Bambi

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Non dissi mai la verità sulla mia sparizione. Sinceramente non volevo infierire su una mente già compromessa. Fra l'altro ero sicura che non sarebbe ricapitato.
Sette anni. Potevano essere di più come di meno e sembrano nulla in confronto alla durata della vita media di una persona, ma quegli anni hanno la stessa importanza di venti o uno.
La prigionia, l'incapacità di poter decidere da sé. La vera tortura fu proprio quella.
Avevo provato ad aiutarlo in ogni modo, spinta dalla cotta che avevo, ma lui riversava su di me la stessa rabbia da cui non poteva fuggire.
Col tempo lo vidi per quello che era: una persona disturbata e incurabile, logorata dalla malattia. Arrivata a tale conclusione, i miei sentimenti per lui si annullarono gradualmente. Affamarmi aveva fatto si che mi distaccassi totalmente da lui. L'unica cosa a cui pensai da quel momento era come fuggire da quell'Inferno.
Non era di certo una cosa facile da fare, quel maledetto scantinato era perfetto. Chissà per quanto tempo ci aveva lavorato, da quanto pensava di rinchiudermi lì dentro.
Nel tempo che restai sua prigioniera divenni poco più di una bambola. Non parlavo, non mi muovevo, mangiavo quando lui non c'era.
Ciò gli diede il diritto di ammorbarmi con la sua patetica vita, raccontandomi i suoi tormenti. Era una tortura peggio di quella mia prigionia, tuttavia non avevo scelta. Se non altro sembrò che lui avesse raggiunto una certa stabilità mentale e pensai che altri rischi ormai non li avrei corsi. Bastava non istigarlo.
In quegli anni provai molte emozioni nei confronti del mio carceriere. Arrivai a odiarlo come ad averne pietà. Più si confidava e più un sentimento di compassione si faceva strada dentro di me. Odiarlo era sbagliato, come anche amarlo come feci all'inizio, ma fu impossibile per me, oltre alla pietà, non provare afferro per quell'Anima così martoriata dalla vita. Arrivai quasi a pregare in un miracolo di guarigione, ma neppure il Divino voleva aiutarlo.
In silenzio osservai la sua vita scorrere davanti ai suoi occhi. Non potevo lamentarmi di non sapere cosa succedesse fuori da quella mia gabbia. Ci teneva molto a farmi sapere come il Mondo stesse andando avanti senza di me, come ormai sembrava mi avesse dimenticata e quante cose mi stavo perdendo.
Vedevo che ci godeva. A quanto pare la sua tortura era proprio quella, parlarmi di ciò che forse non avrei mai più avuto.
Dopo un po' iniziai a pensare che dopotutto mii era andata bene. Poteva farmi ben altro. Ero completamente nelle sue mani, eppure non mi sfiorò mai. Un qualcosa che una gran parte di me apprezzò a tal punto da iniziare appunto a provare compassione nei suoi confronti.
Ciò nonostante, non ero disposta a passare la mia vita in quel posto. Non ero fatta per vivere come un uccellino in gabbia, privato della luce, della facoltà di volare.
Mentre lui continuava nel suo giocare con me, io mi ero pian piano impossessata di utensili rudimentali che trovai scavando a fondo in quello scantinato. Nessun luogo era realmente isolato dall'esterno e, cerca oggi cerca domani, trovai abbastanza oggetti da poter usare per scavarmi una fossa che mi avrebbe portata all'esterno.
Mi sentii come l'anziano amico di Edmond, però sperai tanto di non passarci davvero tutta la vita a scavarmi la via di fuga. Avevo solo un cucchiaio e una forchetta. Dovevo stare attenta a non romperli che altri oggetti utili non c'erano.
Dopo un po' compresi che quella impresa era una vera stronzata... Ci misi pure un annetto per capire che di quel passo da lì sarei uscita prima in una bara. Fra l'altro il rischio di farsi scoprire era alto.
No, dovevo cambiare piano.

