Capitolo 3

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Le nuvole scorrono come un interminabile campo di cotone grigio. Impiegano poco, però, a diventare una passerella buia, e le stelle si accendono come se un pittore stesse punteggiando il cielo con una tintura splendente. Anche nella stanza cala l'oscurità, e dopo alcuni minuti di attesa, capiamo che nessuno provvederà a illuminarla. Cerco un tasto che possa accendere una luce, ma l'ambiente è esiguo e finisco presto. Dovremo rimanere così.

«Caden, basta agitarti» mi dice Jena. «Non servirà a niente.»

Mi risiedo accanto a lei, sulla comoda panca che ci hanno indicato non appena entrati. Dentro di me rimbomba ancora la promessa di mio padre. Non riesco a zittire i miei pensieri, che si inoltrano in sentieri inaccessibili e alimentano i miei dubbi.

«Sei forse preoccupato per qualcosa?» mi chiede. Mi prende una mano e io mi sforzo di sorriderle. «Puoi dirmi tutto, lo sai.»

Ridacchio. Solo dopo averlo fatto, mi accorgo che la tristezza che tentavo di nascondere era un po' più manifesta di quanto sperassi.

«Ti ho mai deluso?»

«Non è questo il punto...»

Abbasso lo sguardo e continuo a tacere. Lei mi stringe le mani con più forza, quasi costringendomi a girarmi di nuovo. Sta sorridendo. I suoi sorrisi sono sempre molto, troppo belli. E rassicuranti. Ma non è così che mi convincerà.

«Cosa ti ha detto tuo padre?»

Non le rispondo. Sfuggo delicatamente alla sua presa e mi rialzo, per poi tornare alla finestra da cui guardavo il panorama. Ora non si vede più nulla. Solo dei fulmini lontani che animano le nuvole, e il chiarore della luna, sebbene non riesca a individuarla. Il rumore dei tuoni, smorzato dalle spesse pareti metalliche, assomiglia a un roco gorgoglio.

«Sai» dice Jena, affiancandomi, «quando prima sei venuto a raccontarmi quello che ti era successo, ho pensato che stessi iniziano a capire. Che ti fossi reso conto dell'inutilità del tuo respingere le persone. Ma evidentemente mi sono sbagliata.»

«Io...» Non so cosa dire. «In quel momento mi è parsa la cosa più naturale da fare.»

Mi tocca una spalla e io mi giro verso di lei. «Caden, siamo nella stessa situazione! Se tuo padre ti ha riferito qualcosa d'importante, voglio saperlo anch'io. Non puoi semplicemente escludermi...»

«Mi dispiace» la interrompo. «Non ti riguarda.»

Jena tace. I nostri sguardi si incontrano e si dividono più volte, come se entrambi stessimo per fare qualcosa ma infine desistessimo. Per me, almeno, è così. Vorrei chiederle scusa, ringraziarla per non farmi pesare il fatto di averle legato una palla di piombo alla caviglia e di starla trascinando a fondo. Ma non ci riesco. Chissà perché prima, quando Nile è uscito dalla mia camera, mi sono catapultato da lei. Non le ho mentito: mi sembrava naturale quanto evitare la gente. Forse perché la interessava direttamente e sarebbe stato da stupidi, oltre che ingiusto, non condividere quello che era accaduto.

Va a sedersi. Rimaniamo in silenzio per molto tempo, forse trenta minuti. Io cerco di metabolizzare la faccenda, e credo che anche Jena ci stia provando. Non pensa mai tanto prima di agire, o in generale, ma immagino che ora si stia chiedendo cosa succederà alla sua famiglia, se tutto sarà esattamente come quando lei era con loro, e come sarà la vita ad Amburgo. Cosa ci ha riservato mio padre?

Non appena mi stendo sulla panca fissata all'altro lato della stanza, sento il bisogno di parlare. «Staranno bene.»

«Eh?»

Mi volto verso di lei: mi sta guardando. «La tua famiglia, Jena. Shay e Viorica staranno bene. Capiranno. Shay conosce gli inconvenienti della vita di un agente.»

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