Kiss my ass.

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Quando vivi in una gabbia da quando sei nato, non ci pensi neanche alla libertà. Non ti sfiora neanche lontanamente il pensiero che oltre tutto questo, oltre la vita che stai vivendo, le scelte che fai ogni giorno, i luoghi in cui ti rechi, il bacio sulla guancia della mamma quando torni a casa, ci possa essere qualcosa di più.

Sei semplicemente lì. E basta. Vivi, e non fai domande.

Io non ricordo molto dell'Incidente. Ricordo che papà era morto da poco in uno scontro frontale con un auto mentre tornava dal lavoro. Ricordo che stavamo bene, nonostante tutto, prima che accadesse. Non eravamo ricchi, né benestanti, ma una casa ce l'avevamo. I soldi per andare a fare la spesa bastavano e avanzano. Mamma aveva sempre uno di quei suoi sorrisi infiniti, e papà la baciava proprio lì, proprio sulle labbra, per cercare di catturarlo, perché quando uno ha un sorriso così tu non puoi fare a meno di volerlo tutto per te.

Dopo la morte di mio padre, quei sorrisi iniziarono a scarseggiare, e io smisi di notarlo. Ero troppo impegnato a cercare di costruire un sorriso tutto mio, uno da indossare ogni volta che volevo, uno da sfoggiare a scuola e alle feste e con gli amici, quando non avevo nessun posto dove andare a piangere e la gente mi chiedeva "Stai bene?" e io rispondevo che sì, stavo bene, stavo davvero alla grande, e tiravo fuori uno di quei sorrisi.

Suppongo che mamma facesse lo stesso, ma non me lo disse mai.

Poi accadde.

Ero appena tornato da scuola. Non ricordo bene come fu, ma avevo aperto il frigo e mi ero versato un bicchiere di succo d'arancia, e lo stavo bevendo seduto al tavolo della cucina. Mamma doveva tornare a momenti, e mi ricordo che stavo pensando a come nasconderle quel brutto voto in matematica, per quanto un voto in terza elementare potesse essere brutto.

Ricordo che caddi a terra, e il tavolo cadde sopra di me. L'esplosione e il boato furono fortissimi, per quanto fossimo chilometri e chilometri lontani dalla centrale nucleare.

In effetti, fu proprio questo a salvarci. Eravamo forse uno dei paesi più lontani dalla catastrofe, e avemmo il tempo di correre a nasconderci prima che la nube arrivasse fino a noi.

Ricordo che mi feci male, e non riuscivo a sentire. Mi fischiava un orecchio e potevo soltanto pensare alla mamma, potevo soltanto pensare che magari adesso stava tornando dal supermercato, ed era caduta a terra come me, magari sul marciapiede, e le buste della spesa magari si erano rovesciate, e le merendine che adoravo tanto magari erano finite in strada e qualche auto le aveva schiacciate, e allora addio merendine. Poi pensavo al mio amico Bob che diceva "Quando c'è un terremoto la maggior parte delle volte non ti accorgi nemmeno che sei già morto" e magari ero già morto, perché non mi sentivo più il braccio e la testa continuava a fischiare e non pensavo ad altro che a quelle stupide merendine e alla mamma stesa lunga lunga sul marciapiede, senza nessuno ad aiutarla.

Mamma tornò qualche minuto dopo. Corse da me, mi prese in braccio, scappammo via.

Il resto è confuso. Ci nascondemmo per giorni e giorni, o forse anche settimane, in un bunker che il governo aveva messo a disposizione per i sopravvissuti. Era un posto gigantesco, ma pieno zeppo di persone, e ricordo le grida.

Ricordo che tutti gridavano, per un motivo o per l'altro. Ricordo le urla isteriche delle mamme, ricordo la gente che provava invano a chiamare i propri cari, ricordo i più ricchi che stringevano a sé i propri averi e si guardavano intorno, con i denti scoperti, e io pensavo che sembravano proprio degli animali. Ricordo che mentre cercavo il bagno trovai un bimbo fermo lì, impalato in mezzo a tutta quella folla, con una giacca di lana sporca di sangue tra le mani, e io che mi avvicinavo e gli chiedevo "Dov'è la tua mamma" e lui che scuoteva la testa, e scuoteva la testa, e mi guardava e mi guardava e mi guardava e io che scappavo.

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