Zachary.

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Ottavo

<Dodici anni fa>

Nathan non parla.

È bello, è muto, si è trasformato. Vorrei che mi abbracciasse, ma non lo fa. Mi sta guardando e con grande ammirazione non c'è compassione nelle sue iridi, nonostante adesso sia a conoscenza del perché gli uomini di casa siamo solo io e Jonas. ― Non ti ricordi di lui ― sussurra, e il suo sguardo è perso, le palpebre abbassate, la bocca serrata in una linea sottile, le emozioni definibili sul viso.

È confuso, è scioccato, si mostra vulnerabile, ma continua ad affascinarmi da morire, a essere più eccitante della sensazione di avere lo zio Arthur al mio fianco. ― Ero piccolo, ma mi sentivo amato da lui ― rispondo, con aria vaga. Non voglio venga a sapere che in realtà la morte prematura di papà mi è stata raccontata e non rappresenta il frutto di un'infelice infanzia. ― Ero veramente furioso, questo me lo ricordo bene. E la mamma piangeva ed era magrissima, e le pistole di Arthur le ho ancora nel cassetto del comodino ― mi giustifico, una volta compreso che Nate, sebbene abbia le labbra curvate all'ingiù, non è così triste per me. Sa che l'unico frammento di Alexander è in quella foto, sa che sto soffrendo soltanto perché la mia famiglia non è completa e desidererei che lo fosse. Sa che non riesco a far tornare alla memoria la risata di mio padre, i pomeriggi passati a divertirmi con lui, il momento in cui mi aveva regalato la piccola chitarra adatta ai bambini di tre anni e il pallone da rugby, credendo che sarei divenuto uno stallone dalle spalle larghe.

― Giochiamoci ― consiglia in un soffio.

― Mamma si metterebbe a singhiozzare, potrebbe tormentarsi per mesi. Non lo trovo giusto.

― Non lo trovo giusto nemmeno io, allora ― replica, esaminandosi le scarpe con fare curioso, come se non si fosse mai accorto dei lacci sporchi e del blu sbiadito. Vorrei ancora fermamente che mi stritolasse, ma la sua fermezza nel restare immobile, quasi a voler rimanere qui per sempre, rende la situazione più critica del normale. Le suole non sono interessanti, e lui sa anche questo. Però preferisce spolverare loro piuttosto delle menzogne di cui sono stato complice.

― C'è qualcosa che non va? ― domando, non riuscendo a reggere la tensione. La sua immagine è trasparente come il profilo di un fantasma, è presente, ma pare che la sua testa stia vagando in un altro mondo, nell'universo parallelo della sua malata innocenza.

― Mi spiace di averti obbligato a dirmelo ― si scusa, ed è seriamente imbarazzato di sé.

― Non l'hai fatto apposta, è colpa dei tuoi occhi ― spiego, felice che perfino un discorso infondato come questo sia stato capace di persuaderci in una nuova conversazione. Sono sicuro che Alexander sarebbe fiero del mio amico, se soltanto fosse rimasto a crescermi. Nathan che è il problema, Nathan che è consapevole di essere il problema? Non c'è sciocchezza più grande. Lui non è il veleno, ma la cura. Non posso lasciarlo in balia d'insinuazioni che non merita di ricevere, di tormenti che non merita d'affrontare.

― Cos'hanno i miei occhi di brutto? ―, la voce incrinata e più alta di un ottavo rispetto a prima. Ora ha sollevato lo sguardo e il suo dito sta indicando il suo stesso viso dalle gote scavate, dalle occhiaie dovute ai libri. È convinto d'aver fatto qualcosa di sbagliato. Nate ha assecondato il mio racconto, non dimostrandosi particolarmente commosso alla conclusione – anche se il suo furbo silenzio stava a indicare una sorpresa repressa, come se lasciandosi andare, avrebbe rischiato di piagnucolare o sprofondare nell'autocommiserazione – e non c'è niente d'ingiusto nella sua reazione. Ha capito che sto bene, che Alexander è con suo fratello in un posto migliore, che Corinne ci ha spiegato tutto per arrestare le nostre domande a riguardo.

― Niente, assolutamente niente. Semmai sono troppo ammalianti ― ammetto. ― Ma non dipende da te.

― Pensi che i miei occhi siano ammalianti? ― solleva la questione, colpito dalla dichiarazione, quasi fosse d'amore. È talmente sbigottito, le sopracciglia formano un semicerchio perfetto, che mi sarei messo a ridere se non fosse stato un gesto inadeguato.

Annuisco. ― Non ho mai visto degli occhi come i tuoi prima d'ora.

― E perché ritieni che siano così speciali? ― mi sollecita, ma non per ascoltare delle smancerie, quanto per lo stesso motivo che aveva spinto me a conoscerlo: la folle curiosità.

Perché sono i tuoi. ― Perché sono verde lime. Ed è assurdo.

Nate sembra deluso della risposta e allo stesso tempo reduce di un accurato esame di coscienza: sperava in un movente più intimo, ma già era certo non gli sarebbe stato dato. Incredibile come riesca a mascherare lo stupore anche in questo caso: le guance s'arrossano un poco, le mani allacciano più stretti i braccialetti di pelle ai polsi, la visuale si sofferma un secondo su di me, cinque secondi sul corridoio, le sue corde vocali dettano un: ― Anche tu hai degli occhi... carini.

Il mio sorriso si allarga. ― Non sei obbligato a ricambiare il complimento.

― N-no... ― balbetta, sollevandosi all'improvviso. Quest'intenzione dà spazio a delle mie considerazioni: da una parte Nate vorrebbe dichiarare i suoi sentimenti, dall'altra sotterrarsi per aver intrapreso l'argomento e quello scatto aveva cercato di depistarlo. ― Perché non mi fai vedere la tua stanza?

Rido, divertito dal suo tentativo di mascherare i sentimenti. ― Pure quella sarà carina come i miei occhi ― affermo, stando ben attento a celare la presa in giro. Non mi ero ancora reso conto dei suoi lineamenti delicati; possibile che il luccichio nelle pupille lo renda meraviglioso? Possibile che possa meravigliare più di così? Possibile che lo sia sempre stato? Come ho fatto ad accorgermene soltanto adesso?

Lui ghigna, arricciando il naso. ― Lo spero.

― Lo prometto.

[Angolo playlist: Honeymoon, Lana Del Rey.]

Anima d'acciaioWhere stories live. Discover now