Prologo

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Ho sempre pensato al dolore come a qualcosa di concreto. Ha un inizio, è circoscritto, lo si cura e ha una fine.

Per questo è così facile dargli un nome.

Mal di testa. Mal di denti. Mal di schiena. Ma quando non lo è?

Quando tutto quello che sei e che credi di sapere si riduce a un ammasso di respiri concitati? Quale nome si può dare?

Agonia.

Con il corpo in fiamme, i nervi tesi fino all'esaurimento e le ossa doloranti all'apparenza sul punto di spezzarsi, mi lascio scivolare giù dal letto, utilizzando il comodino per tornare in posizione eretta.

La sveglia segna l'una di notte, e io ho la gola riarsa quasi non bevessi da giorni.

A tentoni, sforzo le gambe stremate a raggiungere la porta; le dita, scosse da tremori, faticano ad aprirla.

La luce lunare penetra dalle finestre del corridoio, illuminando grandi porzioni di marmo dalle venature acquamarina, mentre un lieve barlume rossastro proviene dall'uscio socchiuso dello studio.

Un passetto dopo l'altro, striscio contro la parete, accogliendo la sensazione del muro freddo sulla pelle fin troppo accaldata. Le zone d'ombra e di luce si alternano, costringendomi a serrare e riaprire gli occhi in continuazione. All'improvviso, un crampo tremendo alla gamba quasi mi fa crollare a terra.

Boccheggiante, cerco di immettere aria nei polmoni, trattenendomi a malapena dall'urlare tutta la mia sofferenza.

Dentro. Fuori.

Inspira. Espira.

Spingo il battente forzando un sorrisino sul volto sconvolto dalla pena.

Papà è seduto alla scrivania, pile ordinate di fogli tutto attorno, gli occhiali storti sul naso pieni di ditate sulle lenti.

Il sempre più comune bicchiere di bourbon accanto alla mano.

«Ancora sveglia, coccinella?»

Annuisco, mentre una lacrima solitaria sfugge al mio controllo.

Attorno ai suoi occhi, già solcati da profonde occhiaie, si aggiungono piccole rughe di preoccupazione. «Hai preso le medicine prescritte dal medico?»

«Non servono a nulla. Non sanno nemmeno cos'ho.»

Ho un'accozzaglia di sintomi che non rispondono a nessuna cura.

«Sarà solo un'influenza, presto passerà. Vai a riposarti.»

«Prendo da bere e torno a letto.»

Aspetto di essere fermata, che mio padre mi offra sostegno e aiuto, ma è troppo preso dal lavoro per realizzare quanto sia sull'orlo del precipizio.

Come sempre.

Sospiro, chiudendo l'uscio e lasciandolo alle sue preziose pratiche.

Non ce la posso fare. Le scale che portano al piano inferiore sono un ostacolo troppo grande.

Forse dovrei andare a svegliare mio fratello. Kyle, per quanto talvolta esasperante, non esiterebbe un secondo ad alzarsi per venire ad assistermi. L'ha dimostrato anche oggi, quando, di fronte all'incuranza dei nostri genitori, ha insistito perché andassi dal dottore a fare le analisi.

Il mio sguardo si sofferma sulla porta del bagno.

Uno spasmo mi percuote il petto.

L'acqua del lavandino andrà benissimo, così non dovrò neanche svegliarlo.

Stremata, faccio il primo passo, quando qualcosa balena nel mio campo visivo.

I raggi argentei che penetrano dalla finestra sono offuscati, distorti, come se stessero attraversando qualcosa simile a una nuvola.

Una nuvola in casa che ha una sagoma stranamente umana.

Sfrego la mano contro gli occhi, li riapro, non c'è nulla. Uno scherzo della mia mente febbricitante.

Non ho mai avuto l'intestino divorato da un piranha, però quello che sto provando ora non credo ci vada così lontano.

I crampi e i respiri si fanno frenetici mentre scivolo a terra, eppure la sensazione che percepisco è quella di cadere in una vasca diversi gradi sottozero.

Fa dannatamente freddo.

I respiri si condensano tutt'attorno finché la realtà si mescola con la fantasia.

Un viale alberato.

Persone avvolte nella nebbia.

Qualcuno si allontana piangendo sommessamente.

Quando finalmente riesco a mettere a fuoco le pareti, il corridoio vuoto e il marmo lucido, mi sembrano passate ore.

Insicura, passo il dorso della mano sulla fronte e sul retro del collo. Umidiccia, ma non più bollente.

Provo ad allungare le braccia e fare qualche movimento, tutto normale.

Un colpo di spugna sull'agonia degli ultimi giorni.

Un altro passo, un impatto non previsto allo stomaco, barcollo all'indietro sbattendo contro il muro.

Mi rialzo, i muscoli rispondono bene, nessuna vertigine improvvisa. Distendo le dita, nessun tremore.

Un suono d'incredulità mi sfugge dalle labbra.

Tiro i capelli all'indietro e mi dirigo verso il bagno, osservando il mio corpo quasi potesse agire di testa sua tutto d'un tratto.

Al solito cigolio della porta, non sobbalzo. L'alto lucernaio, sebbene di medie dimensioni, è sufficiente a mantenere illuminato il lavandino bianco e le manopole.

Mi sciacquo le mani, sorprendendomi della sensazione piacevole provocata dall'acqua sulla pelle appiccicosa. Incrocio il mio sguardo nello specchio: niente occhiaie.

Eppure, qualcos'altro mi blocca il respiro in gola.

Nel riflesso del grande specchio a muro, lunghi capelli color del grano sporgono dalla vasca, allungandosi come tante sottili ragnatele fino al pavimento. Occhi privi di vita puntano il soffitto. Un corpicino esile avvolto solo in una leggera camicia da notte. Una vasca chiazzata di macchie scure.

La mia bocca aperta in un urlo che non sento. Che lei non sente.

Svanita, come il dolore che mi ero portata dentro. Scomparsa lasciando lo stesso vuoto.

Mamma.

Deadly Night ShadowsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora