«Sei impossibile, Caden» afferma lei. Si alza. Si dirige verso le camere. Quando il suo piede tocca il primo gradino, si gira verso di me e mi fulmina con lo sguardo. «E comunque, tornati a casa, mi dirai perché ci hai impiegato tanto.»

Dunque va disopra. Io rimango davanti al fuoco per qualche altro minuto cercando di oppormi al freddo, e non appena mi sembra di essermi riscaldato abbastanza, mi dirigo verso la mia stanza. Arrivato, mi spoglio e faccio una veloce doccia gelata. Poi controllo le lenti a contatto. Devo tenermi occupato finché non partirò, oppure l'espressione di Oliver Lowell mentre moriva tornerà a infestarmi.

Dei colpi all'ingresso mi fanno trasalire. Jena?

«Un attimo, Jena!» esclamo.

Indosso in fretta jeans scuri, maglietta e felpa con cerniera. Mi fiondo sulla porta, ma mi ricordo di aver dimenticato la chiave sotto al cuscino. La vado a prendere e apro. Sulla soglia, un tizio incappucciato. Mi scruta con i suoi anomali occhi tra il verde e il rosso – anche se io dovrei essere l'ultimo a parlare di anomalie. Indossa un fine giubbotto blu da cui spunta il cappuccio di una felpa. È incredibilmente grosso: distinguo senza difficoltà i muscoli sebbene siano coperti dal giubbotto.

Faccio un passo indietro. «Chi sei?»

Serro un pugno e mi tengo pronto a colpire nei punti più vulnerabili che individuo: ha spalle possenti ed è di fronte a me, quindi dovrò mirare alla gola, agli occhi o all'inguine. Posso farcela. Sicuramente lui non è esperto quanto me nel combattimento.

Ma quando, muto, si insinua nella camera e con una rapida mossa mi immobilizza sul pavimento, capisco che forse ero troppo ottimista. Provo a liberarmi, però sono bloccato: mi impedisce qualsiasi movimento tenendo una delle sue gambe sopra le mie e le sue mani artigliano i miei polsi come immagino farebbero le chele di un granchio. Uso tutta la mia forza, e nonostante fossi il più prestante fisicamente tra gli allievi con cui ho frequentato l'Istituto, non riesco a smuoverlo di un centimetro. Mi sarei dovuto allontanare di più, oppure avrei dovuto attaccare immediatamente. Ora è troppo tardi.

Ha richiuso la porta dietro di sé. «Caden Moothart?» domanda.

Ha una voce molto profonda.

«Sì, e tu chi sei?» ripeto.

Cerco di assumere l'aspetto più minaccioso e psicopatico possibile nella speranza che lui rilassi la presa e mi fornisca un'opportunità per sgusciare via. Ma non abbocca. Ha nervi saldi e mi fissa così intensamente che mi sento nudo. Le sue pupille sono velate da una coltre di mistero, e io rabbrividisco. Non ho mai visto uno sguardo come questo.

«Non è quello che importa... al momento» risponde. Scocca un'occhiata verso la finestra, e poi una seconda alla porta. Si leva il cappuccio, rivelando una folta e scompigliata massa di capelli neri. «Dimmi, posso fidarmi di te? Non voglio ucciderti, voglio solo parlare.»

«Sì, certo», la mia voce strozzata, «e io sono un falco.»

Lui sospira. «Allora, falco, mi fido o no?»

«Conosci gli atti di fede?» ribatto. «Be', dovrai farne uno, perché bisogna conquistarsela, la mia fiducia.»

Spinge le labbra verso l'interno della bocca e socchiude gli occhi come se stesse valutando qualcosa, e forse è proprio quello che sta facendo, perché un istante più tardi sono libero. Saggio la mia mobilità roteando adagio un braccio, e quando capisco che sono lo stesso di prima, mi alzo cauto, controllando il suo comportamento. È andato alla finestra e guarda l'esterno come rapito, quasi degli attori abbiano imbastito uno spettacolino solo per il suo divertimento.

Avanzo verso di lui. Rimane immobile, non gli interessano le mie azioni. È la mia unica occasione. Mi avvicino lento, assicurandomi che i miei passi facciano meno rumore possibile. Fortunatamente, i listoni di legno sono stati ben assemblati, e mentre cammino sembra stia volando. Ci metto poco a raggiungerlo. È impassibile, fermo nella stessa posizione di qualche attimo fa. Scommetto che se provassi a colpirlo alla nuca con un palmo...

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