I. Anime ceneree

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Sono seduta qui, a questo tavolo dove anime ceneree pensano di essere in grado di spillarmi anche solo un centesimo.
«Colore!» urla uno fra tanti e anche se qui la truffa è pane quotidiano, con sguardo disinteressato butto giù l'ultima mano di questa squallida partita a a poker, rigirandomi una fiche tra le dita.
«Cazzo non ci credo, full!»
«Ce l'ha messa in culo anche sta volta, che stronza!»
«Di nuovo?! Cazzo sei incredibile!»
È un classico, sono le uniche frasi che sanno dire mentre con rabbia sorseggiano le loro birre e sbattono con violenza le bottiglie vitree semivuote sul tavolo.
Ho il viso coperto da una bandana rossa ed un berretto da baseball verde lascia appena intravedere i miei occhi -non che abbia il viso sfigurato o qualcosa di simile- ,mentre annoiata mi passo le dita tra i lunghi capelli folti e mossi raccolti in una coda alta. Non posso permettermi di scoprire i tratti del mio viso, soprattutto qui dentro, ove sguardi colmi di perfidia riuscirebbero a scovare di chi sono figlia.
«Niente discussioni, datemi i soldi.» ribatto infastidita, cercando di assumere un tono imponente, come se l'onestà o la rabbia funzionassero; nel frattempo osservo i loro sguardi affranti fare contrasto con i muri ingialliti dalla nicotina. I posaceneri sono pieni di mozziconi, sigarette già fumate e finite come le loro vite sbriciolate in piccoli frammenti di carta bruciata. Dovrebbero sfamarci la famiglia con i soldi che mi devono, eppure a volte la cattiva sorte li porta qui, in questo squallido casinò dove pensano di essere capaci anche solo di poter governare e controllare il proprio portafogli; ma non mi avrebbero messo in una stanza da sola se non fossi una macchina produttrice di soldi per questo posto e per il portafogli della famiglia. Sopra le nostre teste si staglia una nuvola di fumo che incrosta di un colore cereo sporco il soffitto, dovuta al continuo fumare compulsivo che spesso ho ed hanno anche altri giocatori e forse è proprio lì che le loro anime stantie si fermano e penetrano nel cemento freddo di questo luogo.
Sono tutte anime perse, nere, dipendenti da tutto ciò che li porta a dimenticare dove vivono: sono vere e proprie gabbie per umani, prigioni, celle senza chiave. Luoghi di perdizione mentale. Nonostante ció sono talmente anonimi da non percepirne neanche la presenza, a volte.
I loro soldi finiscono tutti al centro del tavolo, trecento a testa e ci ho fatto su all'incirca mille dollari; me li intasco e mentre gli altri escono saluto il croupier, varcando la soglia della porta che mi conduce all'androne di scale lussuoso che padroneggia l'ingresso, illuminato delle sgargianti luci colorate delle slot machines.
Il locale è gremito di gente, il che è abbastanza usuale, se solo non sentissi un paio di occhi osservarmi, scorrendo in breve tempo tra le curve troppo spesse del mio corpo. Non ho le allucinazioni, ma quando mi giro questa volta non c'è nessuno a guardarmi; c'è solo un ragazzo appoggiato alle scale che parla con Marylin, la persona a capo di questo spizio per quarantenni poco soddisfatti della loro vita. Sento una strana sensazione schiacciarmi lentamente lo stomaco: ha lo stesso peso di una montagna eppure sembra essere così fluido e leggero.
Torno a camminare verso l'uscita e mentre esco estraggo filtri e cartine, dalla tasca della felpa tiro fuori una piccola stagnola contenente cannabis, consapevole di quanto possa essere squallido farne uso. In un modo o nell'altro cerco di rilassarmi con qualcosa di esterno, un oggetto di cui fare uso in situazioni come queste in cui l'ansia di non farcela mi è stata addosso per tutte queste ore di gioco d'azzardo. Non ne sono dipendente, ma a volte è inevitabile, in mezzo a questo mondo farlocco e pieno di acidità o vai da uno psichiatra o ti fai di qualcosa. C'è addirittura chi fa entrambi.
L'aria notturna sferza sul mio viso non ancora scoperto e io faccio uno squillo a papà per fargli capire che ho finito, di modo che mi venga a prendere. In lontananza, vedo una macchina e sento che ne proviene della musica non difficile da riconoscere.

