3. Lui

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Un'aggiustatina al berretto da pilota, un colpetto con la mano a un'immaginaria piega sulla giacca, uno sguardo alla pista. Era un rito. Come quello di guardare le prime tre luci della pista al decollo o toccarsi la tesa del cappello prima di iniziare l'atterraggio. "Ridicolo", pensava ogni volta, proprio lui che non era scaramantico, lui che non credeva alla fortuna perché - diceva - "volare è questione di avventurosa precisione; è un atto di fede sostenuto da rigorose leggi della fisica".
Compiuto che ebbe il rito, in baab al suo poetico razionalismo, si allontanò dal 747 e si diresse verso la porta a vetri. Era a terra, adesso; "basta nuvole", pensò.
Passò i controlli come fosse l'uomo invisibile. Aveva visto l'aeroporto divenire uno scalo internazionale da quando era ancora solo un piccolo aeroporto della provincia americana, in una Chicago i cui sobborghi popolavano la 'terza costa' - il lago Michigan - e lui, lì all'O'Hare, lo conoscevano tutti.
E il Michigan era il suo lago. Ci era andato da ragazzino a pescare, giù al vecchio capanno e al vecchio capanno ci aveva portato anche Dorothy, con la vecchia Chevy Impala del '65 di suo padre, a passare la loro prima notte insieme.
Dorothy. Chissà dov'era ora, si chiese mentre chiamava con un gesto uno dei taxi appena fuori dall'aeroporto.
"Non pensarci", fu il pensiero che gli rispose, "sarebbe inutile". Mise una mano nella tasca della giacca, toccò la piccola busta di carta, la fece scorrere tra le dita e disse al taxi "1701 N. La Salle, per piacere. Faccia con comodo, ma passi dal lago".
Chiuse gli occhi mentre uscivano dall'aeroporto.

Sacre cœurWhere stories live. Discover now