Capitolo 6

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Neve che si appiccica ai finestrini dell'autobus. Brusio di gente che sussurra. Ripenso a quello che stava per succedere poco fa. Io e Persia ci siamo dati un bacio così intenso che mi dà rogne anche adesso. Ma quello che mi preoccupa di più non è il fatto che le nostre labbra si siano toccate: è l'oggetto che ho visto sul pavimento, il distintivo raffigurante l'Aquila Nera. Perché Persia ne ha uno? Mio padre mi ha spiegato che quei distintivi vengono consegnati solo in occasione del diploma da agente di Divisione. Perciò vuol dire che... No. Persia non può essere un'agente come me e Jena. Perché sarebbe ad Amburgo? E perché avrebbe lasciato incustodito il suo distintivo pur sapendo che il solo vederlo potrebbe metterla in guai seri? Magari è solo una riproduzione molto fedele, ma per accertarmene dovrei saggiarne la consistenza, la forma, il materiale.

Sento qualcuno picchiettarmi su una spalla. Mi giro: un uomo con un cappello marrone schiacciato e un maglioncino dello stesso colore sopra una camicia. Mi fissa. Credo di sapere chi è.

«Mi mostri il biglietto» dice, un dito teso verso il piccolo schermo proiettato dal suo braccialetto cellulare.

Ridacchio mentre estraggo il biglietto da una tasca della giacca e glielo porgo. Almeno non sono stato da lei per niente. Lui lo controlla, si segna alcune cose e me lo restituisce. Poi se ne va senza neppure ringraziarmi. Lo offenderei pesantemente, ma sono solo a metà strada e temo che lui potrebbe inventarsi un modo per farmi scendere.

Quando rincaso, sia Jena che Denver sono svegli. Lei gira per il soggiorno con dei fogli tra le mani e muove tacita la bocca, mentre lui, ancora sotto le coperte, guarda un programma che a primo impatto mi sembra una grande stronzata. Mi tolgo la giacca.

«Caden!» esclama.

«Mi dispiace, ma per te ora sono Oan. Così come tu per me sei Ren.»

«Smettila di fare lo scorbutico» mi dice. «Non voglio litigare ancora.»

Mi corre incontro e mi dà un bacio su una guancia. Deve essersi fatta una doccia, perché i suoi capelli sono lucenti e profumati e ha addosso una delle mie felpe.

«E questo?» domando.

«Nulla» risponde. «Sono solo felice di vederti.»

Apro il frigorifero e cerco da mangiare. Niente. Nemmeno un ologramma del cibo. Allora mi siedo al tavolo della cucina e guardo l'oceano di documenti con cui è stato ricoperto. Riconosco il mio fascicolo e quello di Jena, oltre ai fogli contenuti nelle due borse a tracolla. Ma ci sono degli altri che non ho mai visto. Ad esempio, quelli che sono stati messi da parte. Ne prendo alcuni e li sfoglio rapidamente: dati su carte di credito, recapiti telefonici, contratti, conti bancari, eccetera. Ecco dov'erano i soldi.

«Cos'è questa roba?» le chiedo.

Lei mi raggiunge. «Oh, Alban è passato a portare altre carte. Ho deciso di metterle tutte insieme e di studiarle. Qualcuno dovrà pur farlo, no?»

È incredibile come dopo le vicissitudini di ieri lei mostri ancora un tale spirito d'iniziativa. Rido. Sono certo che, se avessi avuto un po' di energia in più, avrebbe trasmesso il mio stato d'animo, ma in questa condizione sembra... anonima, come una di quelle risate che si fanno quando non si afferra una battuta.

«Qualcosa non va?» fa lei.

«No...»

Sorride. Mi si avvicina e mi scompiglia la capigliatura. Anche se solitamente le avrei urlato contro, la lascio fare.

«Come temevo» dice. «Sei così stanco che non riesci neppure a fermarmi quanto ti infastidisco. Non credi che sarebbe meglio tornare a letto?»

Ma qui sono l'unico a non reggere una nottata in bianco? «Forse sarei dovuto restare sveglio. Dormire due ore ha peggiorato la situazione» affermo mentre la seguo verso la mia camera.

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