Prologue L'Espresso per Hogwarts

755 34 8
                                    

Era una calda mattinata del primo giorno settembrino, alla stazione di King's Cross. Il sole, nonostante fossero appena suonate le dieci e mezza, già brillava nel cielo, battendo sull'asfalto scuro del parcheggio, facendo evaporare la brina posatasi lì come frutto di una lunga notte umida.

"Non è assolutamente giusto mamma! Perché Rose si ed io no?!" Stava urlando a squarcia gola un bambino, dai grandissimi occhioni nocciola (per l'occasione velati da lacrimoni trasparenti), aggrappato al tailleur beige di una ricciolutissima signora, che accolse l'ennesima lamentela del piccolo con un potente sbuffo.

"Oh, Hugo! Te lo avrò spiegato almeno un milione di volte! Sei troppo piccolo per Hogwarts! Mancano ancora due anni! Io, invece, sono grande e quindi posso andare!" ripose una bimbetta, spuntando da dietro un uomo alto e ben piazzato dai capelli rossi fiamma. Questo ridacchiò sommessamente, non potendo far a meno di assemblare la camminata impettita e la voce altezzosa della sua donnina in miniatura, alla voce ormai matura di quella che un tempo era stata la sua migliore amica, e che ora, forse per un miracolo di Merlino, era diventata sua moglie e compagna di vita.

La figura longilinea di Hermione Jean Granger in Weasley si fermò davanti al marito, gettandogli un'occhiataccia "C'è poco da ridere Ronald Bilius!" gli sussurrò, incrociando le braccia al seno, arrabbiata per qualcosa che purtroppo il povero coniuge non aveva afferrato e raggiungendo la figlia (camminando, appunto, allo stesso identico modo).

Ron, guardandole filare via, sibilando inviperite neanche fossero due gocce d'acqua, non riuscì più a trattenersi e scoppiò in una grossa e fragorosa risata, portando a sbuffare ancora una volta il piccolo bambino, il quale, non trovando altro modo per passare il tempo prima di riportare l'attenzione dei genitori su di se, aveva infilato con molta poca grazia un grassottello dito latteo nel nasino, un'espressione annoiata in volto. Il padre deglutì rumorosamente, cercando mentalmente di ricordare dove aveva sbagliato, sul suo volto un'espressione a dir poco disgustata.

"Ron, sbrigati! E' tardi!" lo rimproverò Hermione, tornata indietro con la figlia al seguito. Rose, per quel giorno (ma soltanto quel giorno), si era fatta acconciare i capelli, ed, a discapito degli usuali jeans vecchio stile del cugino tredicenne, indossava un'adorabile vestitino a pois con la gonnellina a balze. Sorrideva apertamente, impugnando fieramente il carrello del baule sul quale stava appoggiata mollemente la gabbia dell'ormai vecchissimo Leotordo.

Ron annuì con veemenza, raggiungendo la donna e la bimba, spaventato sempre di più dalla nostalgia dei ricordi che lo attanagliavano, e dall'ansia di rimettere piede in quelli che erano stati ,e lo sarebbero per sempre, gli anni più belli della sua vita.

Si rivide come un undicenne in preda al panico, col naso sporco di qualcosa di non ben definibile, con un'enorme camicia a scacchi troppo grande anche per il suo corpo alto e slanciato, che camminava gomito a gomito con uno strano bambino (che sembrava si stesse chiedendo anche da quale parte fare il prossimo passo) della sua età, mentre sua figlia, sangue del suo sangue, varcava la barriera del binario 9 .

Dentro la barriera, i bambini si strinsero ai genitori, nascondendosi nei loro giacconi. Poi, Rose, mani gelate e tremanti avvinghiate al carrello in una forza che neppure sapeva di possedere, con una consapevolezza che le faceva fremere il cuore per la paura, si allontanò dalla madre, che scambiò col marito una tenera occhiata orgogliosa, pienamente ricambiata.

Si avvicinò ad un muro, Rose, e lì rimase a rimuginare sul suo futuro. Non era coraggiosa, sapeva di non esserlo, se fosse stata coraggiosa ora non sarebbe stata sul punto di morire congelata dai brividi e dall' ansia e non avrebbe avuto la voglia di scappare il più lontano possibile dagli sguardi orgogliosi dei genitori. Perché non dovevano essere orgogliosi di lei. Lei era cattiva, faceva i dispetti al fratello, e delle volte, quando sua madre si rifiutava di prenderla in braccio, e teneva stretto a se il fagottino rosso, aveva desiderato che quell'esserino appena comparso, che l'aveva allontanata dalla sua mamma, scomparisse dalla sua vita, per sempre. Amava Hugo, lo amava davvero e non poteva concepire un giorno senza di lui a tirarle i capelli, ma in quel momento le venivano in mente soltanto aggettivi negativi per definirsi. Era scaltra, certo, era molto intelligente, ma non sarebbe mai stata brava quanto sua madre, ne era consapevole. 'Sarò smistata tra le serpi' pensò, quando una lacrimuccia le solcò il visino ancora tondo ed immaturo, puntinato da miliardi di efelidi. Tirò su col naso. 'Nessuno mi vorrà più bene, Albus, mi guarderà con disprezzo e non giocherà più assieme a me, mamma e papà mi faranno dormire nel sottoscala, come facevano gli zii di zio Harry con lui, e vorranno bene solo a Hugo. E sarà tutta colpa mia.' Si odiava, Rose, in quel momento, ed avrebbe preferito di gran lunga una settimana di allontanamento forzato dai libri (che generalmente sarebbe stato per lei un trauma infantile bello e buono) piuttosto che il sapere di non poter rendere i genitori fieri di lei. Si vantava, Rose, certo, sprizzava sicurezza da tutti i pori, a detta della gente, ma la verità era che era tremendamente insicura di se stessa. Non al livello estetico, sia chiaro (non era come Dominique, non amava essere vistosa, o al centro dell'attenzione di tutti, anzi lo trovava molto imbarazzante) ma dal punto di vista intellettuale, trovando impossibile il non paragonarsi, anche per una volta sola ad Hermione.

Qualche Lentiggine Di TroppoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora