontana» aggiungo, approfittandomi del silenzio.

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