Ero stanca. Gli anni passarono e ormai mi sentivo sulla schiena più anni di quelli che avevo in realtà. Per un periodo sperai quasi mi avvelenasse, che si stufasse e ponesse fine a quella mia agonia. Per brevi istanti pensai pure al suicidio. Colpa del mio attaccamento alla vita se non lo feci mai.
Non restava che sperare in una sua distrazione. Ormai era così sicuro di sé che per la legge matematica delle percentuali un errore viene sempre fatto. Era come sperare nel miracolo della sua guarigione. Una mente disturbata non rientra nelle regole dettate dall'Universo. Forse avrei dovuto rassegnarmi davvero a quella condizione.
Chissà se sarei morta prima io o lui. Nel secondo caso io l'avrei seguito poco dopo per stenti, dato che nessuno avrebbe mai saputo dov'ero e lui era una persona tremendamente sola. Non aveva amici, amanti, famiglia. Era completamente isolato dal resto del Mondo. Persino il suo lavoro era in solitaria, anche se non me ne parlò mai nello specifico.
A pensarci, io ero l'unico individuo con cui avesse a che fare. In un certo senso lui era prigioniero come me, ma ingabbiato nella sua stessa mente.
Un giorno poi tutto cambiò. Lui aveva un leggero mal di testa, ma non era uno di quelli classici, era come le gocce che perde un lavandino in piena notte. Perpetualmente ti provocava un fastidio così forte da amplificarne il disagio, il dolore.
Dopo la sua visita giornaliera prese e andò via, ma stavolta non sentii schioccare la porta, ma solo la serratura. Una serratura che era andata a vuoto.
Il cuore mi si precipitò in gola, perché quel dettaglio non passò in osservato e avevo passato così tanto tempo a immaginarlo che quasi non credetti di averlo sentito davvero.
Aspettai un po' prima di muovermi da quel mio giaciglio. Lui poteva sempre accorgersene, tornare, chiudere bene e tornarsene a fare quello che stava facendo. E se mi avesse trova nell'atto della fuga?
Sapevo che non mi avrebbe fatto del male, ma non sapevo come avrebbe reagito la sua mente instabile se mi avesse beccata in piena fuga.
Si fece notte, il buio era ormai un mantello che avrei potuto sfruttare a mio favore, ma il silenzio... beh... quello era un nemico pronto ad attaccarmi. Il minimo rumore avrebbe potuto rimbombare nella casa come un colpo di cannone, perché non sarei stata più nello scantinato isolato dal resto del Mondo. No, in quella casa, oltre quella porta isolante, sarei tornata nel Mondo. In un Mondo che non vedevo da ormai sette anni.
Ero così tesa durante il tragitto che feci fino a quella porta che il cuore lo sentivo scalpitare velocissimo nelle mie orecchie. Per un attimo pensai che una volta nella casa tutto il Mondo lo avrebbe sentito e io sarei stata scoperta dal Mostro della dimora. Non sapevo neppure se stesse dormendo. Non sapevo nulla.
Appoggiai la mano sulla maniglia e non dovetti fare nessun movimento, solo tirarla verso di me. Non scricchiolò neppure. Era davvero aperta.
Un tuffo al cuore mi fece quasi girare la testa. Un leggero vento carezzò il mio volto. Erano passati anni. In quel posto avevo quasi dimenticato cosa volesse dire sentire il freddo, il caldo, il vendo sulla pelle. Persino gli odori che sentii mi sembrarono del tutto nuovi.
Trattenni il respiro mentre portavo un piede fuori da quella gabbia al corridoio che mi accolse nel buio più totale.
La prima parte difficile ora era chiudere quella porta e serrarla, perché dovevo avere il tempo, una volta fuori, di poter scappare il più lontano possibile e non sapevo quanto tempo avrei avuto a disposizione veramente.
Come detto non sapevo neppure se fosse ancora sveglio e non era inusuale che qualche notte lo trovassi nello scantinato a osservarmi.
Avevo imparato a far finta di nulla, ma le prime volte temetti per il peggio.
Uno scroscio continuo catturò solo allora, quando il mio cuore ormai sembrò capire che era meglio ridurre il proprio grido ai minimi termini, il mio interesse. Stava piovendo e questo significata tuoni e lampi.