"Knock-knock knocking on heaven's door!" La voce di Axel Rose graffia il cielo notturno e porta via con sé le emozioni strazianti di questa serata. Una frase sola e la mia mente schizza tra le nuvole con i Guns 'n' Roses di sottofondo, bussando alla porta del paradiso anche per me. Effettivamente dovrei consultare uno psichiatra, uno di quelli bravi però. Canto a squarciagola fino a che l'auto non mi passa davanti, ho gli occhi chiusi e in questo momento sento solo di volermi godere i miei diciassette anni anche solo per il tempo di una canzone.
Poi all'improvviso sento la medesima sensazione di poco fa ed è come se gli stessi occhi, lo stesso sguardo, mi fossero ancora adosso come se la persona che mi guarda stesse puntellando il mio corpo con le sue iridi di un colore a me sconosciuto.
La curiosità che nasce dentro il mio petto mi convince ad aprire gli occhi: quando le mie palpebre si alzano vedo il ragazzo del casinò osservarmi dal finestrino del passeggero calato, completamente abbassato e privo di riflessi che potrebbero nascondermi la visuale che ho di fronte; possiede gli occhi più splendenti che abbia mai visto, brillano alla luce della notte come pozze d'acqua, due piccole lune chiare in cui riesco a riflettere il mio sorriso da ebete, consapevole di quanto faccia freddo sul lato oscuro della luna, quello colmo di crateri e freddo d'ombra come la mia esistenza.
È soggettivamente inevitabile che il mio sguardo s'incateni al suo come se qualche filo ci stesse tenendo attaccati, piccoli lacci invisibili che uniscono le nostre pupille.
La canzone giunge al termine e lui dà gas all'auto, che in ben poco tempo riparte ed io resto qui, con i fili che ci legano a tagliuzzare il mio cuore più la distanza si fa ampia tra di noi.
Un quarto d'ora dopo arriva papà con una Cadillac troppo vecchia per dare nell'occhio ed eccedere in lusso. Sfioro la carrozzeria sfregiata da cui ad ogni leggero tocco la vernice rosso vermiglio cade a terra. Mi fiondo all'interno dell'auto dove un senso di protezione mi avvolge e rassicura dolcemente, a volte sono cose come queste i lati positivi di un genitore, mettendo da parte quanto male possano averti inferto involontariamente.
«Sono cinquecento a testa circa.» annuncio, fiera di essermi guadagnata un punto in più mantenendo alta la mia dignità, passandogli la mazzetta di soldi che gli devo. Un secondo dopo se la infila nella tasca interna della giacca di pelle perennemente sgualcita, un classico di papà.
«Fantastico, devo dire di averti cresciuto proprio bene» ride di una risata amara, sapendo dentro sé che non è andata proprio così:«Domattina io ed Elizabeth dobbiamo partire, te ne avevo parlato...» annuisco, non sono in grado di dire altro, ho un nodo in gola e un conato di vomito sale lentamente nel mio esofago:«Non ti lascio da sola, okay?» per quanto il suo tono di voce sembri sicuro, un leggero tremore è fermo sulle sue labbra chiare quanto la sua pelle pallida. Perché deve sempre esserci qualcosa pronto ad andar storto?
«Verrà ancora Dev?» chiedo, un po' più serena al pensiero che possa essere Dev a prendersi cura di me. Dev è un vecchio amico di papà; appena siamo scappati dalla Sicilia è stato lui il primo ad accoglierci qua, in America, senza che né io né papà sapessimo una parola d'inglese. Uomo sulla cinquantina, conducente di autobus di linea che maschera il suo effettivo lavoro: quando siamo arrivati nella periferia di Detroit, la comunità italiana non era molto vasta, ma con il nostro arrivo si è espansa e nonostante i nostri affari non siano proprio legali, siamo riusciti a cavarcela e ad uscire dallo schifo che ci ha infangati fino a qua.
«Non proprio..» sussurra tossendo, questo dovrebbe già farmi capire che c'è qualcosa di sospetto dietro, ma la curiosità che ho per sapere quale sarà la fine che farà la mia incolumità mi terrorizza: cosa ne sarà di me per le prossime tre settimane?
«Oh papà, cazzo! Ho diciassette anni, non puoi lasciarmi a casa da sola però mi mandi a giocare illegalmente a poker contro pedofili falliti!» ribatto stizzita dai suoi ragionamenti che spesso mi lasciano perplessa. Ditemi che non è serio, a costo di mentirmi.
«Lo sai anche tu il motivo per cui non ho intenzione di lasciarti sola. Proprio adesso che dovrò stare via praticamente quasi un mese secondo te ho il coraggio di lasciarti sola?! Non do mia figlia in pasto ai lupi affamati.» afferma e il rancore che gli lacera i polmoni è udibile dal tono che usa. Come se fosse tutto il dolore se lo fosse subito lui; come se i problemi che per anni hanno atterrato la mia anima li avesse affrontati lui; semplicemente come se lui fosse stato al mio posto. La forza che ho avuto lui se la può solo sognare.
«A me sembra invece che tu lo abbia già fatto in passato.» secca, chiara e limpida, dritta al punto, pronta a ferirlo con le mie stesse ferite.
«Stella sai anche tu che ho fatto tutto il possibile quella notte.» accosta nel parcheggio di casa e appoggia la testa al volante, visibilmente amareggiato. Ma non mi basta la compassione, non mi è necessario il suo dispiacere che a volte sembra essere così ipocrita.
«E allora perché mamma non è qui se hai fatto tutto il possibile?» sono arrabbiata, ogni volta che le nostre discussioni vanno a parare in questo cantone dolente sento il mondo esplodere attorno a me. Voglio che le fiamme ardano il mondo che mi ha fatto così male. Non capisco più nulla né di quello che penso né di quello che dico. Forse non voglio ammettere che già sento la sua mancanza anche se è seduto al mio fianco, che mi sento improtetta senza papà accanto a me. Non vedo l'ora che questo mese finisca..e non è neanche iniziato.

Detroit Downtown LoveTempat cerita menjadi hidup. Temukan sekarang