«Ok, so che abbiamo iniziato nella maniera sbagliata, ma perché ora non andiamo tutti a dormire e pensiamo domani a modi in cui riappacificarci o ucciderci?»

«Caden, così come non sai consolare qualcuno, non sai neanche mediare un conflitto» afferma Jena. «Questa ragazza mi ha veramente rotto. È troppo...»

Sahara sta per replicare, ma io le interrompo con un'altra manata sul tavolo. Stavolta, però, è così forte che sento persino Denver mugugnare nella mia direzione. O forse è solo una sensazione. Comunque ho ottenuto quello che volevo: sia Sahara che Jena sembrano stordite dalla mia reazione.

«Senti, genio della comunicazione» dico a Jena, «cerca di essere un po' più modesta, che potrò anche aver passato gli ultimi anni a fare il misantropo, ma so come trattare una persona, se voglio.» Faccio una pausa e mi giro verso Gill e Alban, che hanno smesso di medicare Denver per starmi ad ascoltare. Faccio loro cenno di rimettersi all'opera e riprendo la discussione. «L'unica cosa che voglio ora è riposarmi, e dovresti volerlo anche tu. Abbiamo appena abbandonato per non si sa quanto le nostre famiglie, siamo a diecimila o più chilometri da San Diego e siamo appena scampati a un incendio di dimensioni immani. Io sono scosso come tutti voi, ok? Anzi, più di voi. Il fatto è che io voglio andare a dormire. Domani penseremo a come riconciliarci, a chi ha bombardato l'aggeggio su cui viaggiavamo, e a tutto quello che desiderate. Ma, fino a prova contraria, questa è casa mia, e ora esigo un po' di pace. Domani devo lavorare, porca troia.»

*****

Dopo che Alban, Sahara e Gill hanno lasciato l'abitazione, io e Jena ci assicuriamo che Denver sia coperto (abbiamo deciso, o per meglio dire lo ha fatto Sahara, che portarlo in ospedale sarebbe un azzardo, e Jena continua a ripetermi che forse abbiamo sbagliato ad ascoltare i suoi deliri) e scegliamo una camera a testa. A quanto ho capito, entrambe sono dotate di un bagno supplementare, e infatti mi fiondo nel mio.

Ora che la tensione è diminuita ricordo molti fatti che non mi hanno nemmeno accarezzato il cervello. Ad esempio, pisciare, cosa che faccio immediatamente. L'ho tenuta per ore senza neanche accorgermi. Ridacchio. Poi un altro pensiero mi solletica: le mie lenti a contatto. Di solito sono stabili, ma potrebbe essermene sfuggita una mentre correvo o facevo qualcos'altro, e non voglio che degli sconosciuti vedano il vero colore delle mie iridi. Dunque mi catapulto davanti allo specchio e controllo che sia tutto in ordine.

L'anonimo marrone scuro che scelgo ormai da nove anni è ancora al suo posto, immobile, come se fosse la tonalità in cui si inabissano per davvero le mie pupille. Ma devo arrendermi all'evidenza che non è così, e quando mi tolgo le lenti, la dura realtà risalta come la luna nel cielo notturno. Quanto ho odiato, e quanto odio, quel mosaico di sfumature, quel grigio-azzurro che forma una spirale assieme al bianco sporco. Ma sono i miei occhi e devo accettarlo.

Sospiro. Quindi prendo la valigia e cerco il portalenti ripieno di soluzione salina... Oh, era nell'altra. Sento le mani tremarmi e la porta aperta sembra ora una condanna, quasi fosse destino che delle ombre debbano passare per di qua e vedermi. Percepisco sguardi invisibili posati su di me, sguardi giudicatori, meschini, offensivi. Allora mi avvento su di essa e la chiudo lentamente, a chiave, accertandomi che Jena non sia fuori dalla propria camera e che Denver non abbia ricevuto un'energia miracolosa e si sia alzato dal divano. Poi depongo le lenti sul lavandino in marmo in modo che, quando mi sveglierò, siano già pronte per essere indossate. Fortunatamente questa versione più recente non necessita continui lavaggi o scrupoloso zelo, e quindi dovrebbero essere sicure anche domattina nonostante non le abbia riposte nel portalenti. Ma devo ricordarmi di comprarne una confezione per i prossimi giorni.

Quando vado a letto, e guardo la sveglia che qualcuno molto gentilmente ha piazzato sul comodino accanto a esso, impreco. Sono le cinque e quarantanove e devo svegliarmi alle otto e un quarto. Appena due ore di sonno. Imposto l'orario e abbasso le palpebre, consentendo al buio di impadronirsi della mia vista. Ma un'interminabile serie di domande – riguardanti la morte di Oliver Lowell, Nile, mio padre, Jena, la mia nuova vita e la catastrofe del velivolo – sostituiscono gli incubi nel loro ingrato compito: infestare la mia notte. E non mi addormento prima di dieci, venti minuti.

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