Bastava quindi l'attimo giusto e... chiusi la porta e girai la toppa nel momento in cui un tuono, all'inseguimento di un lampo, rombò frustrato e rabbioso.
Era fatta e gli occhi si erano anche abituati all'oscurità.
Attesi di essere sicura che lui non mi avesse udita e che soprattutto non fosse sveglio.
Mi concessi un sospiro lieve, silenzioso, ma liberatorio.
Cercai la fonte di quella brezza notturna. Il vento significava che c'era un'apertura da cui filtrava. Forse una porta, forse una finestra. Più probabile la seconda.
Il tempo esterno era dalla mia, dovevo sfruttarlo al meglio.
Percorsi lentamente il corridoio, seguendo un fascio di luce che mi condusse in un grande salone con una finestra a bovindo, quasi vecchio stile. Una delle finestre era chiaramente aperta, anzi socchiusa, per far arieggiare l'aria all'interno della casa.
Mi ci avvicinai senza rendermene conto e quando scostai la tenda che svolazzava lievemente, gonfiata dal vento, gli occhi mi si umidirono. L'esterno, da quanto tempo non lo vedevo? Mi sembrò un'eternità.
Portai una mano alla bocca per soffocare eventuali singhiozzi. Ero libera, quasi libera.
Come per la porta dello scantinato, attesi il ringhio del cielo per aprirla di più e uscire subito all'esterno, dove fui accolta dal gelo della notte e una pioggia incessante che mi inzuppò nel giro di qualche istante. Non seppi neppure io come riuscii a uscire senza ruzzolare per terra e fare un casino della madonna. Forse le mie preghiere disperate erano arrivate in qualche modo alle orecchie giuste.
Altro tuono e la finestra fu socchiuso così come l'avevo trovata.
Ero fuori. Ancora non ci credevo. Iniziai a respirare a pieni polmoni. Difficilmente mi avrebbe sentita ora che la pioggia mi copriva. Il cuore iniziò a battere festoso e, anche se avrei dovuto ancora farlo, mi lasciai andare a un sorriso liberatorio colmo di speranza.
Ero fuori. Ero libera.
Senza voltarmi indietro iniziai a correre verso un punto imprecisato. Non mi importava dove i piedi mi avrebbero diretta, purché fossi arrivata il più lontano possibile da quell'abitazione e dalla Bestia che l'abitava.

« Dove sei stata tutto questo tempo?! Ti prego, diccelo! »
La voce di mia madre era rotta, un misto di terrore e rabbia. Non sapevo se fosse contenta di vedermi o arrabbiati di più dalla mia sparizione. Ero zuppa, reduce da sette anni di prigionia. Avevo tanto da dire, ma restai muta. Non ricordavo come emettere suoni.
Incespicai qualcosa, ma uscirono solo rantolii senza senso. Come avevo fatto a perdere l'uso della parola?
« Perché non parli? » Chiese mio padre con toni più calmi, ma ovviamente non ebbe risposta.
Dopo qualche attimo mi abbracciarono con una tale gioia che sembrò quasi che non gli importasse più nulla della verità che avrei nascosto per sempre. Ero di nuovo con loro, ero libera. Ora avevo solo bisogno di tempo per ritornare alla normalità.
Passò qualche mese e qualche seduta ben assestata dallo psicologo per tornare a parlare. In quell'asso di tempo, di mutismo involontario, pensai alla versione migliore che potessi dare a quei sette anni di prigionia.
Non avrei detto la verità. Non so il perché ma volevo proteggerlo ancora nonostante tutto. In fondo, non mi aveva fatto del male, non fisicamente almeno, e neppure denigrata, offesa, umiliata. Era strano ma la rabbia che provavo per lui era pian piano scemata.
« Sei pronta? » Mi chiese il giornalista.
Col cenno del capo dissi di si e andammo in onda. Quella sarebbe stata una delle tante interviste che avrebbero parlato di una giovane donna fuggita per scoprire il Mondo "on the road", lontana dalla società. Una storia alla "Into the wild", ma finita bene.

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